18 Novembre
Luigi Majoli
Materie di mediazione obbligatoria
La L. 55/2006 ha introdotto nell’ordinamento italiano i “patti di famiglia”, istituto che consente al titolare dell’impresa di anticipare il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni sociali ai discendenti (o al singolo discendente) che diano più ampie garanzie di adeguatezza con riferimento alla gestione dell’impresa o comunque che siano maggiormente interessati alla stessa.
L’art. 768 – bis, c.c., qualifica il patto di famiglia come “…il contrattocon cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti”.
La ratio, chiaramente, è quella di garantire (in deroga, sia pur parziale, al divieto di patti successori, come si vedrà infra), la continuità nella gestione dell’azienda o della partecipazione sociale, al fine di evitare i pregiudizi al loro valore ed alla loro consistenza che deriverebbero da un eventuale frazionamento ed in particolare dall’insorgere di controversie di natura ereditaria.
Il contratto, a pena di nullità, deve essere concluso per atto pubblico (art. 768 – ter, c.c.).
Devono necessariamente partecipare al contratto, secondo quanto disposto dall’art. 768 – quater, co. 1, c.c., non solo il disponente e beneficiario, ma anche “…il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore”.
Il co. 2 della medesima disposizione prevede altresì che gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie saranno tenuti a “liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti”; i contraenti potranno tuttavia convenire che la liquidazione, in toto o in parte qua, avvenga in natura.
Lo stesso art. 768 – quater, nel co. 3, dispone che “I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti”; si contempla peraltro espressamente la possibilità che l’assegnazione sia disposta “…anche con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti”.
Infine, il co. 4 della disposizione in parola prevede che quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione.
Ora, sulla base delle disposizioni che precedono, possiamo affermare che il patto di famiglia costituisce un contratto plurilaterale inter vivos ad effetti reali, a titolo gratuito, attraverso il quale, pertanto, il titolare di una azienda od il titolare di quote sociali, vale a dire il disponente, trasferisce a uno o più dei suoi eredi (assegnatari o beneficiari) la proprietà di una parte dei propri beni destinati a cadere in successione (ossia l’azienda ovvero quote di partecipazione in società).
Con l’istituto in esame, quindi, parte dei beni destinati a cadere in successione risultano sottratti alla devoluzione ereditaria, beninteso a condizione che sia stato prestato il consenso dei legittimari. Il che, evidentemente, è funzionale alla continuità dell’impresa, che viene ad essere garantita in ordine alle vicende successorie conseguenti alla morte del disponente, con contestuale contemperamento, per l’appunto, dei diritti dei legittimari.
Come già accennato in precedenza, i patti di famiglia rappresentano una deroga espressa al divieto di patti successori, di cui all’art. 458 c.c. (“Fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768 bis e seguenti, è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. È del pari nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi”).
Ma non solo. Dal dettato normativo richiamato, emerge come i patti di famiglia costituiscano altresì un’eccezione all’azione di riduzione di cui all’art. 533 c.c. (“L’eredepuò chiedere il riconoscimento della sua qualità ereditaria contro chiunque possiede tutti o parte dei beni ereditaria titolo di erede o senza titolo alcuno, allo scopo di ottenere la restituzione dei beni medesimi”) nonché alle normali regole in materia di collazione di cui all’art. 737 c.c. (“I figlie i loro discendentied il coniuge che concorrono alla successione devono conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente salvo che il defunto non li abbia da ciò dispensati. La dispensa da collazione non produce effetto se non nei limiti della quota disponibile”).
A norma dell’art 768 – sexies, c.c. all’apertura della successione del disponente, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dall’art. 768-quater, co. 2, aumentata degli interessi legali. L’inosservanza delle predette regole costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell’articolo 768-quinquies, c.c., secondo il quale il patto può essere impugnato da tutti i partecipanti, quindi non esclusivamente il coniuge o i legittimari bensì anche l’imprenditore o gli assegnatari, nel termine di prescrizione di un anno, ai sensi degli artt. 1427 e ss. c.c., vale a dire laddove il contratto sia stato stipulato in presenza di un vizio del consenso del disponente, ovvero in caso di errore da parte dello stesso o ancora nell’ipotesi di costrizione alla sottoscrizione mediante violenza o inganno.
