mediazione civile, sentenza massimo moriconi

In giudizio contumace. E in mediazione?

Secondo la Tredicesima sezione del Tribunale di Roma la contumacia del convenuto non rappresenta un ostacolo all’utilizzo, da parte del Giudice, dell’istituto della mediazione delegata di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, soprattutto laddove “…a mezzo del deposito della relazione peritale risultano chiariti gli aspetti della controversia”.
Non può infatti escludersi che il convenuto, rimasto contumace in giudizio, possa invece aderire e partecipare al procedimento di mediazione.
In caso contrario, osserva peraltro il Tribunale, non si tratterà comunque “…di attività e di oneri inutili e di tempo sprecato, posto che in luogo dell’attività istruttoria orale che l’attore ha richiesto di poter espletare (interrogatorio formale e testimonianze), il Giudice, secondo un modello ormai sperimentato, utilizzerà lo strumento di cui all’art. 8 Decreto Legislativo 28/2010”, il quale, come è noto, nella prima parte del comma 4 – bis, relativamente all’ipotesi di mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, prevede che il giudice possa desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’art. 116, co. 2, c.p.c.
Detta disposizione, a differenza della seconda parte dell’art. 8, co. 4 – bis (relativa al contributo unificato), che riguarda solo le parti costituite, è applicabile nei confronti di tutte le parti.
Di conseguenza, la mancata partecipazione (ovvero l’irrituale partecipazione) senza giustificato motivo al procedimento di mediazione demandata dal giudice oltre a poter attingere, secondo una sempre più diffusa interpretazione giurisprudenziale, alla stessa procedibilità della domanda, costituisce in ogni caso un comportamento valutabile nel merito della causa.
Ma non è tutto.
Secondo l’interpretazione fornita dal Giudice, infatti, anche nell’ipotesi di mancata partecipazione del chiamato in mediazione, il mediatore, dopo aver ragionato con la parte istante sulle modalità di riformulazione dell’originaria pretesa attorea sulla base delle risultanze peritali, “…potrà se del caso, ed in conformità a quanto previsto dal Regolamento dell’Organismo, formulare una proposta ai sensi dell’art. 11 decr. lgsl. 28/10, che provvederà a comunicare al convenuto anche nel caso in cui questi rimanga assente come è contumace in questa causa”.
In sostanza, dunque, nulla esclude, secondo il Tribunale di Roma, la possibilità della c.d. “proposta contumaciale”, sulla quale chi scrive già più volte ha avuto modo di esprimere le proprie personali perplessità, se non altro sul piano della coerenza con il principio di imparzialità che, necessariamente, deve informare l’attività del Mediatore.
Dott. Luigi Majoli

Testo integrale:

TRIBUNALE di ROMA Sez.XIII°
ORDINANZA

Il Giudice,
dott. Massimo Moriconi,
letti gli atti, osserva:
Si ritiene che in relazione a quanto emerso allo stato degli atti ed in particolare in base agli esiti dell’espletata consulenza tecnica di ufficio, si potrebbe pervenire ad un accordo conciliativo.
Con alcune premesse.
La condizione di contumace del convenuto dott. S.C. dottore commercialista, non è di ostacolo all’introduzione di un procedimento di mediazione demandata, specialmente una volta che a mezzo del deposito della relazione peritale siano stati apposti punti fermi alla controversia.
Ed infatti non si può escludere a priori che il convenuto, rimasto contumace nella causa, possa comparire e partecipare alla mediazione.
In caso contrario, non si tratterà comunque di attività e di oneri inutili e di tempo sprecato, posto che in luogo dell’attività istruttoria orale che l’attore ha richiesto di poter espletare (interrogatorio formale e testimonianze), il Giudice, secondo un modello ormai sperimentato, utilizzerà lo strumento di cui all’art.8 Decreto Legislativo 20/2010 (1).
Considerati i gravosi ruoli dei giudici ed i tempi computati in anni per le decisioni delle cause, una soluzione conciliativa, che va assunta in un ottica non di preconcetto antagonismo giudiziario, ma di reciproca rispettosa considerazione e valutazione dei reali interessi di ciascuna delle parti, non potrebbe che essere vantaggiosa per tutte le parti. Specialmente se l’organismo di mediazione ed il mediatore saranno scelti in base ai criteri della competenza e della professionalità, necessari anche per la valorizzazione degli spunti di riflessioni offerti dal presente provvedimento e precisamente l’art.116 cpc in via integrativa delle attuali risultanze probatorie escludendo qualsiasi ulteriore attività istruttoria.
All’attore si assegna termine fino all’udienza di rinvio per il raggiungimento di un accordo amichevole.
Va fissato il termine di gg.15, decorrente dal 20.1.2016 per depositare presso un organismo di mediazione la domanda di cui al secondo comma dell’art.5 del decr.legisl.4.3.2010 n.28; con il vantaggio di poter pervenire rapidamente ad una conclusione, per tutte le parti vantaggiosa, anche da punto di vista economico e fiscale (cfr. art.17 e 20 del Decreto Legislativo 4.3.2010 n.28), della controversia in atto.
Va evidenziato che ai sensi e per l’effetto del secondo comma dell’art.5 decr.lgsl.28/’10 come modificato dal D.L.69/’13 è richiesta l’effettiva partecipazione al procedimento di mediazione demandata, laddove per effettiva si richiede che le parti non si fermino alla sessione informativa e che oltre agli avvocati difensori siano presenti le parti personalmente;
Anche laddove il dottore commercialista S.C. non dovesse comparire, non per questo la mediazione non potrà aver corso. Il mediatore infatti potrà se del caso, ed in conformità a quanto previsto dal Regolamento dell’Organismo, formulare una proposta ai sensi dell’art.11 decr.lgsl.28/10, che provvederà a comunicare al convenuto anche nel caso in cui questi rimanga assente come è contumace in questa causa.
In questo scenario, prima della formulazione della proposta il mediatore dovrà discutere e ragionare con la parte attrice circa la possibilità di riformulazione delle pretese di F.A. (l’attore), in relazione ai risultati della consulenza disposta dal giudice. Esplorando la possibilità che un accordo possa essere raggiunto anche su basi diverse da quelle esistenti all’atto della introduzione del giudizio.
Il tutto anche al fine di consentire l’eventuale valutazione giudiziale ai sensi degli artt.91 (2) e 96 III° cpc (3).

P.Q.M.

a scioglimento della riserva che precede,
• DISPONE che l’attore proceda alla mediazione demandata, ai sensi dell’art.5 comma secondo del decr.lgsl.28/2010, della controversia;
• INFORMA che l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda ai sensi dell’art.5, co.2° e che ai sensi dell’art.8 Decreto Legislativo 28/10 la mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione comporta le conseguenze previste dalla norma stessa;
• VA fissato il termine di gg.15, decorrente dal 20.1.2016, per depositare presso un organismo di mediazione la domanda di cui al secondo
• RINVIA all’udienza del 20.6.2016 2016 h.9,30 per quanto di ragione.- comma dell’art.5 del dec.lgs.28/10;
AVVISO alla parte costituita

Roma lì 7.12.2015
Il Giudice
dott.cons.Massimo Moriconi

Anche Roma Capitale “vittima delle buche”

Commento:
Il Tribunale di Roma, nell’ambito di una controversia relativa a risarcimento del danno derivante da insidia stradale, non solo sanziona ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 8, D.lgs 28/2010, la mancata partecipazione alla mediazione delegata dell’Amministrazione, ma condanna la stessa ex art. 96, co. 3, c.p.c. e, ravvisando la sussistenza del danno erariale, dal momento che “…vi erano elevate probabilità di un accordo che avrebbe comportato un minor esborso da parte dell’ente territoriale rispetto a quello che contiene la sentenza”, provvede alla trasmissione della sentenza alla Procura Generale della Corte dei Conti.
La pronuncia in esame si inserisce pienamente, sotto una molteplicità di aspetti, nell’alveo interpretativo ormai costantemente fatto proprio dalla Sezione (cfr., ex multis, sent. 30 ottobre 2014; in particolare, per le tematiche che qui interessano, cfr. ord. 19 febbraio 2015), del quale conviene dare brevemente conto nelle note che seguono.
In primo luogo, costituitasi l’Amministrazione convenuta, il Giudice, secondo uno schema ormai divenuto ”classico”, ritenuta la controversia “mediabile”, formulava una proposta conciliativa ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., (pre) disponendo, peraltro, per l’ipotesi che alla stessa le parti (o una di esse) non intendessero aderire, l’esperimento della mediazione delegata di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.
Con ordinanza del 15 dicembre 2014 il giudice proponeva, in effetti, il pagamento a favore dell’attore “…della complessiva somma di €.6.000,00 a carico di Roma Capitale. Oltre al pagamento, a carico della stessa parte, di un contributo alle spese di causa a favore dell’attore per l’importo di €.1.300,00 oltre IVA CAP e spese generali; nonché spese di consulenza tecnica di ufficio”.
Nell’ordinanza, tra l’altro, (e sempre secondo costume ormai radicato della Sezione) si precisava che “…nell’ipotesi che taluna delle parti non sia disponibile ad aderire all’accordo, ne dovrà essere esposto a verbale il motivo in modo specifico, in modo da consentire al giudice di regolare, con la sentenza, le posizioni delle parti secondo giustizia (che in questo caso potrebbe equivalere a sanzionare la irragionevolezza del rifiuto ed il pregiudizievole disinteresse alla trattativa traendone le debite conclusioni a mente dell’art.91 e co.III° dell’art.96 cpc e nonché delle altre norme in materia di A.D.R. così come previste dalla legge e sviluppate dalla giurisprudenza, massime di questo giudice)”.
In particolare, con riferimento alla (eventuale) successiva fase di mediazione, dopo aver premesso che “…è richiesta alle parti l’effettiva partecipazione al procedimento di mediazione demandata e che la mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione demandata dal giudice oltre a poter attingere, secondo taluna interpretazione giurisprudenziale, alla stessa procedibilità della domanda, è in ogni caso comportamento valutabile nel merito della causa”, il Giudice espressamente sottolineava che “…l’eventuale deprecata scelta di una condotta agnostica, immotivatamente anodina e deresponsabilizzata dell’amministrazione pubblica (massime non presentandosi in mediazione senza ragione alcuna) potrebbe esporla a responsabilità per danno erariale sotto il profilo delle conseguenze del mancato accordo su una proposta del giudice o mediatoria comparativamente valutata rispetto al contenuto della sentenza. Conseguenze che, in relazione alle circostanze del caso concreto, sarebbe doveroso segnalare agli organi competenti”.
Roma Capitale, tuttavia, non avendo aderito alla proposta del Giudice, ignorava in toto il procedimento di mediazione, dichiarando di non aderire alla stessa con missiva del proprio difensore palesemente stereotipa e di stile, sintomo, secondo il Giudice, “…della trattazione dell’ordine giudiziale, da parte dell’ente territoriale, come mera questione processuale di cui si deve occupare l’avvocato al quale è stato rilasciato il mandato alla lite”.
Soprattutto, il Tribunale osserva come “…addurre la pretesa ragione contro l’altrui torto per non aderire alla mediazione è una vera e propria aporia: se questa fosse infatti una valida ragione per non partecipare al procedimento di mediazione, la mediazione non potrebbe esistere tout court, posto che alla base della sua ragione d’essere vi è, immancabilmente, una divergenza di vedute fra le parti in conflitto”.
In sostanza, carenza di un qualsivoglia giustificato motivo per la mancata partecipazione al procedimento di mediazione.
Di conseguenza, applicazione nei confronti dell’Amministrazione delle sanzioni di cui all’art. 8, ult. co., D.lgs 28/2010: argomento di prova ex art. 116, c. 2, c.p.c. e condanna al pagamento, a favore dell’erario di una somma di importo pari al contributo unificato dovuto per il giudizio.
Ciò posto, secondo il Tribunale, sulla base della quantificazione del danno, spetta all’attore la somma di complessivi euro 13.000,00 a titolo di risarcimento, oltre interessi legali fino a saldo, che si riduce ad euro 9.100,00 in considerazione del concorso di colpa del danneggiato (valutato al 30%, dato che nell’area urbana di Roma, proprio per le notorie sconnessioni stradali, è necessaria, soprattutto per le moto, un’andatura particolarmente moderata). Secondo il Tribunale, “…la compatibilità del concorso di colpa del danneggiato con la negligente manutenzione della strada da parte del Comune è in questo caso ammissibile perché si ritiene che la condotta concreta di XXXXX non sia stata fattore elidente il nesso causale esistente fra la condotta censurabile dell’Ente e l’evento dannoso, quanto piuttosto fattore incidente sul grado di colpa dell’ente territoriale, che ne risulta attenuato”.
Non sembra, francamente, possano muoversi critiche di alcun genere all’impianto argomentativo che precede.
Maggiori perplessità, ad avviso di chi scrive, sono destate dai profili che seguono, inerenti all’applicazione dell’art. 96 c.p.c., con particolare riferimento al terzo comma, secondo cui “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.
Certamente, come affermato dalla sentenza in commento, non sembra potersi ritenere che l’art. 8, D.lgs 28/2010, esaurisca gli strumenti posti a presidio dell’effettivo svolgimento della mediazione. Di conseguenza, non può escludersi in via generale l’applicabilità di una norma “aperta”, quale l’art. 96 c.p.c. (d’altra parte lo stesso art.13, D.lgs 28/2010, nel prevedere una specifica disciplina delle spese di causa in materia di proposta del mediatore irragionevolmente non accettata, fa comunque salva l’applicabilità degli artt. 92 e 96 c.p.c.).
La sentenza in commento richiama puntualmente le coordinate relative all’applicazione della summenzionata disposizione, vale a dire:
in primo luogo, la non necessaria allegazione e dimostrazione dell’esistenza di un danno che abbia tutti i connotati giuridici per essere ammesso a risarcimento, risultando semplicemente previsto che il giudice condanna la parte soccombente al pagamento di un somma di denaro;
la circostanza che non si tratta di un risarcimento ma di un indennizzo (se si pensa alla parte a cui favore viene concesso) e di una punizione (per aver appesantito inutilmente il corso della giustizia, se si ha riguardo allo Stato), di cui viene gravata la parte che ha agito con imprudenza, colpa o dolo;
l’ulteriore (e fondamentale) circostanza che l’ammontare della somma è lasciata alla discrezionalità del giudice che ha come unico parametro di legge l’equità, con la conseguenza che non si potrà che avere riguardo, da parte del giudice stesso, a tutte le circostanze del caso per determinare in modo adeguato la somma attribuita alla parte vittoriosa;
il fatto che, a differenza di quanto previsto nel primo e nel secondo comma del medesimo art. 96, il giudice è chiamato ad applicare una sanzione a carico della parte soccombente anche d’ufficio, non necessariamente su richiesta di parte;
l’applicabilità della norma anche al di fuori della sussistenza delle fattispecie del primo e secondo comma.
Secondo la giurisprudenza, malgrado non sia richiesto espressamente dalla norma, si ritiene necessario anche il requisito della colpa grave.
Nella fattispecie, secondo il Tribunale, deve (condivisibilmente) parlarsi di dolo, “…in quanto la parte convocata si è volontariamente e consapevolmente sottratta all’ obbligo, derivante dall’ordine impartito dal giudice, di presentarsi e partecipare alla mediazione, di cui era perfettamente a conoscenza (come dimostra la pur errata e fuorviante giustificazione riferita)”.
Ma anche volendo far ricadere il caso di specie nell’alveo della colpa grave, quest’ultima comunque sussisterebbe, dal momento che “…il volontario ed ingiustificato rifiuto di aderire ad un ordine del giudice civile, legittimamente dato, va sempre considerato grave ed infatti l’ordinamento prevede rimedi, sanzioni e deterrenti di variegata natura e contenuto, a carico della parte (e talvolta anche del terzo) renitente”.
Ciò posto, le perplessità cui si faceva sopra riferimento involgono prioritariamente le considerazioni, svolte in sentenza, in ordine all’interpretazione “costituzionalmente orientata”, con riferimento all’art. 3 Cost., delle norme che disciplinano la mediazione, ed in particolare di quelle che ne costituiscono l’apparato sanzionatorio. Ci si riferisce, nello specifico, ai passaggi secondo cui “…una riforma epocale destinata ad incidere profondamente ed in modo definitivo su una antica cultura giuridica formata ed avvezza pressoché esclusivamente all’aspra gestione della contesa giudiziale, con l’innesto di una massiccia dose di cultura conciliativa, non può produrre i suoi effetti, da un giorno all’altro, solo con un invito del legislatore”, ragion per cui occorrerebbero “…forti incentivi e deterrenti per le prevedibili naturali resistenze al Nuovo, anche quando sicuramente, come in questo caso, un Nuovo molto positivo, perché diretto a rivitalizzare la giurisdizione, riperimentrandola in ambiti dove è davvero necessaria. Senza la pretesa, che sarebbe errata e velleitaria, di sostituirla tout court, ma affiancandole un valore aggiunto che consiste nella possibilità per le parti, in moltissimi casi, nell’area dei diritti disponibili, di pervenire con l’aiuto di un mediatore professionale e imparziale, all’accordo. Prevenendo o ponendo fine ad una lite”.
Certamente in molti casi un’accorta applicazione dell’art. 96, co. 3, c.p.c., può rappresentare un ulteriore valido deterrente alla ancor troppo frequente diserzione dalla mediazione, soprattutto in vicende, come quella in oggetto, che vedono il coinvolgimento di soggetti “forti”, come la Pubblica Amministrazione, con conseguente esigenza di riequilibrio di posizioni, ma la discrezionalità del Giudice, unico parametro utilizzabile in ordine alla determinazione dell’ammontare della somma, non sembra poter garantire sempre un utilizzo equilibrato della disposizione in esame.
In merito alla mediazione demandata di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, l’auspicio, più volte ribadito da chi scrive, dovrebbe andare nel senso di un intervento legislativo volto a sancire regole procedimentali proprie per il modello in parola, tali da non consentire valutazioni delle parti in sede di “primo incontro”, in presenza di una valutazione circa la mediabilità della causa già effettuata dal Giudice nel momento stesso in cui dispone il tentativo conciliativo, preceduto o meno che sia da una proposta formulata ex art. 185 – bis c.p.c.: un accorgimento che – verosimilmente – garantirebbe in un ragguardevole novero di ipotesi la “effettività” del tentativo stesso, liberando, a mio parere, i Giudici dalla necessità di operare argomentazioni ermeneutiche estensive, quanto mai gradite da chi in concreto opera nella mediazione, ma non sempre in grado, tuttavia, di essere coerenti fino in fondo con un impianto normativo obiettivamente perfettibile.
Dott. Luigi Majoli

