Sin dall’originario testo del D.lgs 28/2010, la materia condominiale rientra nell’alveo in cui la mediazione si pone come condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Si tratta, dunque, delle controversie derivanti dalla violazione o dalla errata applicazione delle disposizioni riguardanti il condominio, vale a dire Libro II, Titolo VII, Capo II del codice civile (vale a dire artt. 1117-1139) e degli articoli da 61 a 72 delle disp. att. c. c.
Posto che l’obbligatorietà del tentativo di mediazione deve considerarsi estesa anche al c.d. condominio minimo, al c.d. condominio orizzontale e al supercondominio, tra le controversie in materia condominiale rientrano, in via non esaustiva, quelle relative alle parti comuni ed alla destinazione d’uso di esse, quelle – frequentissime – inerenti l’impugnazione delle delibere condominiali (art. 1137 c.c.), quelle relative all’amministratore ex artt. 1129-1133 c.c., le controversie riguardanti il regolamento di condominio, etc.
A tutti gli effetti “condominiali” – e quindi assoggettate alla condizione di procedibilità rappresentata dalla mediazione – devono poi essere considerate le controversie in materia di riscossione dei contributi condominiali (art. 63 disp. att. c.c.), nonché quelle relative all’amministratore, di cui agli artt. 66 e 67 disp. att. cc., oltre a quelle concernenti le tabelle millesimali (artt. 68 e 69, disp. att. c.c.) ed i regolamenti di condominio (artt. 70 e 72, disp. att. c.c.), come anche le controversie in materia di scioglimento de condominio di cui agli artt. 61 e 62 delle medesime disp. att. c.c.
Diversa la situazione, invece, per quanto concerne la tematica della revoca dell’amministratore. A tale proposito va rilevato che è ben vero che, come in precedenza già osservato, nel novero delle controversie in materia condominiale rientrino anche quelle ricomprese negli articoli 61 a 72 delle disp. att. c.c., tra le quali, pertanto, anche l’art. 64 (revoca dell’amministratore), ma è altresì vero che l’art. 5, co. 6, lett. f), D.lgs 28/2010, esclude l’applicabilità della norma di cui al comma 1 dello stesso articolo nell’ipotesi (come quella in esame) dei procedimenti in camera di consiglio. Detta inapplicabilità si giustifica, secondo la giurisprudenza ormai largamente prevalente, con il carattere eccezionale ed urgente dell’azione in parola, ispirato dall’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela della corretta gestione dell’amministrazione condominiale; peraltro, tali argomentazioni trovano riscontro, dal punto di vista esegetico, dalla significativa elencazione di cui al citato art. 5, co. 6, D.lgs 28/2010, di tutti i procedimenti logicamente collegati dalle caratteristiche di celerità, informalità e semplicità, oltre che dalla definibilità degli stessi con provvedimenti non aventi il carattere della definitività e decisorietà (senza omettere la considerazione in ordine alla circostanza che il precedente comma quinto ha riguardo ai provvedimenti cautelari ed urgenti).
Con riferimento all’opposizione a decreto ingiuntivo, occorre oggi tenere ben presente la previsione di cui all’art. 5 – bis, D.lgs 28/2020, introdotto dalla c.d. riforma Cartabia, secondo il quale, accedendo alla ormai consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. SS.UU. sent. n. 19596 del 18 settembre 2020), il ricorrente opposto, formalmente convenuto nel relativo giudizio, deve considerarsi attore sotto il profilo sostanziale, mentre l’opponente, che formalmente ha agito, sempre sotto il profilo sostanziale deve ritenersi convenuto. Pertanto l’opposto, titolare della pretesa sostanziale azionata, divenuta oggetto del giudizio di opposizione, ha l’onere di promuovere il tentativo di mediazione, subendo, in mancanza, la declaratoria di improcedibilità della domanda, con conseguente venir meno della pretesa sostanziale proposta in via monitoria.
Ora con riferimento specifico all’ambito condominiale, si pensi all’ipotesi più frequente: l’amministratore del condominio, ai sensi dell’art. 1131 c.c., è il soggetto legittimato ad agire in giudizio, senza preventiva autorizzazione dell’assemblea condominiale, per riscuotere i contributi dovuti in base allo stato di riparto approvato dall’assemblea.