A norma dell’art. 768 – septies, c.c., il contratto di patto di famiglia può essere sciolto o modificato dalle stesse persone che lo hanno concluso attraverso due distinte modalità.
Innanzitutto, “…mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo”; occorrerà pertanto la necessaria partecipazione di coloro che eventualmente abbiano partecipato al patto anche successivamente alla stipula dello stesso e gli adempimenti pubblicitari cui dovrà provvedersi dovranno essere i medesimi.
Inoltre, “…mediante recesso, se espressamente previsto nel contratto stesso e, necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio”. Il contratto, pertanto, dovrà disciplinare le modalità del recesso e potrà altresì prevedere detta facoltà in favore di tutti i partecipanti al patto. Naturalmente, se ad esercitare il recesso sarà l’imprenditore disponente (ovvero l’assegnatario), l’azienda o le partecipazioni societarie rientreranno nel suo patrimonio, con conseguente scioglimento del contratto. Se invece il recesso sarà posto in essere da un legittimario non assegnatario, il contratto non andrà a sciogliersi, insorgendo però in capo al recedente l’obbligo di restituzione della somma liquidata in proprio favore ai sensi dell’art. 768 – quater, co. 2, equivalente cioè alla sua quota di legittima ed agli interessi maturati.
Ora, nell’ipotesi in cui insorgano controversie in materia di patti di famiglia, ai sensi dell’art. 5, co. 1, D.lgs 28/2010 prima di avviare l’eventuale azione giudiziaria si dovrà necessariamente instaurare un procedimento di mediazione, dal momento che si tratta di materia inserita dal legislatore nel novero di quelle in ordine alle quali la mediazione si pone quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Pertanto, sarà necessario – con l’assistenza dell’avvocato – depositare una domanda di mediazione presso un organismo territorialmente competente, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 4, D.lgs 28/2010.
Il predetto regime non deve stupire: è ben noto come assai di frequente l’impresa possa rappresentare, per chi ne sia stato promotore, un valore non solo economico, bensì anche affettivo. Spesso, perciò, per chi abbia avviato e coltivato un’attività imprenditoriale, la continuità della stessa nell’ambito familiare rappresenta un vero e proprio bisogno primario. Naturalmente, però, non tutti i discendenti potrebbero essere nella stessa misura interessati ad un progetto siffatto, stanti le diverse priorità ed i diversi progetti di vita.
I patti di famiglia, dunque, si propongono di far sì che i successibili disinteressati alla conduzione dell’impresa possano evitare di preoccuparsene e che, per converso, la conduzione stessa sia lasciata agli eredi aventi l’interesse e le capacità adeguate.
Laddove quindi in una materia come quella dei patti di famiglia, caratterizzata da una così rilevante compenetrazione tra interessi economici e di altra natura (familiari, affettivi, emotivi, etc.), finiscano con l’insorgere controversie, la mediazione sembra rappresentare effettivamente uno strumento atto al recupero del dialogo, alla conservazione dei rapporti e soprattutto a favorire l’emersione dei reali bisogni di tutti i soggetti coinvolti i quali, essendo i reali protagonista della negoziazione, avranno in molti casi la possibilità di pervenire ad un contemperamento di interessi il più possibile satisfattorio, anche nell’interesse della continuità aziendale.
Si comprendono, pertanto, sulla base delle considerazioni che precedono ed in virtù della presenza attiva di un soggetto terzo ed imparziale quale il mediatore, le ragioni per cui il legislatore abbia inteso considerare la mediazione in materia di patti di famiglia quale strumento conciliativo maggiormente adeguato alle prevedibili caratteristiche della lite insorta o insorgenda.
Luigi Majoli
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