Testo integrale:

In NOME del POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE di ROMA SEZIONE Sez.XIII°
RG.59487-11
n. 25218/15 del 17.12.2015
REPUBBLICA ITALIANA

Il Giudice dott. cons. Massimo Moriconi
nella causa tra
R. C. (avv.to A. G.)
attore
E
Roma Capitale in persona del Sindaco pro tempore
convenuta (avv.S. A.)
ha emesso e pubblicato, ai sensi dell’art. 281 sexies cpc, alla pubblica udienza del
17.12.2015 dando lettura del dispositivo e della presente motivazione, facente parte integrale del verbale di udienza, la seguente

S E N T E N Z A

ABSTRACT:
1. I fatti rilevanti
2. L’ordinanza del 15.12.2014 e l’invio in mediazione demandata
3. La (in)sussistenza di un giustificato motivo per non aderire, non presentandosi, all’incontro di mediazione, da parte dell’ente convenuto
4. Le conseguenze previste dall’art.8 del decr.lgsl.28/10 per la mancata partecipazione dell’ente ritualmente convocato al procedimento di mediazione attivato dall’attore su disposizione del giudice ex art.5 co.II° comma
5. Le conseguenze, sul merito della causa, della mancata comparizione del Comune di Roma , senza giustificato motivo, l’art.116 cpc
6. Le risultanze probatorie ed il risarcimento dei danni
7. Le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla mancata ingiustificata partecipazione al procedimento di mediazione previste dal decr.lgsl.28/2010 – La sanzione del pagamento a favore dell’erario di una somma pari al contributo unificato.
8. Le conseguenze ulteriori per la inottemperanza alla disposizione del giudice ex art.5 co.II° – La responsabilità aggravata di cui all’art.96 III° comma cpc Presupposti e ragioni della sua applicabilità alla mediazione – A) L’art.8 comma quarto bis del decr.lgsl.28/10 non esaurisce gli strumenti sanzionatori posti a presidio dell’effettivo svolgimento della mediazione – B) Le condotte dei soggetti coinvolti nel procedimento di mediazione sono sussumibili nell’area di interesse dell’art.96 cpc – C) L’art.96 cpc in combinato disposto con l’art. 3 Cost. in funzione riequilibratrice del sistema sanzionatorio apprestato per l’effettivo svolgimento della mediazione
8 bis. Il contenuto dell’art. 96 III° – Il dolo o la colpa grave – L‘inottemperanza, ingiustificata, delle parti all’ordine del giudice ex art. 5 comma II° decr.lgsl.28/10, di attivare e di partecipare alla mediazione, costituisce grave inadempienza, dalla quale può discendere l’applicazione della sanzione di cui al terzo comma dell’art.96 cpc.
9. La quantificazione della somma al cui pagamento la convenuta va condannata ai sensi dell’art.96 co.III° cpc
10. Il danno erariale – Trasmissione degli atti alla Procura Generale della Corte dei Conti
11. Le spese processuali.
letti gli atti e le istanze delle parti,
osserva:
-1- I fatti rilevanti
L’incidente è accaduto in data 3.7.2010
Secondo quanto riferito dall’attore, R. C. a causa delle buche presenti sul manto stradale, quel giorno alle ore 23 circa, in Piazza Augusto Righi di Roma, mentre si trovava alla guida del motociclo di sua proprietà Honda 600 tg.BD64945, all’altezza del distributore di benzina Agip, e del rivenditore di auto Ford, perdeva il controllo della moto e cadeva a terra riportando lesione alla persona e danni alla moto
Interveniva in un secondo tempo la Polizia Municipale che redigeva rapporto ed effettuava un sopralluogo in data 13.7.2010 riscontrando in loco n.5 buche di varie dimensioni che, su sollecitazione della stessa PM, venivano riempite, dalla ditta preposta, con l’applicazione di asfalto a freddo.
L’attrice produceva fatture di ogni spesa medica sostenuta per la cura delle lesioni.
Chiedeva la somma di €.25.290 a titolo di risarcimento dei danni alla persona e di €.700 per quelli alla moto.
Il Comune di Roma si costituiva e contestava sia nell’an che nel quantum le domande avverse, rilevando in particolare che la P.M. non era intervenuta nell’immediato, che le buche era molte e di vaste dimensioni e quindi visibili e che la zona era illuminata.
Veniva sentito un testimone (un conoscente con il quale l’attore aveva appuntamento in loco, per andare insieme ad una festa, e che ivi lo attendeva) che confermava le prospettazioni dell’attore. In particolare ricordando l’assenza di illuminazione pubblica e precisando che la strada era costellata di buche.
In sede di interrogatorio formale l’attore precisava che i lampioni erano spenti essendovi solo le luci del benzinaio e del concessionario, che le buche erano numerose e grandi e che non conosceva quella strada essendo la prima volta che la percorreva.
Il giudice disponeva la mediazione demandata, per il caso che sulla proposta, che contestualmente formulava ex art.185 bis, le parti non fossero in grado, da sole, di raggiungere un accordo.
-2- L’ordinanza del 15.12.2014 e l’invio in mediazione demandata
Con l’ordinanza del 15.12.2014 il giudice proponeva:
il pagamento a favore di R. C. della complessiva somma di €.6.000,00 a carico di Roma Capitale. Oltre al pagamento, a carico della stessa parte, di un contributo alle spese di causa a favore dell’attore per l’importo di €.1.300,00 oltre IVA CAP e spese generali; nonché spese di consulenza tecnica di ufficio
In particolare, e fra l’altro, l’ordinanza così motivava sulla proposta:
..in definitiva l’alternativa all’accordo è che l’esito del giudizio possa, per ciascuna delle parti, essere diverso e peggiore di quello ambìto (e per quanto si dirà anche della proposta che segue), circostanza questa niente affatto anomala ma insita nella natura stessa della giurisdizione.
Al contrario, allo stato odierno degli atti, con la proposta del giudice, le parti possono predeterminare i risultati del percorso, valutarne da subito la convenienza e beneficiarne degli effetti.
Nell’ipotesi che taluna delle parti non sia disponibile ad aderire all’accordo, ne dovrà essere esposto a verbale il motivo in modo specifico, in modo da consentire al giudice di regolare, con la sentenza, le posizioni delle parti secondo giustizia (che in questo caso potrebbe equivalere a sanzionare la irragionevolezza del rifiuto ed il pregiudizievole disinteresse alla trattativa traendone le debite conclusioni a mente dell’art.91 e co.III° dell’art.96 cpc e nonché delle altre norme in materia di A.D.R. così come previste dalla legge e sviluppate dalla giurisprudenza, massime di questo giudice).
Con la stessa ordinanza il giudice disponeva un percorso di mediazione demandata ai sensi del comma secondo dell’art.5 decr.lgs.28/2010 come modificato dal d.l.69/2013, che veniva regolarmente avviato dall’attore.
Nella suddetta ordinanza, il giudice aveva inoltre così motivato:
Vanno, ancora, avvertite le parti che:
a) trattandosi di soggetto pubblico (ente locale territoriale), si ricorda che, laddove ciò dovesse essere utile per pervenire ad un accordo conciliativo, non vi sono ostacoli a che il funzionario delegato possa gestire la procedura e, nell’ambito dei poteri attribuitigli, concludere un accordo. Ricorrendone i presupposti, anche osservando le indicazioni contenute nelle linee guida in materia di mediazione nelle controversie civili e commerciali per l’attuazione dei procedimenti di mediazione di cui al decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, recante “Attuazione dell’art. 60 della Legge 18 giugno 2009, n.69 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali” circolare DFP 33633 10/08/2012 9/2012 per le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001. Vale altresì sottolineare che l’eventuale deprecata scelta di una condotta agnostica, immotivatamente anodina e deresponsabilizzata dell’amministrazione pubblica (massime non presentandosi in mediazione senza ragione alcuna) potrebbe esporla a responsabilità per danno erariale sotto il profilo delle conseguenze del mancato accordo su una proposta del giudice o mediatoria comparativamente valutata rispetto al contenuto della sentenza. Conseguenze che, in relazione alle circostanze del caso concreto, sarebbe doveroso segnalare agli organi competenti;
b) la proposta del giudice che segue è permeata da un contenuto di equità e che oltre a ciò l’esito dell’ulteriore corso della causa, laddove mancasse l’accordo, non consente a ciascuna delle parti di considerare definitivamente stabilizzati, nel bene e nel male, i suoi contenuti;
c) ai sensi e per l’effetto del secondo comma dell’art.5 decr.lgsl.28/’10 come modificato dal D.L.69/’13 è richiesta alle parti l’effettiva partecipazione al procedimento di mediazione demandata e che la mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione demandata dal giudice oltre a poter attingere, secondo taluna interpretazione giurisprudenziale, alla stessa procedibilità della domanda, è in ogni caso comportamento valutabile nel merito della causa.
Nessun soggetto si è presentato per il Comune di Roma, benché ritualmente convocato dall’attore, nel procedimento di mediazione, che si è per tale ragione concluso, con la sola presenza dell’attore, come attesta il relativo verbale del 8.7.2015, senza potersi entrare nel merito delle diverse posizioni delle parti.
-3- La (in)sussistenza di un giustificato motivo per non aderire, non presentandosi, all’incontro di mediazione da parte dell’ente convenuto.
Con mail del 8.7.2015 il difensore di Roma Capitale inviava all’organismo di mediazione il seguente messaggio:
..invio la presente in nome e per conto di Roma Capitale per comunicare il diniego da parte della mia assistita ad aderire alla procedura di mediazione.
Quanto sopra al fine di evitare ulteriori spese a carico dell’Amministrazione anzidetta e comunque tenuto conto delle risultanze istruttorie che certamente evidenziano la assoluta assenza di responsabilità in capo a Roma Capitale
Devesi affermare l’assoluta insussistenza di un giustificato motivo per la non partecipazione al procedimento di mediazione, e la inconsistenza delle suddette giustificazioni, per le seguenti ragioni:
I° In una realtà amministrativa e burocratica di grandi dimensioni qual’ è il Comune di Roma il riferimento a: ..in nome e per conto di Roma Capitale” che si legge nella missiva testimonia che non è stata data alcuna importanza all’invio in mediazione. E che per contro è stata platealmente violata l’avvertimento del giudice di cui alla lettera a) che precede. Ed infatti poiché la procura è stata rilasciata direttamente dal Sindaco pro tempore e non da un responsabile del procedimento o procuratore speciale, è sommamente inverosimile che il Sindaco di Roma, o chiunque altro per esso, sia stato mai e realmente investito della conoscenza dell’ordinanza e dell’invio in mediazione impartito dal giudice ed abbia assunto una qualsiasi determinazione consapevole al riguardo. La risposta quindi, pur riconducibile formalmente al soggetto convenuto, è meramente stereotipa e di stile, sintomo della trattazione dell’ordine giudiziale, da parte dell’ente territoriale, come mera questione processuale di cui si deve occupare l’avvocato al quale è stato rilasciato il mandato alla lite.
II° E’ viziato da manifesta miopia logico-giuridica il tentativo di giustificare il rifiuto alla partecipazione alla mediazione, affermando e ribadendo, come fa l’ente territoriale, la propria ragione e l’altrui torto, e ciò in quanto che
a) addurre la pretesa ragione contro l’altrui torto per non aderire alla mediazione è una vera e propria aporia: se questa fosse infatti una valida ragione per non partecipare al procedimento di mediazione, la mediazione non potrebbe esistere tout court, posto che alla base della sua ragione d’essere vi è, immancabilmente, una divergenza di vedute fra le parti in conflitto, e precisamente su dove sia allogata la ragione e dove il torto;
b) il nuovo testo dell’art.8 del decr.lgsl.28/10 prevede che al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato. Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. La norma è stata, condivisibilmente, interpretata dalla giurisprudenza nel senso che solo in presenza di ragioni formali dirimenti (più precisamente di questioni pregiudiziali che ne impediscano la procedibilità) sia ammissibile fermarsi alla fase introduttiva del primo incontro senza procedere oltre. In questo contesto, è ben arduo ravvisare un caso in cui possa sussistere un giustificato motivo che autorizzi l’assenza tout court davanti al mediatore della parte convocata;
c) le modestissime spese che la mediazione implica, sono ben ripagate dai numerosi vantaggi di un possibile accordo (cfr.anche gli artt.17 e 20 decr.lgsl.28/10 sui benefici tributari e fiscali);
d) secondo le più recenti statistiche rese note dal Ministero della Giustizia afferenti al periodo 1° gennaio – 30 giugno 2015, il 47,0% dei procedimenti di mediazione si è concluso con un accordo quando l’aderente è comparso e ha proseguito oltre il 1° incontro.
III° Non può essere obliterato che a monte del provvedimento vi è la valutazione del giudice che ha esaminato gli atti, studiato le posizioni delle parti, ed infine adottato un provvedimento che, in relazione alle circostanze tutte indicate dal secondo comma dell’art.5 decr.lgsl.28/2010, testimonia il maturato convincimento del magistrato circa l’utilità di un percorso di mediazione nell’ambito del quale le parti avrebbero potuto approfondire e discutere liberamente le rispettive posizioni fino al raggiungimento di un accordo per entrambe vantaggioso.
In particolare in questa causa il giudice aveva offerto al Comune di Roma un formidabile asset per il raggiungimento di un buon accordo (cfr. punto 6 che segue)
Risulta pertanto comprovato che nel caso di specie non solo non sussiste un giustificato motivo per la mancata comparizione del Comune nel procedimento di mediazione; ma che tale rifiuto è del tutto irragionevole, illogico e contrario allo spirito ed alla lettera della legge.
-4- Le conseguenze previste dall’art.8 del decr.lgsl.28/10 per la mancata partecipazione del soggetto ritualmente convocato al procedimento di mediazione attivato dall’attore su disposizione del giudice ex art.5 co.II° comma
L’art.8 co.IV° bis prima parte del decr. lgsl. 28/2010 relativamente alla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione prevede che il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile.
La norma si applica a differenza della seconda parte dell’art. 8 co.IV° (relativa al contributo unificato) che riguarda solo le parti costituite, a tutte le parti.
-5- Le conseguenze, sul merito della causa, della mancata comparizione del Comune di Roma , senza giustificato motivo, l’art.116
La mancata partecipazione, senza una valida giustificazione, al procedimento di mediazione (obbligatoria o demandata), costituisce condotta di per sé grave perché idonea a determinare la introduzione ovvero, se già pendente, l’incrostazione ed il prolungamento di una controversia in un contesto giudiziario, quello italiano, già ampiamente saturo nei numeri e troppo dilatato nella durata.
Quanto alla possibilità di valorizzare, nel processo, come argomento di prova a sfavore di una parte, la mancata comparizione in mediazione, senza giustificato motivo, della parte convocata, si confrontano nella giurisprudenza due diverse opinioni.
Secondo una prima tesi la decisione del giudice non può essere fondata esclusivamente sull’art. 116 c.p.c., cioè su circostanze alle quali la legge non assegna il valore di piena prova, potendo tali circostanze valere in funzione integrativa e rafforzativa di altre acquisizioni probatorie.
Secondo altra opinione non vi è alcun divieto nella legge affinché il giudice possa fondare solo su tali circostanze la sua decisione, valendo come unico limite quello di una coerenza e logica motivazionale in relazione al caso concreto.
È espressione della prima teoria l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la norma dettata dall’art. 116 comma 2 c.p.c., nell’abilitare il giudice a desumere argomenti di prova dalle risposte date dalle parti nell’interrogatorio non formale, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni da esso ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo, non istituisce un nesso di conseguenzialità necessaria tra eventuali omissioni e soccombenza della parte ritenuta negligente, ma si limita a stabilire che dal comportamento della parte il giudice possa trarre ‘argomenti di prova’, e non basare in via esclusiva la decisione, che va comunque adottata e motivata tenendo conto di tutte le altre risultanze (fra le tante Cassazione civile, sez. trib., 17/01/2002, n. 443).
La norma in questione merita senz’altro una maggiore utilizzazione anche se a differenza di altri casi in cui da una determinata circostanza è consentito ritenere provato tout court il fatto a carico della parte che tale circostanza subisce, in questo caso la legge prevede che il giudice possa utilizzarla per trarre dalle circostanze valorizzate “argomenti di prova”.
La norma dell’art.116 c.p.c. viene richiamata dal legislatore della mediazione (art.8 decr. lgs. cit.) nell’ambito della ricerca ed elaborazione di una serie di incentivi e deterrenti volti a indurre le parti, con la previsione di vantaggi per chi partecipa alla mediazione e di svantaggi per chi al contrario la rifugge, a comparire in sede di mediazione al fine di pervenire a un accordo amichevole che prevenga o ponga fine alle liti.
Ciò sul presupposto che le statistiche ufficiali dimostrano sempre più alte percentuali di accordi in presenza della comparizione della parte convocata.
Ne consegue, tali essendo le finalità del richiamo dell’art.116 c.p.c nel decr. lgsl. 28/10, che equivarrebbe a tradire la ratio della norma, svalutarne la portata, considerandola una mera e quasi irrilevante appendice nel corredo dei mezzi probatori previsti dall’ ordinamento giuridico.
Va considerato che nell’attuale situazione, affetta da una endemica lunghezza nei tempi di risposta alla domanda di giustizia, causata principalmente dalla imponente mole di cause iscritte nei tribunali e delle corti; e viste le sempre più gravi e negative conseguenze sociali, economiche e di immagine anche internazionale del Paese, derivanti dal ritardo nella definizione dei processi, sia necessario rivalutare quanto previsto dall’art.116 cpc
È necessario tuttavia fissare delle regole precise al riguardo.
Deve essere ben chiaro in primo luogo che giammai la mancata comparizione in sede di mediazione potrà costituire argomento per corroborare o indebolire una tesi giuridica, che dovrà sempre essere risolta esclusivamente in punto di diritto.
A favore o contro la parte non comparsa in mediazione.
Ed infatti lo strumento offerto dall’art. 116 c.p.c. attiene ai mezzi che il giudice valuta, nell’ambito delle prove libere (vale a dire dove si esplica il principio del libero convincimento del giudice precluso in presenza di prova legale ) ai fini dell’accertamento del fatto.