Può, pertanto, ottenere dal giudice un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo ex lege, secondo il disposto dell’art. 63, co. 1, disp. att. cod. civ.). Incomberà dunque sul condominio l’onere di attivazione del tentativo di mediazione una volta che il giudice, nel giudizio di opposizione, abbia pronunciato sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione, ai sensi degli artt. 648 e 649 c.p.c.
Ove il Condominio non si attivasse in tal senso, il decreto ingiuntivo, stante il mancato esperimento del tentativo conciliativo, dovrebbe essere revocato a causa del non avveramento della condizione di procedibilità della domanda, che, nell’ipotesi di pretesa fatta valere con ricorso per decreto ingiuntivo, è differita, come si è già accennato in precedenza, alla fase dell’opposizione in cui il giudice ha pronunciato sulla concessione o sospensione della provvisoria esecuzione.
Sotto il profilo prettamente procedimentale, occorre sottolineare come una delle più rilevanti innovazioni apportate dalla c.d. “riforma Cartabia” alla disciplina della mediazione civile, ed in particolare a quella relativa alla materia condominiale, è certamente rappresentata dall’introduzione, da parte dell’art. 2, co. 2, D. Lgs. 149/2022, dell’art. 5- ter, D.lgs 28/2010, a tenore del quale “L’amministratore del condominio è legittimato ad attivare un procedimento di mediazione, ad aderirvi e a parteciparvi. Il verbale contenente l’accordo di conciliazione o la proposta conciliativa del mediatore sono sottoposti all’approvazione dell’assemblea condominiale, la quale delibera entro il termine fissato nell’accordo o nella proposta con le maggioranze previste dall’articolo 1136 del codice civile. In caso di mancata approvazione entro tale termine la conciliazione si intende non conclusa”.
Come è noto, anteriormente alla suddetta riforma, l’art. 71 – quater disp. att. c.c. prevedeva che l’Amministratore di condominio fosse legittimato alla partecipazione ad un procedimento di mediazione solo in presenza di autorizzazione assembleare, con espresso richiamo alla maggioranza di cui all’art. 1136, comma 2, c.c. I condomini dovevano, quindi, conferire all’amministratore il potere negoziale di rappresentare il condominio coinvolto nella controversia.
Si ponevano, dunque, frequenti problematiche inerenti alle tempistiche necessarie ai fini della convocazione dell’assemblea condominiale, dal omento che il primo incontro di mediazione doveva essere fissato entro 30 giorni dalla data di deposito dell’istanza (tanto che l’art. 71-quater, co. 4, disp. att. c. c., prevedeva che “Se i termini di comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere la delibera di cui al terzo comma, il mediatore dispone, su istanza del condominio, idonea proroga della prima comparizione”.
Con il nuovo art. 5 – ter, D.lgs 28/2010, si ha dunque una nuova legittimazione processuale – di origine legale – in capo all’amministratore del condominio per quanto concerne la partecipazione alla mediazione.
In altri termini, pertanto, l’amministratore non è più condizionato nella partecipazione al procedimento di mediazione dal previo ottenimento di una delibera autorizzativa, ma, come si è visto, è legittimato ad attivare, aderire e partecipare alla mediazione dalla legge.
Certamente, la disposizione in parola mira a garantire maggiore velocità e impulso alle procedure di mediazione in materia condominiale, come detto spesso “rallentate” spesso bloccate dalle difficoltà di convocazione assembleare.
Tuttavia, con l’entrata in vigore della riforma, immediatamente sono emersi profili di criticità sui quali appare opportuno sia pur brevemente soffermarsi, fermo restando – giova chiarirlo sin d’ora – che l’amministratore “è legittimato” a partecipare al procedimento senza delibera autorizzativa, ma ben potrà comunque optare, come prassi in molti casi mostra, qualora lo ritenga opportuno, per la convocazione del consesso condominiale, al fine di munirsi in ogni caso di delibera autorizzativa.
In effetti, dato il tenore della disposizione in commento, l’amministratore potrebbe svolgere l’intero procedimento di mediazione all’insaputa dei condomini, convocando l’assemblea solo al fine di sottoporle “… l’accordo di conciliazione (rectius: l’ipotesi di accordo) o la proposta conciliativa del mediatore (…)”, senza considerare che – trattandosi di mediazione “obbligatoria” – il condominio dovrà necessariamente, ai sensi dell’art. 8, co. 5, D.lgs 28/2010, essere assistito da un avvocato.
