15 Novembre
Luigi Majoli
Associazione in partecipazione
L’associazione in partecipazione è il contratto con cui una parte associante attribuisce a un’altra parte (associata) la partecipazione agli utili della propria impresa o di uno o più affari, in cambio di un corrispettivo determinato (CC art. 2549).
Un po’ di matematica aiuta a capire il contratto: considerati l’importo del contributo economico pagato dall’associato (C) e l’investimento sostenuto dall’associante (I), si calcola il margine dell’associato (m = C/I), che rappresenta la percentuale da applicare al profitto dell’associante (P), cosicché si calcoli il risultato dell’associato (R = mP). Perciò, il contratto di associazione in partecipazione deve precisare a quanto ammontano il contributo pagato dall’associato (C) e l’investimento sopportato dall’associante (I), per evitare conflitti futuri.
L’art. 2553 del CC precisa che, salvo patto contrario, l’associato partecipa anche alle perdite nella stessa misura percentuale in cui partecipa agli utili (–mP anziché +mP), ma le perdite a carico dell’associato non possono superare il valore del suo apporto (–mP < C). Infatti, «i terzi acquistano diritti e assumono obbligazioni soltanto verso l’associante» (CC, art. 2552).
Qualora l’associato contribuisca anche con una prestazione di lavoro, il numero degli associati che svolgono la stessa attività non può essere superiore a 3, altrimenti la prestazione di lavoro si qualifica come lavoro subordinato a tempo indeterminato (CC, art. 2549), con l’unica eccezione per i rapporti coniugali, di parentela o di affinità.
Salvo patto contrario, l’associante non può attribuire partecipazioni per la stessa impresa o per lo stesso affare ad altri senza il consenso degli associati precedenti (CC, art. 2550).
La gestione dell’impresa o dell’affare spetta all’associante, ma le parti possono stabilire quale controllo l’associato possa esercitare sugli affari. Comunque, l’associato ha diritto al rendiconto dell’affare o al rendiconto annuale, se l’attività si protrae per più di un anno (CC, art. 2552).
Di solito il contratto di associazione in partecipazione coinvolge due o più imprenditori, motivati a collaborare (finanziariamente o materialmente), per maturare un interesse commerciale (R = mP per l’associato; U = P–R per l’associante): i problemi tra associati nascono quando la fiducia reciproca muore, per la delusione nelle capacità imprenditoriali o per l’insolvibilità di una parte o (più facilmente) per l’incapacità o l’impossibilità di calcolare il margine di rischio dell’associato (m = C/I). Perciò, si svolge una mediazione per liti di associazione in partecipazione con un approccio econometrico. E, comunque, è bene prevenire le liti, redigendo contratti efficienti.
Inoltre, l’amministrazione svolta dall’associante potrebbe esporre l’impresa a rischi negativi nei confronti dei terzi, che potrebbero essere tentati di rivalersi sull’associato (magari più solvibile dell’associante): perciò, l’art. 2553 del CC limita il rischio dell’associato. Ciononostante, i soci potrebbero litigare sulle cause delle disfunzioni imprenditoriali: allora una mediazione serve a misurare i profili di rischio e le alternative economiche più efficienti.
La mediazione civile e commerciale serve ad analizzare le partite economiche con un approccio tecnico, pur arginando l’aspetto “umano” del conflitto: le emozioni negative con cui i soci si affrontano in lite, le accuse e le colpevolizzazioni reciproche distolgono l’attenzione delle parti da ciò che conta davvero. Un mediatore serve per far sfogare gli aspetti umani velocemente e costruttivamente, utilizzandoli come “leve motivazionali”, che orientino le parti verso soluzioni soddisfacenti.
Per tutti questi motivi, il D. lgs 28/2010 (art. 5) prescrive che le parti tentino una mediazione civile e commerciale prima di attivare un giudizio in tribunale in materia di associazione in partecipazione: la c.d. condizione di procedibilità dell’azione giudiziale.
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