L’argomento di prova appartiene all’ampio armamentario degli strumenti utilizzati dal giudice in un ambito in cui non opera la prova diretta, vale a dire quella dove si ha a disposizione un fatto dal quale si può fondare direttamente il convincimento.
Nel processo di inferenza dal fatto al convincimento l’argomento di prova ha la stessa potenzialità probatoria indiretta degli indizi.
E come le presunzioni semplici ha come stella polare il criterio della prudenza (art. 2729 c.c.) che deve illuminarne l’utilizzo da parte del giudice.
Va ricordata quella giurisprudenza della Suprema Corte che ha ritenuto che l’effetto previsto dall’art. 116 c.p.c. può – secondo le circostanze – anche costituire unica e sufficiente fonte di prova(Cassazione civile, sez. III, 16/07/2002, n. 10268, che così si esprime: Quanto a questa ultima norma –art. 116 c.p.c. n.d.r.- in particolare, essa attribuisce certo al giudice il potere di trarre argomento di prova dal comportamento processuale delle parti – e però, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ciò non significa solo che il comportamento processuale della parte può orientare la valutazione del risultato di altri procedimenti probatori, ma anche che esso può da solo somministrare la prova dei fatti, Cass. 6 luglio 1998 n. 6568; 1 aprile 1995 n. 3822; 5 gennaio 1995 n. 193; 14 settembre 1993 n. 9514; 13 luglio 1991 n. 7800; 25 giugno 1985 n. 3800).
Tuttavia il giudice opina che almeno di regola e secondo le circostanze sia preferibile ritenere che gli argomenti di prova che possono essere desunti dalla ingiustificata mancata comparizione della parte chiamata in mediazione abbiano lo scopo e l’utilità di integrare gli elementi di giudizio già presenti.
Alla luce di quanto precede, si ritiene che la evidente assenza di giustificati motivi per la mancata partecipazione dell’ente convenuto alla mediazione demandata dal giudice, in forza del combinato disposto degli artt. 8 co.IV° bis del decr. lgsl. 28/2010 e art. 116 c.p.c., concorra alla valutazione del materiale probatorio già acquisito, nel senso di ritenere raggiunta la prova – per quanto e nei limitiinfra illustrati – della fondatezza degli argomenti dell’attore.
-6- Le risultanze probatorie ed il risarcimento dei danni
Già nell’ordinanza del 15.12.2014 il giudice aveva puntualizzato alcune fondamentali circostanze e valutazioni:
considerato che è stata espletata specifica istruttoria, ma al di là della prova orale non è intervenuta nessuna autorità pubblica, e le fotografie rammostrano un manto stradale ampiamente destrutturato con sfaldamenti di grandi dimensioni ed una situazione ben diversa da quella di una singola buca poco o per nulla visibile;
ritenuto altresì che la velocità urbana deve essere particolarmente moderata da parte dei conducenti di ciclomotori e motocicli in una città come quella di Roma notoriamente affetta da un endemico problema di dissesto del manto viario, e che il mantenimento di un condotta di guida prudente accorta e consapevole può ridurre o eliminare del tutto il pericolo di cadute ed incidenti causati da tale problema;
considerato che la diffusa e notoria presenza di buche e simili non dispensa né esonera da responsabilità l’ente proprietario;
considerato che la giurisprudenza della S.C. non esclude, condivisibilmente, la possibilità di concorso di colpa anche per quanto riguarda i danni derivanti da “insidia” stradale;
preso atto che la domanda è stata formulata solo sotto il profilo dell’art.2043 cc;
viste le tabelle per il risarcimento del danno biologico in uso presso il tribunale di Roma.
Lo stato della strada dove l’attore con la sua moto è caduto vittima delle buche, era, come ammette lo stesso ente territoriale (che ne deduce però e quanto meno, la visibilità) in uno stato pietoso (come attesta icasticamente la sottostante fotografia, che rammostra la superficie, post sinistro, a seguito della manutenzione con l’asfalto a freddo), una specie di barriera orizzontale che percorre ed attraversa tutta la strada, rendendo di fatto assai difficoltoso se non impossibile, per un normale utente motorizzato, evitare l’ostacolo in tempo utile (non si tratta qui di un pedone che cammina).
Va ricordato che per la sussistenza della situazione definita tradizionalmente “insidia” fonte di danno si richiede la non riconoscibilità e la non prevedibilità della situazione pericolosa, quale fonte di danno, da parte di una persona di ordinaria diligenza; oltre ovviamente la non conoscenza in concreto.
Occorre poi applicare tale concetto adeguandolo alla situazione specifica dei luoghi, nonché soggettiva della persona che assume di aver subito un danno dall’insidia.
In questo caso non vi è dubbio sulla sussistenza di un pericolo non facilmente evitabile, se non altro per la presenza pressoché totale sul manto stradale delle sconnessioni e per la conseguente difficoltà, di notte, di arrestare (o diminuire) la marcia in tempo utile.
Credibilmente, il testimone Amoroso, sentito dal giudice, ha confermato che l’area era buia e non illuminata e che era presente e aveva visto l’attore cadere, a causa delle buche presenti.
Si ritiene tuttavia di attribuire un concorso di colpa del 30% al motociclista per la ragione che nell’area urbana di Roma, proprio per le notorie ubique sconnessioni stradali, è necessaria, massimamente per le moto, una andatura molto moderata ed accorta.
La compatibilità del concorso di colpa del danneggiato con la negligente manutenzione della strada da parte del Comune è in questo caso ammissibile perché si ritiene che la condotta concreta di R. C. non sia stata fattore elidente il nesso causale esistente fra la condotta censurabile dell’Ente e l’evento dannoso, quanto piuttosto fattore incidente sul grado di colpa dell’ente territoriale, che ne risulta attenuato.
L’evento dannoso è accaduto in data 3.7.2010 quando l’attore aveva 26 anni.
E’ importante indicare la data del fatto in quanto dal marzo 2001 (l.5.3.2001 n.57) è in vigore il sistema del punto legale al quale il Giudice in virtù della legge 12.12.2002 n.273 e successive puo’ derogare in aumento, per le micropermanenti, solo nella misura di un terzo.
Più specificamente la legge (oggi decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 Codice delle assicurazioni private, art.139) prevede che il risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve entità, derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, è effettuato secondo i criteri e le misure seguenti: a titolo di danno biologico permanente, è liquidato per i postumi da lesioni pari o inferiori al nove per cento un importo crescente in misura più che proporzionale in relazione ad ogni punto percentuale di invalidità; tale importo è calcolato in base all’applicazione a ciascun punto percentuale di invalidità del relativo coefficiente secondo la correlazione esposta nel comma 6. L’importo così determinato si riduce con il crescere dell’età del soggetto in ragione dello zero virgola cinque per cento per ogni anno di età a partire dall’undicesimo anno di età. Il valore del primo punto è pari ad euro seicentosettantaquattro virgola settantotto; a titolo di danno biologico temporaneo, è liquidato un importo di euro trentanove virgola trentasette per ogni giorno di inabilità assoluta; in caso di inabilità temporanea inferiore al cento per cento, la liquidazione avviene in misura corrispondente alla percentuale di inabilità riconosciuta per ciascun giorno.
Come detto, la legge prevede che l’ammontare del danno biologico (temporaneo e permanente) liquidato ai fini può essere aumentato dal Giudice in misura non superiore ad un terzo, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato.
Ne consegue che per quanto riguarda il danno biologico permanente da 1 a 9 punti ed il danno biologico temporaneo vanno applicate le norme suindicate e le relative tabelle applicative (derivanti dai decreti ministeriali di periodico aggiornamento).
Per quanto invece concerne:
1. il danno biologico (temporaneo e permanente) relativo ad aree diverse da quella dei danni derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti (precisamente come in questo caso) ed
2. il danno biologico permanente derivante da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti per il quale i postumi delle lesioni sono superiori al nove per cento, il sistema seguito per la valutazione del danno biologico muove dal valore di punto che rappresenta il criterio più ampiamente diffuso nell’ambito del Tribunale di Roma.
Invero l’applicazione delle tabelle di punto ha il vantaggio di attenuare la possibilità di trattamenti diversi per situazioni analoghe (come pure quello di consentire alle parti di addivenire più agevolmente a soluzioni transattive extragiudiziali).
Senza che ciò escluda la doverosità da parte del giudice (correlativa alla legittima aspettativa della parte) di personalizzare, ove necessario, l’ammontare degli importi riconosciuti al fine di rendere effettivo e completo il ristoro.
Nelle esplicative delle tabelle romane è condivisibilmente previsto fra l’altro….Per la valutazione equitativa nel caso di effettiva prova (ivi compresa la presunzione nell’ambito del diritto civile) del danno secondo i parametri della sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 26792/2008 (il ristoro di tale danno, infatti, compete a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato potendo in questo caso essere oggetto di risarcimento qualsiasi danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, indipendentemente da una sua rilevanza costituzionale; b) quando sia la legge stessa a prevedere espressamente il ristoro del danno limitatamente si soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto; c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale e non predeterminati dovendo, volta a volta essere allegati dalla parte e valutati caso per caso dal giudice (cfr ad es. Cass. sez. III, 25 settembre 2009 n. 20684), si ritiene necessario prendere in considerazione, per il concreto esercizio del relativo potere, un criterio che utilizzi, al fine di individuazione della somma adeguata a quanto provato, un importo percentuale di quanto liquidato a titolo di danno biologico in misura ordinariamente non eccedente il 60%, tenuto conto che nelle tabelle del danno biologico elaborate dal Tribunale non era compresa alcuna quota relativa al cd danno non patrimoniale soggettivo.
Premesso che il fatto in sé costituisce reato di lesioni colpose, non v’ha dubbio che debba essere riconosciuto all’attore (a prescindere dall’esistenza o meno di querela) la voce di danno non patrimoniale relativa alla sofferenza ed al patimento che ne sono derivati (descrittivamente danno morale) con applicazione, per la quantificazione, dei criteri, scaglioni e range elaborati a tale proposito dal tribunale capitolino.
Esaminata e condivisa la relazione peritale d’ufficio, ben motivata ed immune da errori o vizi logico-tecnico-giuridici, ed in assenza di specifiche e valide contestazioni, va evidenziato che l’attore ha subito a seguito dell’evento i seguenti danni:
1. invalidità permanente 4 %
2. invalidità temporanea 100% di gg.30
3. invalidità temporanea 50% di gg.20
4. spese medico-sanitarie per la persona e danni alla moto
L’ammontare del risarcimento viene pertanto così determinata (comprensivo danno morale):
– invalidità permanente: €. 6.000
– invalidità temporanea: €. 500
– spese medico-sanitarie documentate e riconosciute: €. 2.600
– danni moto, valutati equitativamente: €.300
Le somme riconosciute sono la risultanza della rivalutazione alla data della decisione (secondo le tabelle aggiornate): ed invero solo attraverso il meccanismo della rivalutazione monetaria è possibile rendere effettivo il principio secondo cui il patrimonio del creditore danneggiato deve essere ricostituito per intero (quanto meno per equivalente); essendo evidente che, pur nell’ambito del vigente principio nominalistico, altro è un determinato importo di denaro disponibile oggi ed altro è il medesimo importo disponibile in un tempo passato).
Comprendono altresì il danno consistente nel mancato godimento da parte del danneggiato dell’equivalente monetario del bene perduto per tutto il tempo decorrente fra il fatto e la sua liquidazione. Ed invero devesi a tale fine fare applicazione delle presunzioni semplici in virtù delle quali non si può obliterare che ove il danneggiato fosse stato in possesso delle somme predette le avrebbe verosimilmente impiegate secondo i modi e le forme tipiche del piccolo risparmiatore in parte investendole nelle forme d’uso di tale categoria economica (ad esempio in azioni ed obbligazioni, in fondi, in titoli di Stato o di altro genere) ricavandone i relativi guadagni. Con tali comportamenti oltre a porre il denaro al riparo dalla svalutazione vi sarebbe stato un guadagno (che è invece mancato) che pertanto è giusto e doveroso risarcire, in via equitativa, con la attribuzione degli interessi legali.
Il calcolo di tali interessi viene effettuato in virtù della sentenza del 17.2.1995 n.1712 della Suprema Corte procedendo prima alla devalutazione alla data del fatto dannoso degli importi che erano stati rivalutati alla data della sentenza; e successivamente calcolando sugli importi rivalutati anno per anno i relativi interessi legali ai tassi stabiliti per legge anno per anno, senza alcuna capitalizzazione.
In definitiva all’attore spetta complessivamente la somma di €.13.000,00 che si riduce a €.9.100 per il concorso di colpa, oltre interessi legali fino al saldo.
-7- Le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla mancata ingiustificata partecipazione al procedimento di mediazione previste dal decr.lgsl.28/2010 – La sanzione del pagamento a favore dell’erario di una somma pari al contributo unificato.
Non avendo partecipato, ingiustificatamente, Roma Capitale al procedimento di mediazione al quale era stata convocata la stessa va condannata al versamento all’Erario di una somma corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio.
La cancelleria provvederà alla riscossione.
-8- Le conseguenze ulteriori per la inottemperanza alla disposizione del giudice ex art.5 co.II° – La responsabilità aggravata di cui all’art.96 III° comma cpc Presupposti e ragioni della sua applicabilità alla mediazione – A) L’art.8 comma quarto bis del decr.lgsl.28/10 non esaurisce gli strumenti sanzionatori posti a presidio dell’effettivo svolgimento della mediazione – B) Le condotte dei soggetti coinvolti nel procedimento di mediazione sono sussumibili nell’area di interesse dell’art.96 cpc – C) L’art.96 cpc in combinato disposto con l’art. 3 Cost. in funzione riequilibratrice del sistema sanzionatorio apprestato per l’effettivo svolgimento della mediazione
Occorre rispondere ad alcuni interrogativi attinenti
9. al dubbio che l’art.8 comma quarto bis del decr.lgsl.28/10 possa esaurire, delimitandoli in modo non estensibile, gli strumenti legali latu sensu sanzionatori posti a presidio dell’effettivo svolgimento della mediazione;
10. alla pertinenza o meno delle condotte dei soggetti coinvolti nel procedimento di mediazione a quelle sussumibili nell’area di interesse dell’art.96 cpc
11. alla sussistenza della colpa grave
Ed ancora, chiedersi se il sistema latu sensu sanzionatorio apprestato dalla legge a presidio dell’effettivo svolgimento della mediazione sia conforme all’art.3 della Costituzione.
12. Quanto al primo interrogativo va osservato:
contro il rischio della mancata ingiustificata partecipazione al procedimento di mediazione l’art.8 comma quarto bis del decr.lgsl.28/10 predispone specifici deterrenti e precisamente la possibilità dell’utilizzo dell’art.116 cpc da parte del giudice e la condanna al pagamento di una somma pari al contributo unificato dovuto per il giudizio.
Alla domanda se possa essere applicata anche la sanzione di cui all’art.96 cpc non espressamente menzionata dall’art.8 decr.lgsl.cit, si deve dare risposta univocamente affermativa.
Che si impone, non potendo valere a pena di grave vulnus al sistema processuale, il brocardo ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit
Invero, l’art. 96 cpc è norma aperta, cioé di generale applicazione e non può neppure concettuamente essere ipotizzata, pena una grave aporia, un’interpretazione che condizioni il suo perimetro applicativo all’esistenza di una espressa previsione per singoli casi.
Ciò trova conferma nello stesso decr.lgsl.28/10 che all’art.13, all’atto di prevedere una specifica disciplina delle spese di causa in materia di proposta del mediatore irragionevolmente non accettata, fa comunque salva l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile
Piuttosto quindi, è giocoforza affermare che sono gli strumenti previsti dall’art.8 del decr.lgsl.28/10 ad aggiungersi, in virtù di una specifica previsione di legge, alle norme di generale applicazione (qual’è l’art.96 cpc) per le quali non è necessario uno specifico richiamo.
13. Quanto al secondo interrogativo va osservato:La possibilità di applicare l’art.96 cpc, nel caso di ingiustificata partecipazione della parte convocata al procedimento di mediazione deriva dai seguenti e convergenti parametri logico-sistematici:
1. nel caso dell’art.5 II° decr.lgsl.28/2010 (diversamente dalla mediazione obbligatoria) il giudice ha effettuato una valutazione di mediabilità concreta e specifica (relativa all’an, al momento in cui disporla, ed alle circostanze oggettive e soggettive che hanno evidenziato l’utilità del tentativo di conciliazione): il disvalore del rifiuto di partecipare all’incontro è quindi, all’evidenza, ben più elevato rispetto al caso della mediazione obbligatoria;
2. l’applicazione della misura sanzionatoria (dell’art.96 III°) non è una conseguenza automatica della mancata partecipazione, ma di una valutazione specifica e complessiva della condotta del soggetto renitente con riferimento, fra l’altro ma non solo, all’assenza di giustificati motivi per non partecipare ed al grado di probabilità del raggiungimento di un accordo in caso di partecipazione (fattore quest’ultimo che, in questo caso il giudice aveva ben evidenziato nell’ordinanza di invio); cosicché tanto più alte ed evidenti si appalesano tali possibilità tanto più grave e meritevole di sanzione (art.96 cpc) si connota l’ingiustificato rifiuto;
3. il collegamento, già insito nell’essere la mediazione condizione di procedibilità, fra procedimento giudiziario (causa) e procedimento esterno (mediazione) è strettissimo e sincronico nella mediazione demandata. Nella quale si radicano più che altrove, molteplici punti di contatto e di interferenza con la causa (le indicazioni offerte alle parti ed al mediatore da parte del giudice nell’ordinanza di invio in mediazione demandata; la proposta del mediatore – che il giudice può propiziare nell’ordinanza- con i suoi possibili riflessi nella causa in caso di mancato accordo; la consulenza in mediazione con gli effetti della producibilità ed utilizzabilità nella causa in caso di mancato accordo, alla stregua dei requisiti, con i limiti e per gli effetti indicati dalla giurisprudenza );