Il che, obiettivamente, sembra contrastare con il principio per il quale nel condominio “…l’organo principale depositario del potere decisionale è l’assemblea dei condomini”, costituendo “…prima e fondamentale competenza” dell’amministratore “…quella di “eseguire le deliberazioni dell’assemblea dei condomini” (Cfr. Corte di Cassazione, SS.UU. sentenza n. 18331/2010).
A ciò deve aggiungersi la competenza specifica attribuita dall’art. 1131, co. 3, c.c. all’assemblea in ordine alla decisione di partecipare alle liti e passive qualora l’oggetto delle stesse esorbiti dalle attribuzioni dell’amministratore. Né il tenore letterale dell’art. 5 – ter, D.lgs 28/2010, sembra consentire una lettura restrittiva dello stesso nel senso di ritenere che la previsione normativa rilevi esclusivamente nell’ipotesi in cui la mediazione abbia un oggetto rientrante nelle attribuzioni dell’amministratore stesso, ex art. 1130 c.c.
Altro profilo critico della mediazione in materia condominiale che non può essere sottaciuto è quello relativo alla decadenza, con riferimento al disposto di cui all’art. 1137, co. 2, c.c., secondo cui “Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominioogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adirel’autorità giudiziaria chiedendone l’annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti”.
Ora, prima della riforma, l’art. 5, co. 6, D.lgs 28/2010 prevedeva che “Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’articolo 11 presso la segreteria dell’organismo“.
La situazione era dunque chiara: esemplificando, il condomino che avesse ritenuto una delibera assembleare viziata ed annullabile, era tenuto, ex art. 1137 c.c., ad impugnarla entro trenta giorni. Quindi, con il deposito dell’istanza di mediazione, si interrompevano i termini di cui all’art. 1137 c.c., previsti a pena di decadenza dall’azione giudiziaria e, in caso di conclusione del procedimento di mediazione con esito negativo, dal deposito del verbale decorrevano di nuovo i predetti trenta giorni per la proposizione della domanda giudiziale.
Sennonché, il nuovo art. 8, co. 2, D.lgs 28/2010 dispone che “Dal momento in cui la comunicazione di cui al comma 1 (cioè la comunicazione della domanda, del mediatore, del luogo ed ora dell’incontro, delle modalità dello stesso) perviene a conoscenza delle parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale e impedisce la decadenza per una sola volta“, avendo tuttavia omesso il legislatore (dimenticanza?) la parte, come si è visto originariamente presente nell’art. 5, co 6, in cui si prevedeva che “se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’articolo 11 presso la segreteria dell’organismo“.
Interpretando letteralmente la nuova normativa, il risultato condurrebbe all’assurdo: infatti, il termine di giorni 30 previsto dall’art. 1137 c.c. per impugnare una delibera assembleare che si assuma viziata da annullabilità, decorrerà non più dal deposito del verbale negativo (come prevedeva espressamente, giova ribadirlo, il precedente art. 5, co. 6) ma dal “momento in cui la comunicazione di cui al comma 1 perviene a conoscenza delle parti” (nuovo art. 8, co. 2), con conseguenze fin troppo evidenti.
Il paradosso è confermato dal fatto che, ai sensi dell’art. 8, co. 1, D.lgs 28/2010, nel testo oggi in vigore, il primo incontro tra le parti deve tenersi “non prima di venti e non oltre quaranta giorni dal deposito della domanda“.
Quindi il termine decadenziale per l’azione giudiziale potrebbe spirare non solo a mediazione in corso ma addirittura prima ancora dello svolgimento del primo incontro di mediazione.
In sostanza, il legislatore, intenzionato a perseguire un virtuoso intento deflattivo, “costringerebbe” ad intraprendere la via giudiziale, per non decadere, a mediazione in corso.
Non è ragionevole pensare che il legislatore volesse questo, dal momento che la mediazione non potrebbe svolgere la funzione per la quale, esplicitamente, è stata introdotta.
Naturalmente, in presenza di pronunce di impronta apoditticamente letterale e, quindi, restrittiva, appare quanto mai urgente un intervento l, sottolineando l’assurdità dell’effetto venutosi a determinare, consenta di continuare ad individuare il dies a quo per il decorso del termine di decadenza nel giorno in cui avviene il deposito del verbale negativo presso la segreteria dell’Organismo di mediazione.