4. la doverosità della partecipazione delle parti al procedimento di mediazione, se è predicata in mododiretto dalla legge per quanto riguarda la parte onerata dalla condizione di procedibilità, e soloindiretto, come si argomenta dal contenuto dell’art. 8 co.4 bis decr.lgsl.28/10, per quanto riguarda il convenuto, acquista ben più pregnante spessore e cogenza, quanto a quest’ultimo, a seguito della mediazione demandata riformata, nella quale l’ordine (e non come nel testo previgente un mero invito), del giudice si rivolge direttamente a tutte le parti, nessuna esclusa, rendendo manifesta ed esplicita la doverosità della partecipazione al procedimento di mediazione. In entrambi i casi la circostanza che siano state previste delle sanzioni per la mancata partecipazione attesta formalmente ciò che è ovvio sostanzialmente, vale a dire che l’attivazione della procedura di mediazione non afferisce solo ad un onere, in quanto a seguito dell’istanza nascono obblighi – sanzionati- di partecipazione a carico di tutte le parti in conflitto (istante e chiamato)
Emerge con evidenza da quanto precede che con l’applicazione dell’art.96 co. III° viene sanzionata la condotta del soggetto renitente prima di tutto processuale, cioé interna ed appartenente alla causa, dove tale espressione afferisce alla scelta del soggetto di non tenere nella giusta considerazione l’ordine impartitogli dal giudice, opponendogli un ingiustificato rifiuto.
Ne consegue che l’applicazione dell’art.96 co.III° cpc alla fattispecie della mancata partecipazione al procedimento di mediazione demandata non è solo questione ed interesse dell’istituto della mediazione, al cui presidio soccorrono (anche) norme interne alla legge che la disciplina (art. 8 decr.lgsl.28/2010), ma ben di più e prima, di disciplina del processo e di condotta processuale, che si qualifica scorretta e sanzionabile proprio nella misura in cui senza valida ragione viene disatteso un ordine legalmente dato dal giudice.
Art. 96 cpc, mediazione ed art. 3 della Costituzione
L’applicazione dell’art. 96 III° può avere inoltre, nel contesto di cui si discute, la funzione di un salutare e necessario riequilibrio del sistema sanzionatorio della mediazione, altrimenti palesemente sbilenco. E, in definitiva, consentire una interpretazione costituzionalmente orientata (dall’art.3 Cost), delle norme che la disciplinano.
Come è noto, l’attivazione del procedimento di mediazione è stata dal legislatore prevista quale condizione di procedibilità (art.5 decr.lgsl.28/2010) delle domande giudiziali nelle materie di cui all’art.1 bis decr.lgsl. cit. (mediazione obbligatoria), come pure, dal 2013 ed a prescindere dalla materia, nel caso di mediazione demandata dal giudice.
Qual’è la ragione d’essere di tale condizione di procedibilità e quale l’obiettivo del legislatore ?
La risposta al primo interrogativo è molto agevole.
Una riforma epocale destinata ad incidere profondamente ed in modo definitivo su una antica cultura giuridica formata ed avvezza pressoché esclusivamente all’aspra gestione della contesa giudiziale, con l’innesto di una massiccia dose di cultura conciliativa, non può produrre i suoi effetti, da un giorno all’altro, solo con un invito del legislatore.
Occorrono forti incentivi e deterrenti per le prevedibili naturali resistenze al Nuovo, anche quando sicuramente, come in questo caso, un Nuovo molto positivo, perché diretto a rivitalizzare la giurisdizione, riperimentrandola in ambiti dove è davvero necessaria. Senza la pretesa, che sarebbe errata e velleitaria, di sostituirla tout court, ma affiancandole un valore aggiunto che consiste nella possibilità per le parti, in moltissimi casi, nell’area dei diritti disponibili, di pervenire con l’aiuto di un mediatore professionale e imparziale, all’accordo. Prevenendo o ponendo fine ad una lite.
Una cultura quindi della pacificazione sociale, piuttosto della esasperazione del conflitto giudiziario immanente ed ubiquo.
Anche per l’individuazione dell’obiettivo, la risposta è agevole
Si può ipotizzare che il legislatore si volesse accontentare del semplice dato formale dell’ avvenuta presentazione dell’istanza di mediazione da parte del soggetto onerato ?
Si può ipotizzare che per il legislatore fosse del tutto indifferente che l’istante si presentasse effettivamente davanti al mediatore per esperire la mediazione ? E che potesse essere sufficiente, per le esigenze perseguite con questa riforma, un ruolo del mediatore puramente notarile, di attestazione dell’avvenuta presentazione della domanda ?
E’ del tutto evidente, al contrario, che il legislatore ha perseguito un obiettivo sostanziale, vale a dire che le parti in conflitto esperissero concretamente la mediazione, vale a dire si incontrassero personalmente e tentassero, discutendo con la presenza attiva e fattiva del mediatore, di accordarsi.
A questo serve la condizione di procedibilità. Per questo è stata prevista per la parte onerata una sanzione assai pesante, vale a dire l’improcedibilità della domanda con conseguente condanna alle spese, per il caso di non attivazione del procedimento di mediazione, obbligatoria e demandata.
Se così stanno le cose e così precisamente stanno, non v’è chi non veda come il raggiungimento di tale obiettivo si scontra con la irragionevole sproporzione, al ribasso, della sanzione prevista a carico del soggetto convocato renitente.
Quest’ultimo, per quanto ingiustificata sia la sua assenza, subisce l’applicazione (certa) di una sanzione pari al contributo unificato, all’evidenza di scarsa o nulla deterrenza (essendo una somma fissa, del tutto imbelle per soggetti possidenti, come enti, assicurazioni, banche e per stare al caso in esame ad un ente territoriale), e l’eventuale utilizzo da parte del giudice dell’art. 116 cpc le cui limitate potenzialità sono state supra ampiamente descritte e che, peraltro, nel caso in cui la soccombenza sia stata per altro verso già attinta, è del tutto fuori luogo ed inutile.
Quindi in moltissimi casi e nella sostanza, non vi è (nella legge 28) a carico del convocato che non voglia pregiudizialmente partecipare al procedimento di mediazione nessuna sanzione.
Tale sbilanciamento non è poca cosa, per l’ovvia considerazione che l’accordo non si fa con una parte sola, sicché in definitiva a serve l’esistenza ( nella legge 28) di un forte spinta a mediare – la sanzione di improcedibilità della domanda – a carico di uno solo dei contendenti.
Da quanto segue risulta chiaramente dimostrata la sostanziale equità costituzionale (ed invero non si vede per quale ragione logica, e con quale giustizia, l’importanza della partecipazione all’incontro di mediazione, predicata con limpida chiarezza dal legislatore, dovrebbe essere adeguatamente presidiata solo nei confronti di una sola delle parti in conflitto e non dell’altra) dell’utilizzo dell’art.96 III° cpc (anche) in funzione riequilibratrice delle posizioni delle parti rispetto ai mezzi legali applicabili per rendere effettiva la loro partecipazione all’esperimento di mediazione.
-8 bis- Il contenuto dell’art. 96 III° Il dolo o la colpa grave – L‘inottemperanza, ingiustificata, della parte all’ordine del giudice ex art. 5 comma II° decr.lgsl.28/10, di partecipare alla mediazione, costituisce grave inadempienza, dalla quale può discendere l’applicazione della sanzione di cui al terzo comma dell’art.96 cpc.
L’art. 96 dispone che:
I° se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza.
II° Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziaria, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.
E per quel che qui interessa:
III° In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata
La norma del terzo comma introdotta dalla l.18.6.2009 n.69 ed entrata in vigore dal 4.7.2009 ha cambiato completamente il quadro previgente con alcune importanti novità:
in primo luogo non è più necessario allegare e dimostrare l’esistenza di un danno che abbia tutti i connotati giuridici per essere ammesso a risarcimento essendo semplicemente previsto che il giudice condanna la parte soccombente al pagamento di un somma di denaro ;
 non si tratta di un risarcimento ma di un indennizzo (se si pensa alla parte a cui favore viene concesso) e di una punizione (per aver appesantito inutilmente il corso della giustizia, se si ha riguardo allo Stato), di cui viene gravata la parte che ha agito con imprudenza, colpa o dolo;
 l’ammontare della somma è lasciata alla discrezionalità del giudice che ha come unico parametro di legge l’equità per il che non si potrà che avere riguardo, da parte del giudice, a tutte le circostanze del caso per determinare in modo adeguato la somma attribuita alla parte vittoriosa;
 a differenza delle ipotesi classiche (primo e secondo comma) il giudice provvede ad applicare quella che si presenta né più né meno che come una sanzione d’ufficio a carico della parte soccombente e non (necessariamente) su richiesta di parte;
 infine, la possibilità di attivazione della norma non è necessariamente correlata alla sussistenza delle fattispecie del primo e secondo comma.
Come rivela in modo inequivoco la locuzione in ogni caso la condanna di cui al terzo comma può essere emessa sia nelle situazioni di cui ai primi due commi dell’art. 96 e sia in ogni altro caso. E quindi in tutti i casi in cui tale condanna, anche al di fuori dei primi due commi, appaia ragionevole.
Benché non sia richiesto espressamente dalla norma, si ritiene dalla giurisprudenza necessario anche il requisito della gravità della colpa.
A ben vedere nel caso che ci occupa, non di colpa (sia pure grave) trattasi, ma di dolo, in quanto la parte convocata si è volontariamente e consapevolmente sottratta all’ obbligo, derivante dall’ordine impartito dal giudice, di presentarsi e partecipare alla mediazione, di cui era perfettamente a conoscenza (come dimostra la pur errata e fuorviante giustificazione riferita)
La giurisprudenza richiede la sussistenza del dolo o della colpa grave poiché non è ragionevole che possa essere sanzionata la semplice soccombenza, che è un fatto fisiologico alla contesa giudiziale, ed è necessario che esista qualcosa di più rispetto ad essa, tale che la condotta soggettiva risulti caratterizzata, come in questo caso, da noncuranza dell’ordine del giudice, da deresponsabilizzazione della P.A., da pervicace volontà di protrarre la lite quale che ne siano le conseguenze.
La sussistenza di tali requisiti potrà essere riscontrata ricavandola da qualsiasi indicatore sintomatico.
Nel caso in esame, in presenza di chiare e comprovate circostanze (indicate dal giudice nell’ordinanza di invio in mediazione) che imponevano a tutta evidenza di dismettere una posizione processuale di ostinata pregiudiziale e pervicace resistenza, la condotta della P.A. convenuta integra certamente (laddove non si ritenesse -come si ritiene – sussistere il dolo) la colpa grave.
Deve affermarsi che il volontario ed ingiustificato rifiuto di aderire ad un ordine del giudice civile, legittimamente dato, va sempre considerato grave ed infatti l’ordinamento prevede rimedi, sanzioni e deterrenti di variegata natura e contenuto, a carico della parte (e talvolta anche del terzo) renitente.
Per il convergente e necessario fine che l’ordine non rimanga telum imbelle sine ictu e venga in tal modo, in maggiore o minore misura, intralciato e sabotato il buon governo della causa da parte del giudice.
Ed infatti se gli ordini del giudice, quando previsti e impartiti, potessero essere impunemente rimanere vani e inascoltati, il sistema processuale verrebbe gravemente depotenziato con forti e irreparabili ricadute sulla sua efficienza e, di conseguenza, gli stessi fondamenti sociali della civile convivenza verrebbero messi a repentaglio.
In realtà lo iussum del giudice trova sempre un adeguato presidio nell’ordinamento.
Di ciò può essere data ampia prova e di esempi se ne possono fare in gran numero.
Fermo restando che lo stesso sistema della esecuzione forzata non è altro che lo strumento per rendere coattivo e imperativo lo iussum esecutivo giudiziale, le sanzioni possono essere dirette e prevedere la condanna della parte (e talvolta anche di un terzo) al pagamento di somme di danaro così come previsto a carico di chi si sottrae volontariamente al provvedimento che dispone l’assunzione della testimonianza e di chi si rifiuta di adempiere all’obbligo di un fare (o non fare) infungibile (art.614 bis cpc)..
Come pure consistere in sanzioni penali come nel caso dell’art.388 del codice penale..
Ovvero, possono essere indirette, nei casi in cui le conseguenze dell’inottemperanza vanno ad attingere, negativamente, il merito, come nel caso della mancata risposta all’interrogatorio formale, dell’art.116 cpc, dell’art. 118 cpc, etc.
In altri casi ancora dall’inottemperanza possono scaturire misure coercitive (è il caso dell’ordine di esibizione ex art. 210 cpc al quale, ove inadempiuto, può seguire il sequestro di cui all’art. 670 cpc)
Ciò per dire e concludere che l’inottemperanza, ingiustificata, delle parti (di regola quella convocata, posto che per l’istante sussiste adeguata sanzione ed infatti all’ordine della demandata segue nella quasi totalità dei casi l’introduzione del procedimento di mediazione), all’ordine del giudice ex art. 5 comma II° decr.lgsl.28/10, non solo di introdurre, ma di partecipare effettivamente alla mediazione, costituisce sempre grave inadempienza, dalla quale ben può discendere, secondo le circostanze del caso, l’applicazione della sanzione di cui al terzo comma dell’art.96 cpc.
Nel caso in esame, infine, la circostanza del riconosciuto concorso di colpa non elide la gravità della colpa del Comune per la evidente ragione che nell’ordinanza del 15.12.2014 il giudice aveva già segnalato la possibilità che fosse ravvisato un certo grado di imprudenza del conducente, concorrente con la negligenza dell’ente territoriale per lo stato di totale abbandono in cui versava la superficie stradale in questione
Di talché proprio da tale precisazione l’ente territoriale avrebbe potuto trarre vantaggio (e risparmio) dalla negoziazione, partecipando utilmente al procedimento di mediazione.
9- La quantificazione della somma al cui pagamento la convenuta va condannata ai sensi dell’art.96 co.III° cpc
L’ammontare della somma deve essere rapportato :
9. Allo stato soggettivo del responsabile, perché il dolo e la cosciente volontarietà della condotta censurabile ex art. 96 co.III° è più grave della colpa. In questo caso vi è stata una volontaria condotta deresponsabilizzata del Comune di Roma, che disattendendo il motivato e ragionevole invito del giudice a trovare un conveniente accordo tenendo conto di quanto argomentato nell’ordinanza, ha preferito portare la causa alle estreme conseguenze, aggravando inutilmente il lavoro del giudice, piuttosto che ragionare e discutere responsabilmente in sede conciliativa, con sicuro risparmio anche per le casse dell’ente territoriale.
10. Alla qualifica ed alle caratteristiche del responsabile, persona fisica o giuridica che sia, ed alla sua maggiore o minore capacità anche in termini organizzativi, di preparazione professionale, culturale, tecnica, di assumere condotte consapevoli (si tratta di un parametro che riguarda la scusabilità, ove esistente, in misura maggiore o minore, della condotta censurata). In questo caso la condotta dell’Ente territoriale non è scusabile per le ragioni dette.
11. Alla rilevanza delle conseguenze della condotta censurata. Ed a quanto ciò abbia inciso sulla parte vittoriosa sia dal punto di vista oggettivo che da quello soggettivo per lo stress aggiuntivo connesso all’incertezza dell’esito della lite ed al protrarsi dell’attesa del conseguimento del bene della vita atteso. Una conciliazione, facilmente conseguibile, visti i presupposti, avrebbe evitato tali ultime conseguenze che possono ritenersi verosimilmente verificate a carico dell’attore.
12. Alla forza ed al potere economico del responsabile, che secondo le circostanze può risultare avere abusato con la sua azione o la sua resistenza, del giudizio, dei suoi tempi e del modo di gestirlo.All’evidenza per un ente di enorme dimensioni, con responsabilità individuali diffuse, qual’è Roma Capitale, la durata della causa e l’eventualità della condanna alle spese connessa ad una possibile soccombenza non costituisce una remora sufficiente ad evitare condotte processuali censurabili
13. Alla perseveranza della condotta censura. Laddove il soccombente non abbia manifestato alcuna resipiscenza perseverando con argomenti manifestamente errati. E l’evidente caso che ci occupa dove la giustificazione addotta dall’ente territoriale per non partecipare alla mediazione è stata puramente di stile ed erronea, quando ancora all’udienza di verifica si sarebbe potuta fare emergere una qualche disponibilità alla conciliazione propiziata dal giudice.
14. Alla necessità che in relazione alle caratteristiche del soggetto responsabile, ed in particolare alla sua capacità patrimoniale, la condanna ex art.96 co III° cpc costituisca un efficace deterrente ed una sanzione significativa ed avvertibile. Nei confronti di un’amministrazione pubblica tale provvedimento acquista maggiore efficacia, tale da essere in grado di sensibilizzare direttamente il funzionario responsabile e quello titolare del rapporto organico, se accompagnato dalla trasmissione degli atti all’Organo competente (Procura Generale della Corte dei Conti) per l’accertamento del danno erariale (in questo caso commisurabile quanto meno alla somma per la quale viene emessa condanna ex art. 96 co. III° cpc; ed al contributo unificato), incombente che, valutata ogni circostanza, devesi senz’altro adottare in questo caso.
Per la concreta determinazione della somma si ritiene di adottare, quale valido ed obiettivo parametro di riferimento, una somma di ammontare pressoché pari a quella liquidata a titolo di sorte.
Nel caso di specie, pertanto, si reputa giusto ed equo condannare l’ente convenuto al pagamento della somma di €.8.000,00=
-10- Il danno erariale – Trasmissione degli atti alla Procura Generale della Corte dei Conti
Come da ordinanza che segue.
-11- Le spese processuali.
Le spese (che vengono regolate secondo le previsioni – orientative per il giudice che tiene conto di ogni utile circostanza per adeguare nel modo migliore la liquidazione al caso concreto- della l.24.3.2012 n.27 e del D.M. Ministero Giustizia 10.3.2014 n.55) vengono liquidate come in dispositivo in favore dell’attore.
La sentenza è per legge esecutiva.

P.Q.M. 

definitivamente pronunziando, ogni contraria domanda eccezione e deduzione respinta, così provvede:
o CONDANNA Roma Capitale in persona del Sindaco pro tempore al risarcimento dei danni che determina in favore di R. C. nella complessiva somma di € 9.100.000 oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo;
o CONDANNA Roma Capitale in persona del Sindaco pro tempore al pagamento delle spese di causa che liquida in favore dell’attore in complessivi € 3500,00 per compensi oltre IVA, CAP e spese generali;
o CONDANNA Roma Capitale in persona del Sindaco pro tempore al pagamento ai sensi dell’art.96 co.III° in favore di R. C. della somma di € 8.000,00 ;
o CONDANNA Roma Capitale in persona del Sindaco pro tempore al pagamento in favore dell’Erario di una somma corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio, mandando alla cancelleria per la riscossione;
o DISPONE con separata ordinanza, l’invio degli atti e della sentenza alla Procura Generale della Corte dei Conti per la valutazione dei danni erariali;
o SENTENZA esecutiva;
Roma lì 17.12.2015 Il Giudice
dott. cons.Massimo Moriconi

1. n. 59487-11
TRIBUNALE di ROMA SEZIONE XIII°
O R D I N A N Z A

Il Giudice,
dott. Massimo Moriconi,
letti gli atti e la sentenza emessa in data odierna,
preso atto della condotta volontariamente deresponsabilizzata dell’Ente territoriale nei confronti dell’ordine di cui all’ordinanza del 15.12.2014 del Giudice e della conseguente mancata ingiustificata partecipazione di Roma Capitale al procedimento di mediazione demandata con essa ordinanza disposto;
preso atto che in relazione alle circostanze esposte nella predetta ordinanza (ed in particolare all’essere stata ivi ventilata la esistenza di un concorso di colpa del danneggiato), vi erano elevate probabilità di un accordo che avrebbe comportato un minor esborso da parte dell’ente territoriale rispetto a quello che contiene la sentenza;
considerato che l’esistenza di ben chiare coordinate esposte dal giudice nella predetta ordinanza ponevano l’ente nella condizione di poter pervenire ad una conciliazione in totale sicurezza e senza il timore di addebiti per le scelte discrezionali ad essa afferenti;
ritenuta la possibile sussistenza di un danno erariale causato sia sotto il profilo del maggior esborso dovuto da Roma Capitale conseguente alla sentenza di condanna rispetto alla conciliazione; e sia in relazione alle somme da pagare in dipendenza della condanna ex art. 96 III° cpc ed al contributo unificato, direttamente ed esclusivamente dipendenti da tale censurata condotta deresponsabilizzata;

P.Q.M.

MANDA alla cancelleria di trasmettere copia della ordinanza del 15.12.2014 e della sentenza n.25218/15 del 17.12.2015 alla Procura Generale della Corte dei Conti in ordine alla possibile sussistenza di fattispecie di danno erariale.-

Roma lì 17.12.2015
Il Giudice
dott.cons.Massimo Moriconi

Cassazione: media l’opponente

Corte di Cassazione, Terza sezione civile, sentenza 3 dicembre 2015, n. 24629.

Commento:

Giunge, finalmente e quanto mai atteso, l’intervento della Suprema Corte di Cassazione in ordine alla vexata quaestio relativa alle conseguenze della omessa mediazione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
Secondo la Cassazione è il debitore opponente, originario ingiunto, ad essere gravato dall’onere di avviare il procedimento di mediazione all’interno di un giudizio, quale appunto quello di opposizione a decreto ingiuntivo, all’interno del quale al medesimo va ascritto un evidente interesse ad agire.
Con la conseguenza, come si vedrà, che l’omessa instaurazione del tentativo conciliativo implicherà l’improcedibilità della domanda proposta in opposizione, ed il conseguente solidificarsi del decreto ottenuto dal creditore in via monitoria.
Sembra opportuno sintetizzare, sia pur brevemente, i termini della questione.
Come è noto, secondo l’art. 5, co. 4, D.lgs 28/2010, i commi 1 – bis e 2 della medesima disposizione, che prevedono, rispettivamente, la mediazione obbligatoria ante causam, e la mediazione delegata dal giudice per le cause già pendenti, non si applicano “ …nei procedimenti di ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”.
Appare evidente come il legislatore abbia ritenuto che lo svolgimento della procedura di mediazione fosse sostanzialmente incompatibile con le peculiari caratteristiche del procedimento monitorio, caratterizzato dalla rapidità e assenza di previa attivazione del contraddittorio, e dell’opposizione, il cui termine di proponibilità risulta contingentato dall’art. 641 c.p.c.
In conseguenza di quanto premesso, in caso di pretesa azionata in via monitoria, l’esperimento della mediazione diviene possibile solo quando sia stata proposta opposizione, e, comunque, dopo l’adozione dei provvedimenti, considerati urgenti e lato sensu cautelari, sulla esecutività del provvedimento monitorio emesso.
Ora, fermo restando che il mancato esperimento della mediazione, tanto nei casi di cui all’art. 5, co. 1 – bis, quanto laddove la stessa venga delegata dal giudice, comporta la improcedibilità della domanda giudiziale, si è assai discusso, in dottrina e soprattutto in giurisprudenza, in ordine a chi abbia l’onere di promuovere la mediazione, e quindi abbia interesse ad evitare la declaratoria di improcedibilità, in punto di giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
Nella giurisprudenza in materia sono rintracciabili due distinti orientamenti che, fino alle pronunce più recenti, hanno seguitato a contrapporsi.
Secondo un primo indirizzo, che tende a valorizzare risalenti orientamenti relativi all’oggetto del giudizio di opposizione, che costituirebbe una (sia pur eventuale) continuazione della fase monitoria nell’ambito di un’unica vicenda processuale che, non a caso, secondo la giurisprudenza di legittimità, risulterebbe pendente sin dal momento del deposito del ricorso per decreto ingiuntivo (cfr., ad es., Corte Cass., ord. 4 settembre 2014, n. 18707, e Corte Cass., ord. 3 settembre 2009, n. 19120), la declaratoria di improcedibilità avrebbe ad oggetto la domanda sostanziale proposta in via monitoria.
Il ricorrente opposto, formalmente convenuto nel relativo giudizio, sarebbe da considerarsi attore sotto il profilo sostanziale, mentre l’opponente, che formalmente ha agito, sempre sotto il profilo sostanziale dovrebbe ritenersi convenuto. Pertanto l’opposto, titolare della pretesa sostanziale azionata, divenuta oggetto del giudizio di opposizione, avrà l’onere di promuovere il tentativo di mediazione, subendo, in mancanza, la declaratoria di improcedibilità della domanda, che implicherebbe il venir meno della pretesa sostanziale proposta in via monitoria.
Alla base di una siffatta ricostruzione si pone la ricorrente considerazione secondo cui, diversamente opinando, si finirebbe con il produrre un irragionevole squilibrio ai danni del debitore che non solo subisce l’ingiunzione di pagamento a contraddittorio differito, ma nella procedura successiva alla fase sommaria, viene pure gravato di altro onere che, nel procedimento ordinario, non spetterebbe a lui. E ciò sulla base di una scelta discrezionale del creditore (cfr., in primis, Trib. Varese, 18 maggio 2012, est. Buffone. Successivamente, cfr., ad es., Trib. Ferrara, sent. 7 gennaio 2015 e, ancora Trib. Cuneo, sent. 1 ottobre 2015, che, quanto all’interesse dell’originario ricorrente, si spinge ad affermare che non può ritenersi “…che lo stesso sia già soddisfatto dal titolo monitorio perché, in caso di accoglimento della spiegata opposizione, tale titolo è suscettibile di essere revocato. Dunque, diversamente da quanto affermato dai sostenitori della tesi opposta a quella che qui si preferisce, ben può ritenersi che l’attivazione della procedura di mediazione corrisponda all’interesse del creditore ingiungente giacché, ove quest’ultimo non provveda, il titolo monitorio è destinato alla caducazione per improcedibilità della domanda come originariamente proposta nei confronti del soggetto ingiunto”).
Secondo un diverso orientamento, invece, muovendo da un lato da una asserita scarsa chiarezza obbiettiva delle espressioni letterali utilizzate dal legislatore e dall’altro dall’intento di valorizzare la particolare disciplina giuridica del giudizio di opposizione, si è sostenuta, in caso di omessa mediazione, la improcedibilità della opposizione, con conseguente passaggio in giudicato del decreto opposto (in tal senso già Trib. Prato, 18 luglio 2011, est. Iannone; successivamente cfr., ex multis, Trib. Rimini, 5 agosto 2014 est. Bernardi; Trib. Firenze, 30 ottobre 2014, est. Ghelardini; fino alla recentissima Trib. Pavia, 12 ottobre 2015, est. Marzocchi).
Detta opzione ermeneutica muove dal contesto normativo in cui si inserisce il giudizio di opposizione e, in particolare, da una attenta considerazione del sistema di sanzioni previste dall’ordinamento a fronte dell’inattività del debitore ingiunto.
Occorre innanzitutto fare riferimento alla disciplina di cui al combinato disposto degli artt. 647 e 650 c.p.c. in virtù del quale, dichiarata l’inammissibilità dell’opposizione tardiva, il decreto acquista esecutività. La medesima sanzione è prevista, poi, dal richiamato art. 647 c.p.c. per l’ipotesi di costituzione tardiva dell’opponente.
Viene in rilievo, infine, il dettato dell’art. 653 c.p.c. che, per il caso di dichiarazione dell’estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 307 c.p.c. , stabilisce che “…il decreto che non ne sia già munito acquista efficacia esecutiva”.
D’altro canto, come sempre evidenziato dai fautori dell’orientamento in parola, ritenere che la mancata instaurazione del procedimento di mediazione conduca alla revoca del decreto ingiuntivo comporterebbe che, in contrasto con le regole processuali proprie del rito, verrebbe a porsi in capo all’originario ingiungente l’onere di coltivare il giudizio di opposizione per garantirsi la salvaguardia del decreto opposto, con ciò contraddicendo la ratio propria del giudizio di opposizione, che ha la propria peculiarità nel rimettere l’instaurazione del giudizio – e, quindi, la sottoposizione al vaglio del giudice della fondatezza del credito oggetto d’ingiunzione – alla libera scelta del debitore.
D’altra parte, con riferimento a quanto previsto dall’art. 653 c.p.c., è opportuno sottolineare che secondo la costante interpretazione della giurisprudenza di legittimità, concorde la dottrina, tale disposizione va intesa nel senso che l’estinzione del giudizio di opposizione produce gli stessi effetti dell’estinzione del giudizio di impugnazione: il decreto ingiuntivo opposto diviene definitivo ed acquista l’incontrovertibilità propria del giudicato (cfr. Corte Cass., n. 4294/2004). Non sarà pertanto possibile riproporre l’opposizione e resteranno coperti da giudicato implicito tutte le questioni costituenti antecedente logico necessario della decisione monitoria (cfr. Corte Cass., n. 15178/2000).
Evidente, dunque, l’analogia di ratio e di disciplina tra l’estinzione dell’opposizione a decreto ingiuntivo e quella del processo di appello (art. 338 c.p.c. secondo cui “…l’estinzione del giudizio di appello…fa passare in giudicato la sentenza impugnata…”).
Queste, in sostanza, le coordinate ermeneutiche alla base dei due richiamati orientamenti.
Ora, con la decisione in esame, la Corte di Cassazione assume una decisa posizione in favore della seconda ricostruzione, ritenendola, fra l’altro, maggiormente coerente anche con la finalità deflattiva che ha accompagnato l’introduzione da parte del legislatore dell’istituto della mediazione: il formarsi del giudicato sul decreto ingiuntivo opposto, infatti, esclude che possa mettersi nuovamente in discussione tra le parti il rapporto controverso mediante la riproposizione della medesima domanda.
Osserva infatti la Corte come “…la disposizione di cui all’art. 5 d. lgs n. 28 del 2010, di non facile lettura, deve essere interpretata conformemente alla sua ratio. La norma è stata costruita in funzione deflattiva e, pertanto, va interpretata alla luce del principio costituzionale del ragionevole processo e, dunque, dell’efficienza processuale. In questa prospettiva la norma, attraverso il meccanismo della mediazione obbligatoria, mira – per così dire – a rendere il processo l’extrema ratio: cioè l’ultima possibilità dopo che le altre possibilità sono state precluse. Quindi l’onere di esperire il tentativo di mediazione deve allocarsi presso la parte che ha interesse al processo e ha il potere di iniziare il processo”.
La Corte prosegue rilevando come nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo la difficoltà di individuazione del soggetto processuale su cui grava l’onere di cui sopra deriva dal fatto che si è in presenza “…di una inversione logica tra rapporto sostanziale e rapporto processuale, nel senso che il creditore del rapporto sostanziale diventa l’opposto nel giudizio di opposizione”.
Proprio quanto da ultimo osservato ha finito con l’ingenerare, secondo il Collegio, “…un errato automatismo logico”, in forza del quale si tende ad individuare nel titolare del rapporto sostanziale, qui convenuto in opposizione, la parte sulla quale verrebbe a gravare l’onere in questione.
Ma, conclude il Giudice di legittimità, ove si mantenga come guida il criterio ermeneutico dell’interesse e del potere di introdurre il giudizio a cognizione piena, “…la soluzione deve essere quella opposta. Invero, attraverso il decreto ingiuntivo, l’attore ha scelto la linea deflattiva coerente con la logica dell’efficienza processuale e della ragionevole durata del processo. E’ l’opponente che ha il potere e l’interesse ad introdurre il giudizio di merito, cioè la soluzione più dispendiosa, osteggiata dal legislatore. E’ dunque sull’opponente che deve gravare l’onere della mediazione obbligatoria perché è l’opponente che intende precludere la via breve per percorrere la via lunga”.
In sostanza, quindi, secondo la Corte è l’opponente “…ad avere interesse ad avviare il procedimento di mediazione pena il consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo ex art. 653 c.p.c. Soltanto quando l’opposizione sarà dichiarata procedibile riprenderanno le normali posizioni delle parti: opponente – convenuto sostanziale, opposto – attore sostanziale. Ma nella fase precedente sarà il solo opponente, quale unico interessato, ad avere l’onere di introdurre il procedimento di mediazione; diversamente, l’opposizione sarà improcedibile”.
L’interpretazione c.d. evolutiva, ad oggi effettivamente prevalente, è dunque, secondo la Cassazione, quella che deve considerarsi in ultima analisi corretta, soprattutto se rapportata ai principi generali sul giusto processo e agli intenti deflattivi che hanno chiaramente ispirato gli interventi legislativi degli ultimi anni in materia di giustizia civile, primo tra tutti l’introduzione della mediazione, in molti ambiti, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Dott. Luigi Majoli

Testo integrale:

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROBERTA VIVALDI – Rel. Presidente —
Dott. GIACOMO MARIA STALLA – Consigliere –
Dott. GIUSEPPA CARLUCCIO – Consigliere –
Dott. ANTONIETTA SCRIMA – Consigliere –
Dott. ENZO VINCENTI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 116 – 2014 proposto da:
XXXXXXXXX, in persona dell’amministratore unico XXXXXXX, considerata domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato XXXXXX, giusta procura a margine del ricorso

ricorrente –

contro
YYYYYYYYY, in persona dell’YYYYYYYYY, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CESI, YY, presso lo studio dell’avvocato YYYYYYY, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato YYYYYYYY, giusta procura in calce al controricorso

– controricorrente –

avverso la sentenza n. ZZZZZZ della CORTE D’APPELLO DI TORINO, depositata il 16/05/2013, R.G.N. ZZZZZZZZZZ
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/10/2015 dal consigliere Dott. Roberta Vivaldi;
udito l’avvocato XXXXXXXX per delega;
udito l’avvocato YYYYYYYY;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIOVANNI GIACALONE che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La XXXXXXXXX ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi avverso la sentenza del 16.5.2013 con la quale la Corte di Appello di Torino – in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti su ricorso della YYYYYYYY per il pagamento di canoni di locazione – aveva confermato la sentenza di primo grado che aveva dichiarato improcedibile l’opposizione proposta per il mancato avvio della mediazione obbligatoria ai sensi dell’art. 5 d. lgs n. 28 del 2010.
Resiste con controricorso la XXXXXXXXX.

MOTIVI DELLA DECISIONE

In via preliminare va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla resistente.
Vero è che è ammissibile l’impugnazione con la quale l’appellante si limiti a dedurre soltanto vizi di rito avverso una pronuncia che abbia deciso anche nel merito in senso a lui sfavorevole, solo ove i vizi denunciati comporterebbero, se fondati, una rimessione al primo giudice ai sensi degli artt. 353 e 354 c.p.c.
Nelle ipotesi in cui, invece, il vizio denunciato non rientra in uno dei casi tassativamente previsti dai citati artt. 353 e 354 c.p.c., è necessario che l’appellante deduca ritualmente anche le questioni di merito.
Diversamente, l’appello fondato esclusivamente su vizi di rito è inammissibile, oltre che per un difetto di interesse, anche per non rispondenza al modello legale di impugnazione (S.U. 14.12.1998 n. 12541; da ultimo Cass. 29.1.2010 n. 2503; Cass. 25.9.2012 n. 16272).
Ma questo solo se la pronuncia abbia deciso anche nel merito in senso sfavorevole all’impugnante; situazione che non si è verificata nel caso in esame di pronuncia, solo in rito, sulla improcedibilità della opposizione.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione, falsa applicazione di norma di diritto (art. 360, comma 1°, n. 3, c.p.c.): in particolare, violazione dell’art. 5 D. lgs 28/2010.
La disposizione di cui all’art. 5 d. lgs n. 28 del 2010, di non facile lettura, deve essere interpretata conformemente alla sua ratio.
La norma è stata costruita in funzione deflattiva e, pertanto, va interpretata alla luce del principio costituzionale del ragionevole processo e, dunque, dell’efficienza processuale.
In questa prospettiva la norma, attraverso il meccanismo della mediazione obbligatoria, mira – per così dire – a rendere il processo l’extrema ratio: cioè l’ultima possibilità dopo che le altre possibilità sono state precluse.
Quindi l’onere di esperire il tentativo di mediazione deve allocarsi presso la parte che ha interesse al processo e ha il potere di iniziare il processo.
Nel procedimento per decreto ingiuntivo cui segue l’opposizione, la difficoltà di individuare il portatore dell’onere deriva dal fatto che si verifica una inversione logica tra rapporto sostanziale e rapporto processuale, nel senso che il creditore del rapporto sostanziale diventa l’opposto nel giudizio di opposizione.
Questo può portare ad un errato automatismo logico per cui si individua nel titolare del rapporto sostanziale (che normalmente è l’attore nel rapporto processuale) la parte sulla quale grava l’onere.
Ma in realtà – avendo come guida il criterio ermeneutico dell’interesse e del potere di introdurre il giudizio di cognizione – la soluzione deve essere quella opposta.
Invero, attraverso il decreto ingiuntivo, l’attore ha scelto la linea deflattiva coerente con la logica dell’efficienza processuale e della ragionevole durata del processo.
E’ l’opponente che ha il potere e l’interesse ad introdurre il giudizio di merito, cioè la soluzione più dispendiosa, osteggiata dal legislatore.
E’ dunque sull’opponente che deve gravare l’onere della mediazione obbligatoria perché è l’opponente che intende precludere la via breve per percorrere la via lunga.
La diversa soluzione sarebbe palesemente irrazionale perché premierebbe la passività dell’opponente e accrescerebbe gli oneri della parte creditrice.
Del resto, non si vede a quale logica di efficienza risponda una interpretazione che accolli al creditore del decreto ingiuntivo l’onere di effettuare il tentativo di mediazione quando ancora non si sa se ci sarà opposizione allo stesso decreto ingiuntivo.
E’, dunque, l’opponente ad avere interesse ad avviare il procedimento di mediazione pena il consolidamento degli effetti del decreto ingiuntivo ex art. 653 c.p.c.
Soltanto quando l’opposizione sarà dichiarata procedibile riprenderanno le normali posizioni delle parti: opponente – convenuto sostanziale, opposto – attore sostanziale.
Ma nella fase precedente sarà il solo opponente, quale unico interessato, ad avere l’onere di introdurre il procedimento di mediazione; diversamente, l’opposizione sarà improcedibile.
Il motivo, quindi, non è fondato.
Con il secondo motivo si denuncia vizio di omessa, insufficiente e comunque contraddittoria motivazione circa il fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, comma 1°, n. 5, c.p.c.).
Il motivo è inammissibile perché aspecifico.
La ricorrente, al di là della critica, soltanto enunciata, non specifica, né riporta in ricorso, quali siano le parti della motivazione insufficienti, carenti o contraddittorie, né indica quali siano le ragioni della decisività degli errori motivazionali; vale a dire la loro rilevanza ai fini della decisione.
Conclusivamente il ricorso è rigettato.
La novità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese.
Sussistono le condizioni per l’applicazione del disposto dell’art. 13 c. 1 quater dpr n. 115/2002 introdotto dalla legge 228 del 2012.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13 c. 1 quater del d.p.r. n. 115/2002 dà atto della sussistenza per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il giorno 7 ottobre 2015, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte di cassazione.
Il Presidente Estensore

giurisprudenza mediazione civile

Chi non media non vince

Tribunale di Cuneo, sentenza 1 ottobre 2015.

Per quanto poco piacevole a rilevarsi, una risoluzione condivisa delle problematiche inerenti al rapporto tra instaurazione del procedimento di mediazione e giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo appare ancora assai lontana.
Nell’ambito in questione, va registrato ancora un round favorevole all’orientamento per il quale deve individuarsi nel creditore opposto la parte onerata ad assolvere la condizione di procedibilità della domanda giudiziale, vale a dire, per l’appunto, l’esperimento del tentativo di mediazione. Con la conseguenza che, nell’ipotesi di mancata attivazione del relativo procedimento, verrebbe a determinarsi l’improcedibilità dell’azione così come originariamente proposta nelle forme di cui agli art. 633 ss. c.p.c., derivandone, necessariamente, la revoca del decreto ingiuntivo opposto.
Secondo il Tribunale di Cuneo, infatti, la tesi che complessivamente appare oggi prevalente, vale a dire quella per la quale, se l’opponente ha l’onere di introdurre il giudizio di opposizione, si dovrebbe ritenere che su di esso esclusivamente gravi l’onere di coltivare lo stesso giudizio e, pertanto, che su di esso gravino anche gli effetti pregiudizievoli di una eventuale improcedibilità, non risulterebbe la più convincente.
Secondo il Giudice, maggiormente condivisibile appare l’orientamento “…che, nell’ambito dei giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, individua nel creditore opposto la parte onerata ad assolvere la condizione di procedibilità
prevista dalla legge (esperimento della mediazione obbligatoria). Per cui, nell’ipotesi di mancata attivazione della procedura di media conciliazione, si determinerà l’improcedibilità dell’azione, così come originariamente proposta mediante il deposito del ricorso monitorio, con la conseguente e necessaria revoca del decreto ingiuntivo opposto” (cfr., in tal senso, Trib. Ferrara, sent. 7 gennaio 2015).
Ciò in quanto “…il creditore opposto è, in senso effettivo e sostanziale, l’attore alla cui iniziativa è imputabile l’introduzione del thema decidendum del successivo giudizio di opposizione ovvero l’introduzione di quella pretesa che costituisce , in una logica unitaria, sia l’oggetto della fase monitoria sia l’oggetto del giudizio di opposizione (ove, evidentemente, introdotto). In altri termini, la fase dell’opposizione non costituisce un autonomo procedimento, ma costituisce una (sia pur eventuale) continuazione della fase monitoria nell’ambito di un unico giudizio, giudizio che, non a caso, secondo la giurisprudenza di legittimità pende sin dal momento del deposito del ricorso per decreto ingiuntivo” (cfr., ex multis, Corte Cass., ord. 4 settembre 2014, n. 18707, e Corte Cass., ord. 3 settembre 2009, n. 19120).
Quanto poi all’interesse dell’originario ricorrente, secondo la pronuncia in esame, non può ritenersi “…che lo stesso sia già soddisfatto dal titolo monitorio perché, in caso di accoglimento della spiegata opposizione, tale titolo è suscettibile di essere revocato. Dunque, diversamente da quanto affermato dai sostenitori della tesi opposta a quella che qui si preferisce, ben può ritenersi che l’attivazione della procedura di mediazione corrisponda all’interesse del creditore ingiungente giacché, ove quest’ultimo non provveda, il titolo monitorio è destinato alla caducazione per improcedibilità della domanda come originariamente proposta nei confronti del soggetto ingiunto”.
In conclusione, dunque, secondo il Giudice piemontese, deve essere dichiarata l’improcedibilità dell’azione come originariamente proposta dalla convenuta in opposizione, con conseguente revoca del decreto ingiuntivo.
In virtù poi della natura delle questioni controverse, e soprattutto dell’assenza di un orientamento giurisprudenziale uniforme, si ritengono sussistenti i presupposti per l’integrale compensazione tra le parti delle spese di lite.

Testo integrale:

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE ORDINARIO
DI CUNEO

in composizione monocratica, in persona del giudice designato dott. Marco Lombardo, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di primo grado iscritta al n. 5447 del Ruolo generale degli affari civili contenziosi-dell’anno-2013,-vertente
TRA
S. M. I. S.R.L, in persona del legale rappresentante pro tempore, D. M., tutti rappresentati e difesi dall’avv. F.V. per delega in calce alla copia notifica del decreto ingiuntivo opposto
* opponenti –
E
Banca di C. C. di C. Società Cooperativa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e dall’avv. A. B. per delega in calce al ricorso per decreto ingiuntivo
opposta –
avente per oggetto: opposizione a decreto ingiuntivo

CONCLUSIONI: come da verbale di udienza dell’1.10.15

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.Oggetto del presente giudizio è l’opposizione proposta dagli attori in epigrafe avverso il decreto ingiuntivo n. 1737 del 25.9.14, pronunciato dall’intestato Tribunale per l’importo di € 92.799,32 (oltre interessi e spese) nei confronti degli stessi odierni attori in opposizione su istanza dell’odierna opposta B. di C. C. di C. soc. coop.
Quest’ultima, in sede monitoria, deduceva di aver accordato alla odierna opponente S. M. I. s.r.l. un affidamento in conto corrente con relativa garanzia prestata dagli odierni opponenti M. D. e M. C. e che la debitrice principale, ampliata oltre i limiti previsti la propria esposizione debitoria, non provvedeva al pagamento del dovuto nonostante i reiterati solleciti alla stessa inoltrati.
Gli odierni opponenti, introducendo il presente giudizio, in via preliminare, chiedevano fissarsi il termine di legge per l’avvio della cosiddetta procedura di mediaconciliazione e, nel merito, lamentavano la violazione, da parte della banca opposta, dei principi di lealtà, correttezza e buona fede, con asserito addebito di interessi non dovuti ed asserite operazioni contabili errate. Ciò premesso, i medesimi suddetti opponenti chiedevano revocarsi (tout court) il suddetto decreto ingiuntivo, od in subordine, previa comunque la revoca dello stesso decreto ingiuntivo, chiedevano pronunciarsi una condanna di pagamento-limitata solo a quanto rigorosamente dovuto e provato con eventuale compensazione delle somme dovute agli attori a titolo risarcitorio e/o di refusione di spese e/o interessi non dovuti.
2. All’udienza-del-12.3.15, sulla base della ritenuta irrilevanza (per una parte), nonché sulla base della ritenuta genericità ed esploratività (per altra parte) delle doglianze articolate quali motivi di opposizione, veniva respinta la formulata istanza di sospensione della efficacia esecutiva del decreto ingiuntivo opposto e veniva assegnato alle parti il termine di legge per l’avvio della procedura di media conciliazione. Ciò in considerazione della riferibilità dell’oggetto della presente controversia al novero delle controversie in relazione alle quali la suddetta procedura è stata reintrodotta quale condizione di procedibilità dell’azione ad opera del d.l. n.69″13 (convertito con la l.n. 98″13).
3. Poiché, per dato pacifico, nessuna delle parti provvedeva ad avviare la suddetta procedura (cfr. verb. ud. 17.9.15), non vi è dubbio che il presente giudizio debba essere definito con una pronuncia di improcedibilità. Si pone tuttavia la questione, dibattuta tra le parti (cfr. verb. ud. 17.9.15 e verb. ud. 1.10.15), se l’improcedibilità riguardi il mero giudizio di opposizione, con conseguente consolidamento del titolo monitorio, ovvero se riguardi la domanda originariamente proposta in via monitoria, con conseguente revoca del decreto ingiuntivo opposto. In altre parole, è necessario stabilire quale parte avrebbe dovuto attivarsi, se la parte attrice in senso formale (nella fattispecie, gli opponenti) o se la parte attrice in senso sostanziale (nella fattispecie, la banca opposta).
Una prima tesi dottrinale e giurisprudenziale riconduce la condizione di procedibilità in esame al genus delle ipotesi inattività delle parti da cui deriva l’estinzione del giudizio (artt. 102, 181, 307 e 309 c.p.c.). Per cui, se la parte che ha introdotto in giudizio (dunque, se del caso, anche la parte opponente) la quale ha evidentemente interesse alla sua coltivazione non attiva la procedura di mediazione obbligatoria in ossequio all’ordine del giudice, sarà esposta alla declaratoria di improcedibilità dell’azione come dalla stessa introdotta (se del caso, quindi, alla declaratoria di improcedibilità del giudizio di opposizione) (cfr.Trib. Firenze, sent. 30.10.14). In tale solco interpretativo si è altresì sostenuto che la tesi della improcedibilità della domanda proposta in sede monitoria (con conseguente revoca del decreto ingiuntivo), da un lato, evocherebbe l’idea paradossale di una sopravvenuta improcedibilità di una domanda già definita a mezzo del pronunciamento di un titolo e, dall’altro lato, postulerebbe una sorta di sanzione processuale che non consta abbia uguali nell’ordinamento (quello monitorio, appunto) (cfr. Trib. Rimini, sent. 5.8.14; Trib. Chieti, sent. 8.9.15).
La suddetta tesi, inoltre, imporrebbe al creditore un adempimento al fine di consentire la celebrazione di un giudizio (quello di opposizione) cui il creditore medesimo non avrebbe alcun interesse (per essere già munito di un titolo), in contrasto con la peculiarità del giudizio di opposizione, la cui instaurazione è rimessa alla libera scelta dell’ingiunto. In altri termini, se l’opponente ha l’onere di introdurre il giudizio di opposizione, si dovrebbe ritenere che su di esso esclusivamente gravi l’onere di coltivare lo stesso giudizio e, pertanto, che su di esso gravino anche gli effetti pregiudizievoli di una eventuale improcedibilità (cfr.Trib. Nola, sent. 24.2.15).
Si è infine sostenuto che la revoca del decreto ingiuntivo non impedirebbe al creditore di ripromuovere la medesima azione monitoria, cosi gravando il sistema di plurime identiche domande in violazione della ratio deflattiva sottesa alla media-conciliazione (cfr. Trib. Chieti, sent. 8.9.15 cit.).
Appare maggiormente condivisibile, tuttavia, quel diverso orientamento che, nell’ambito dei giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, individua nel creditore opposto la parte onerata ad assolvere la condizione di procedibilità
prevista dalla legge (esperimento della mediazione obbligatoria). Per cui, nell’ipotesi-di-mancata-attivazione-della-procedura-di-media-conciliazione, si determinerà l’improcedibilità dell’azione, così come originariamente proposta mediante il deposito del ricorso monitorio, con la conseguente e necessaria revoca del decreto ingiuntivo opposto (Trib. Ferrara, sent. 7.1.15).
Ciò, innanzitutto, perché il creditore opposto è, in senso effettivo e sostanziale, l’attore alla cui iniziativa è imputabile l’introduzione del thema decidendum del successivo giudizio di opposizione ovvero l’introduzione di quella pretesa che cosstituisce , in una logica unitaria, sia l’oggetto della fase monitoria sia l’oggetto del giudizio di opposizione (ove, evidentemente, introdotto). In altri termini, la fase dell’opposizione non costituisce un autonomo procedimento, ma costituisce una (sia pur eventuale) continuazione della fase monitoria nell’ambito di un unico giudizio, giudizio che, non a caso, secondo la giurisprudenza di legittimità pende sin dal momento del deposito del ricorso per decreto ingiuntivo (cfr., ex multiis, Cass., ord. 4.9.14, n. 18707, e Cass., ord. 3.9.09, n. 19120).
Inoltre, la tesi della improcedibilità del giudizio di opposizione, con conseguente caducazione del decreto ingiuntivo opposto, evoca la logica del giudizio impugnatorio, costantemente rifiutata o sconfessata dalla giurisprudenza di legittimità, perché in qualche modo l’opponente, così come l’appellante, dovrebbe coltivare l’azione per non esporsi ad una declaratoria di improcedibilità (il primo dovrebbe attivarsi un funzione della mediazione, così come il secondo deve costituirsi in termini ai sensi dell’art.348, comma primo, c.p.c.).
La Cassazione, tuttavia, ha sempre affermato che, a prescindere dalla sussistenza dei-presupposti-per-l’emissione-del-decreto-ingiuntivo,-il-giudizio-di-opposizione non ha carattere impugnatorio e deve comunque incentrarsi sul vaglio di fondatezza della pretesa azionata dal creditore in sede monitoria (cfr., a vario titolo, ex multiis, Cass., sent. 23.7.14, n. 16767; Cass., sent. 28.9.06, n. 21050; Cass., sent. 16.3.06, n. 5844; Cass., sent. 27.3.07, n. 7526; Cass., sent. 26.10.00, n. 1426; Cass., sent. 28.9.94, n. 7892; Cass, sent. 19.7.86, n. 4668). Tanto che non assume alcuna rilevanza l’eventuale inssussistenza, ad esempio, della esigibilità o dei fatti costitutivi del credito al momento della emissione del titolo monitorio, se l’esigibilità od i fatti costitutivi sussistano al momento della decisione nel successivo giudizio di opposizione (cfr. Cass., sent. n. 5844/06 cit.; Cass., sent. 24.1.79, n. 528).
Quanto all’obiezione che si incentra sul rifiuto concettuale di una ipotesi di sopravvenuta improcedibilità di una domanda già definita con il pronunciamento di un titolo, si può agevolmente osservare che, nel momento in cui è proposta opposizione, la domanda monitoria non può dirsi definita mediante un titolo consolidato con effetti di giudicato (effetti suscettibili di determinarsi solo in caso di mancata opposizione, rigetto della stessa o estinzione del relativo giudizio). In altre parole, se il titolo monitorio può essere revocato in caso di accoglimento dell’opposizione nei confronti dello stesso spiegata, non si comprende perché lo stesso titolo non possa essere revocato in difetto delle condizioni dell’azione come originariamente proposta dal creditore.
Quanto all’interesse di quest’ultimo, non si può ritenere che lo stesso sia già soddisfatto dal titolo monitorio perché, in caso di accoglimento della spiegata opposizione, tale titolo è suscettibile di essere revocato. Dunque, diversamente da quanto affermato dai sostenitori della tesi opposta a quella che qui si preferisce, ben può ritenersi che l’attivazione della procedura di mediazione corrisponda all’interesse del creditore ingiungente giacché, ove quest’ultimo non provveda, il titolo monitorio è destinato alla caducazione per improcedibilità della domanda come originariamente proposta nei confronti del soggetto ingiunto.
Si noti, infine, che la possibile riproposizione della medesima azione monitoria (che frusterebbe la ratio deflattiva sottesa all’obbligatorietà della mediazione) risponde allo stesso principio di riproponbilità dell’azione monitoria in caso di revoca del titolo monitorio per ragioni di rito.
3. In conclusione, deve essere dichiarata l’improcedibilità dell’azione monitoria come originariamente proposta dalla odierna banca opposta e deve conseguentemente essere revocato il decreto ingiuntivo n. 1737 del 25.9.14, pronunciato dall’intestato Tribunale ed in questa sede opposto.
4. In ragione della natura delle questioni controversie, e quindi della insussistenza (allo stato) di un orientamento giurisprudenziale univoco, e comunque di pronunciamenti di legittimità, devono ritenersi sussistenti i presupposti per l’integrale compensazione tra le parti delle spese di lite.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando sulla causa iscritta al n. 5447 del Ruolo generale degli affari civili contenziosi dell’anno 2014, il Tribunale in composizione monocratica, disattesa ogni contraria deduzione, istanza ed eccezione, così decide:
a) dichiara che l’improcedibilità dell’azione promossa dalla odierna opposta B. di C. C. di C. soc. coop., come originariamente esperita in sede monitoria;
b) per l’effetto, revoca il decreto ingiuntivo n. 1737 del 25.9.14, pronunciato dall’intestato Tribunale nei confronti degli odierni opponenti S. M. I. srl;
c) compensa integralmente tra le parti le spese di lite.
Sentenza pubblicata in udienza.

In Saluzzo, 1.10.15
Il giudice
(dott. Marco Lombardo)

Mediazione: sì alle spese di avvio e obbligo formativo per avvocati

Importanti conferme da parte del Consiglio di Stato, con la sentenza 17 novembre 2015, in ordine alle spese di avvio del procedimento di mediazione, all’obbligo degli avvocati, mediatori ex lege, di formarsi e di aggiornarsi e, più in generale, alla piena legittimità costituzionale della mediazione così come riformata dalla legge 98/2013.

Il Ministero della Giustizia e il Ministero dello Sviluppo Economico hanno interposto appello, previa sospensiva, avverso la sentenza con la quale il TAR Lazio, in parziale accoglimento del ricorso proposto dall’Unione Nazionale delle Camere Civili (UNCC), aveva parzialmente annullato il DM 180/2010.

Costituitasi nel giudizio, l’appellata UNCC, non limitandosi a controdedurre ai fini del rigetto dell’appello, ha a sua volta proposto appello incidentale avverso la medesima pronuncia di primo grado nella parte in cui respingeva una delle questioni di legittimità costituzionale avanzate da parte ricorrente.

Inoltre, aderivano ad adiuvandum trentuno avvocati mediatori iscritti e l’associazione Primavera Forense, a sua volta organismo di mediazione iscritto, la quale ha assunto, in limine, l’inammissibilità del ricorso di primo grado per omessa notifica ad almeno un controinteressato (vale a dire, ad almeno un organismo di mediazione).

Questa, in sintesi, la vicenda in fatto.

Occorre ora analizzare i motivi della decisione del supremo giudice amministrativo, secondo l’ordine delle diverse argomentazioni in diritto.

In primo luogo, il Collegio rileva come, in ordine logico, debba necessariamente muoversi dall’appello incidentale, dal momento che “…la sua ipotetica fondatezza comporterebbe la possibile incostituzionalità delle stesse norme primarie a monte della censurata disciplina regolamentare” e “…che siffatta questione, ove ritenuta non manifestamente infondata, imporrebbe la rimessione alla Corte costituzionale anche d’ufficio”.

In effetti, con l’impugnazione incidentale, l’UNCC reitera una sola delle questioni di legittimità costituzionale che il TAR aveva ritenuto manifestamente infondate, in particolare quella relativa alla nuova mediazione delegata dal giudice ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.

Sul punto, il Consiglio di Stato conferma la pronuncia di primo grado, nel senso dell’esclusione di una significativa incisione del diritto alla tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost., risultando “…la nuova disciplina introdotta nel 2013 (…) circondata da cautele idonee a prevenire un serio pregiudizio di tale diritto: in tal senso andrebbero le previsioni dell’assistenza obbligatoria del difensore, della specializzazione dei mediatori e, soprattutto, della circoscrizione dell’obbligatorietà al solo “primo incontro” di cui al comma 1 dell’art. 8 del d.lgs. nr. 28/2010, all’esito del quale l’interessato può decidere di non proseguire nella procedura di mediazione”.

Quanto all’obiezione secondo la quale la previsione di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, finirebbe con l’obbligare l’interessato non già al solo primo incontro, ma ad esperire l’intero procedimento di mediazione, il Giudice, premesso che il primo incontro costituisce “…parte integrante del procedimento di mediazione e non un qualcosa di estraneo ad esso”, osserva che la stessa si pone in pieno contrasto con il dettato normativo, in quanto il comma 2 – bis del medesimo art. 5, “…con previsione certamente applicabile anche alla fattispecie regolata dal precedente comma 2”, dispone che laddove “…l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”.

In sostanza, dunque, la Sezione condivide, e pertanto conferma, la valutazione di manifesta infondatezza in ordine alla censura di legittimità costituzionale riproposta.

Egualmente infondata risulta l’eccezione di inammissibilità del ricorso di prime cure sollevata dall’interveniente ad adiuvandum Associazione Primavera Forense, secondo cui l’originario contraddittorio avrebbe dovuto essere allargato ad almeno un organismo di mediazione, in quanto controinteressato. L’eccezione, ad avviso del Giudice, non ha pregio in quanto secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, nell’ipotesi di impugnazione di norme regolamentari, “…non possono individuarsi soggetti aventi posizione formale di controinteressati, a nulla rilevando in tal senso la posizione dei destinatari delle disposizioni generali e astratte contenute nel regolamento impugnato”.

Per quanto concerne l’impugnazione principale proposta dall’Amministrazione, invece, la situazione appare più complessa.

Infatti, se ad avviso del Giudice deve considerarsi infondato il primo motivo d’appello, con il quale si reiterava l’eccezione, già disattesa dal TAR, di inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione, dovendosi riconoscere la rappresentatività nazionale della UNCC, parzialmente fondati, nei termini che immediatamente si passa ad illustrare, risultano invece il secondo ed il terzo motivo di gravame.

Il secondo motivo riguarda la parte della sentenza di prime cure in cui era stata dichiarata l’illegittimità dei commi 2 e 9 dell’art. 16, DM 180/2010. Dette disposizioni, come è noto, implicano comunque l’erogazione di somme da parte dell’utente anche in caso di esito negativo del primo incontro, ed erano state ritenute dal primo giudice incompatibili con l’innovativa disposizione di cui all’art. 17,  co. 5 – ter, D.lgs 28/2010, secondo cui: “…nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”;

Secondo la Sezione, occorre muovere dall’infelice scelta operata dal legislatore, con l’utilizzo del termine “compenso”, in un contesto normativo in cui il corrispettivo dovuto per i servizi di mediazione è qualificato più tecnicamente come “indennità”, e non solo a livello primario: infatti, anche a norma dell’art. 1 del censurato DM 180/2010 si parla per l’appunto di “indennità”, definendola come “…l’importo posto a carico degli utenti per la fruizione del servizio di mediazione fornito dagli organismi”.

Nel successivo art. 16 poi si ha la distinzione tra “spese di avvio” (cui deve aggiungersi la distinta voce “spese vive documentate”) e “spese di mediazione”.

Ora, il Consiglio di Stato ribadisce che il termine “compenso” di cui al citato art. 17,  co. 5 – ter, D.lgs 28/2010 deve essere inteso quale corrispettivo di un servizio prestato, mentre “…le spese di avvio, quantificate dal legislatore in modo fisso e forfettario (e, quindi, sganciato da ogni considerazione dell’entità del servizio effettivamente prestato dall’organismo di mediazione), vanno qualificate come onere economico imposto per l’accesso a un servizio che è obbligatorio ex lege per tutti coloro i quali intendano accedere alla giustizia in determinate materie”.

D’altra parte, il Giudice osserva “…che il primo incontro non costituisce un passaggio esterno e preliminare della procedura di mediazione, ma ne è invece parte integrante alla stregua del chiaro tenore testuale dell’art. 8…”; di talché, avendo il legislatore configurato la mediazione come obbligatoria per chiunque intenda adire la giustizia in determinate materie, appare del tutto coerente e ragionevole la “…scelta di scaricare i relativi costi non sulla collettività generale, ma sull’utenza che effettivamente si avvarrà di detto servizio”.

Non possono essere condivise, sul punto, le due argomentazioni svolte dall’appellante, ossia, da un lato, che le spese di avvio, per la loro incidenza sul complessivo equilibrio economico-finanziario degli organismi di mediazione, si risolverebbero, in sostanza, in una prestazione patrimoniale imposta in violazione della riserva (relativa) di legge di cui all’art. 23 Cost.; e, dall’altro, che il riconoscimento di un credito d’imposta a favore di chi si sia avvalso della mediazione  non varrebbe nell’ipotesi in cui non si sia andati oltre il primo incontro.

Sotto il primo profilo, il Consiglio di Stato osserva come non sia sostenibile “…una violazione della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. in presenza di una disposizione primaria, quale è l’art. 17 del d.lgs. nr. 28/2010, che, nel disciplinare i criteri e le modalità per il reperimento delle risorse atte a consentire il funzionamento degli organismi di mediazione, in via di eccezione esonera l’utenza che si avvalga dell’obbligatorio primo incontro, in caso di esito infruttuoso di esso, dalla sola corresponsione di somme a titolo di “compenso” (nel senso sopra precisato)”.

Per quanto concerne il credito d’imposta, deve rilevarsi, secondo il Giudice, come l’argomentazione dell’appellante muova dall’erroneo presupposto già in precedenza evidenziato, vale a dire l’asserita estraneità del primo incontro rispetto al procedimento di mediazione, che non trova, tra l’altro, alcun aggancio testuale nell’art. 20 D.lgs. 28/2010, che, nel disciplinare il credito d’imposta, non circoscrive affatto la detraibilità alle sole somme erogate in caso di effettivo accesso alla mediazione.

Infine, il terzo motivo di impugnazione.

Con il gravame in parola, l’Amministrazione censura il capo di sentenza con cui era stato annullato l’art. 4, co. 3, lettera b), DM 180/2010, relativo all’obbligo, anche per gli avvocati, di seguire i percorsi di formazione e aggiornamento previsti per gli organismi di mediazione.

Il Consiglio di Stato, nell’apparato motivazionale in commento, muove dalla premessa che “…non può sussistere dubbio sulla diversità “ontologica” dei corsi di formazione e aggiornamento gestiti per l’avvocatura dai relativi ordini professionali  (…) rispetto alla formazione specifica che la normativa primaria richiede per i mediatori, proprio in ragione dell’esigenza (…) di assicurare che il rischio di “incisione” sul diritto di iniziativa giudiziale costituzionalmente garantito sia bilanciato da un’adeguata garanzia di preparazione e professionalità in capo agli organismi chiamati a intervenire in tale delicato momento”.

E che si tratti di un’esigenza rivestita di una importanza centrale è attestato dalla specifica attenzione ad essa rivolta sul terreno comunitario, atteso che l’art. 4, par. 2, della direttiva 2008/52/CE, esplicitamente dispone che gli Stati membri sono tenuti ad incoraggiare “…la formazione iniziale e successiva dei mediatori allo scopo di garantire che la mediazione sia gestita in maniera efficace, imparziale e competente in relazione alle parti”. Dalla riportata disposizione comunitaria, pertanto, discende l’esclusione di “…ogni opzione normativa o ermeneutica che possa anche solo dare l’apparenza di un ridimensionamento delle esigenze così rappresentate”.

D’altronde, osserva la Sezione, non può condividersi l’opzione ermeneutica fatta propria nel primo grado di giudizio, secondo la quale il parametro dell’illegittimità della disposizione regolamentare in quella sede annullata sarebbe stato costituito dall’art. 16, co. 4 – bis, D.lgs 28/2010. In effetti, la disposizione di rango primario or ora richiamata, stabilito che gli avvocati sono mediatori di diritto, prosegue affermando espressamente che “…gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 55-bis del codice deontologico forense…”.

In conclusione, quindi, il Consiglio di Stato ha provveduto, con la decisione oggi in commento, al ripristino dell’obbligo inerente al completo iter di formazione, nei termini di cui al DM 180/2010, ed al conseguente percorso di aggiornamento.

Un intervento, dunque, che non può che essere salutato con piena soddisfazione da coloro che auspicano una sempre maggiore diffusione della mediazione, risultato certamente non perseguibile senza le indispensabili garanzie sul piano della effettiva preparazione specifica di tutti gli operatori del settore.

Dott. Luigi Majoli

Testo integrale:

N. 05230/2015REG.PROV.COLL.
N. 02156/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello nr. 2156 del 2015, proposto dal MINISTERO DELLA GIUSTIZIA e dal MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO, in persona dei rispettivi Ministri pro tempore, rappresentati e difesi ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliati presso la stessa in Roma, via dei Portoghesi, 12,
contro
l’UNIONE NAZIONALE DELLE CAMERE CIVILI (U.N.C.C.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Antonio de Notaristefani di Vastogirardi e Francesco Storace, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, via Crescenzio, 20,
e con l’intervento di
ad adiuvandum:
– avvocati Roberto NICODEMI, Maria AGNINO, Antonio D’AGOSTINO, Alessandra GULLO, Gemma SURACI, Monica MAZZENGA, Gabriella SANTINI, Laura NICOLAMARIA, Nicola PRIMERANO, Luigi RAPISARDA, Elisabetta ZENONI, Alessandra TOMBOLINI, Sabina MARONCELLI, Stefano AGAMENNONE, Silvia MONTANI, Elena ZAFFINO, Elisabetta Carla PICCIONI, Luciano CAPOGROSSI GUARNA, Giuliana SCROCCA, Maurizio FERRI, Matilde ABIGNENTE, Guido CARDELLI, Marco Fabio LEPPO, Alessandra ROMANINI, Claudio DRAGONE, Roberta D’UBALDO, Corrado DE MARTINI, Arnaldo Maria MANFREDI, Eugenio GAGLIANO, Fabio CAIAFFA e Daniela BERTES, rappresentati e difesi dall’avv. Gemma Suraci, con domicilio eletto presso la stessa in Roma, via degli Scipioni, 237;
– ASSOCIAZIONE PRIMAVERA FORENSE, in persona del legale rappresentante pro tempore,rappresentata e difesa dall’avv. Marco Benucci, con domicilio eletto presso lo stesso in Roma, corso d’Italia, 29;
per l’annullamento in parte qua,
previa sospensiva,
della sentenza del T.A.R. del Lazio nr. 1351/2015, notificata in data 5 marzo 2015.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’appellata Unione Nazionale delle Camere Civili (U.N.C.C.) e l’appello incidentale dalla stessa proposto, nonché gli atti di intervento in epigrafe meglio indicati;
Viste le memorie prodotte dall’appellata U.N.C.C. (in data 25 settembre 2015) e dagli intervenienti avv.ti Nicodemi e altri (in data 5 ottobre 2015) a sostegno delle rispettive difese;
Vista l’ordinanza di questa Sezione nr. 1694 del 22 aprile 2015, con la quale è stata accolta la domanda incidentale di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, all’udienza pubblica del giorno 27 ottobre 2015, il Consigliere Raffaele Greco;
Uditi l’avv. dello Stato Colelli per le Amministrazioni appellanti, gli avv.ti de Notaristefani di Vastogirardi e Storace per l’U.N.C.C., l’avv. Suraci per gli intervenienti in epigrafe meglio indicati e l’avv. Michele Basile (in dichiarata delega dell’avv. Benucci) per l’ulteriore interveniente Associazione Primavera Forense;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Il Ministero della Giustizia e il Ministero dell’Economia e delle Finanze hanno impugnato, chiedendone la riforma previa sospensiva, la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio, in parziale accoglimento del ricorso proposto dall’Unione Nazionale delle Camere Civili (U.N.C.C.), ha parzialmente annullato il decreto nr. 180 del 18 ottobre 2010, recante il regolamento per la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti ai suddetti organismi.
A sostegno dell’appello, è stata dedotta, con tre distinti mezzi, l’erroneità della sentenza in epigrafe:
1) nella parte in cui ha disatteso l’eccezione preliminare di carente legittimazione in capo all’originaria ricorrente;
2) nella parte in cui ha ritenuto illegittimi, e quindi annullato, i commi 2 e 9 dell’art. 16 del precitato decreto, relativi alle spese di avvio ed alle spese di mediazione;
3) nella parte in cui ha ritenuto illegittimo, e quindi annullato, l’art. 4, comma 1, lettera b), del medesimo decreto, relativo all’obbligo anche per gli avvocati di svolgere la formazione obbligatoria prevista per i mediatori.
Si è costituita l’appellata U.N.C.C., la quale, oltre a controdedurre a sostegno dell’infondatezza dell’appello e a chiederne la reiezione, ha altresì proposto appello incidentale, censurando la sentenzade qua nella parte in cui è stata respinta, fra le varie questioni di legittimità sollevate dalla ricorrente, quella relativa al contrasto degli artt. 5, comma 2, del citato d.m. con l’art. 24 Cost.
Nel corso del giudizio, si sono avuti, altresì, in adesione all’appello principale:
– l’intervento ad adiuvandum degli avvocati Roberto Nicodemi ed altri, nella qualità di mediatori iscritti all’albo;
– l’intervento ad adiuvandum, a valere quale opposizione di terzo ex art. 109, comma 2, cod. proc. amm., dell’Associazione Primavera Forense, a sua volta organismo di mediazione regolarmente iscritto.
Quest’ultima, oltre a concludere nel senso della fondatezza del gravame, assume in liminel’inammissibilità del ricorso di primo grado per mancata notifica, quale controinteressato, ad almeno un organismo di mediazione.
Alla camera di consiglio del 21 aprile 2015, questa Sezione ha accolto l’istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata formulata in via incidentale dalle Amministrazioni appellanti.
Di poi, parte appellata ha ulteriormente argomentato con memoria a sostegno delle proprie tesi.
All’udienza del 27 ottobre 2015, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Giunge all’attenzione della Sezione il contenzioso relativo alla regolamentazione attuativa dell’art. 16 del decreto legislativo 4 marzo 2010, nr. 28, il quale, sulla scorta della delega contenuta nell’art. 60 della legge 18 giugno 2009, nr. 69, ha introdotto nel nostro ordinamento la mediazione in materia civile e commerciale, come prescritto dalla direttiva 21 maggio 2008, nr. 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea.
In primo grado, l’Unione Nazionale delle Camere Civili (U.N.C.C.) ha impugnato il decreto del Ministro della Giustizia, adottato di concerto col Ministro dell’Economia e delle Finanze, nr. 180 del 18 ottobre 2010, lamentandone l’illegittimità sotto plurimi profili, anche sulla base della ritenuta illegittimità costituzionale di retrostanti disposizioni del citato d.lgs. nr. 28 del 2010.
Il T.A.R. del Lazio, investito della controversia, in parziale accoglimento delle deduzioni di parte attrice, ha sollevato (ord. 12 aprile 2011, nr. 3202) questione di legittimità costituzionale di alcune norme dell’impugnato decreto, concernenti fra l’altro l’obbligatorietà del previo esperimento della mediazione ai fini dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie.
Sulla questione la Corte costituzionale si è pronunciata con la sentenza nr. 272 del 6 dicembre 2012, con la quale ha annullato, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., l’art. 5, comma 1, del d.lgs. nr. 28 del 2010, nonché una serie di disposizioni a questo correlate, ritenendo viziata da eccesso di delega la previsione dell’obbligatorietà del ricorso alla mediazione ed alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale in relazione a varie tipologie di controversie.
A sèguito dell’intervento del giudice delle leggi, e dopo un primo tentativo di modifica della normativa regolamentare non andato a buon fine a causa della mancata conferma in sede di conversione del decreto-legge in cui era stata inserita, il legislatore è nuovamente intervenuto con l’art. 84, comma 1, lettera b), del decreto-legge 21 giugno 2013, nr. 69, convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, nr. 98, che ha reintrodotto, inserendo nell’art. 5 del d.lgs. nr. 28/2010 il nuovo comma 5-bis (nonché attraverso l’introduzione di ulteriori disposizioni complementari), sia l’obbligatorietà del previo ricorso alla mediazione che la sua configurazione come condizione di procedibilità dell’azione.
Con la sentenza che ha definito il primo grado del presente giudizio, il T.A.R. capitolino:
– ha, da un lato, respinto la maggior parte delle doglianze attoree, ritenendo manifestamente infondate le ulteriori questioni di legittimità costituzionale articolate avverso la nuova disciplina medio temporeintervenuta;
– ha, per altro verso, accolto il ricorso limitatamente ai commi 2 e 9 dell’art. 16 del d.m. nr. 28/2010 (reputando illegittima la perdurante previsione della debenza delle spese di avvio e delle spese di mediazione, a fronte del principio di gratuità della mediazione contenuto nella normativa primaria) ed al comma 3, lettera b), dell’art. 4 (reputando illegittima la mancata previsione dell’esclusione degli avvocati dalla formazione obbligatoria ivi prevista, a fronte del riconoscimento agli stessi della qualifica di mediatori di diritto).
2. La ricostruzione che precede, in parte ripetitiva di quella operata dal giudice di prime cure, non risulta contestata dalle parti costituite, per cui, vigendo la preclusione di cui all’art. 64, comma 2, cod. proc. amm., deve considerarsi idonea alla prova dei fatti oggetto di giudizio.
3. Tutto ciò premesso, l’appello dell’Amministrazione si appalesa in parte fondato e pertanto meritevole di accoglimento, mentre invece non è meritevole di favorevole delibazione l’appello incidentale dell’originaria ricorrente.
4. In ordine logico, è proprio l’appello incidentale a dover essere prioritariamente scrutinato, atteso:
a) che la sua ipotetica fondatezza comporterebbe la possibile incostituzionalità delle stesse norme primariea monte della censurata disciplina regolamentare;
b) che siffatta questione, ove ritenuta non manifestamente infondata, imporrebbe la rimessione alla Corte costituzionale anche d’ufficio (e, quindi, indipendentemente da ogni rilievo circa la legittimazione processuale dell’originaria ricorrente, come riproposto nel primo motivo d’appello dell’Amministrazione).
4.1. Con la propria impugnazione incidentale, l’U.N.C.C. reitera una sola delle questioni di legittimità costituzionale che il primo giudice ha ritenuto manifestamente infondate, e segnatamente quella relativa al comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. nr. 28/2010, il quale, in un contesto nuovamente connotato dall’obbligatorietà del previo ricorso alla mediazione e dalla sua strutturazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale in determinate materia (per effetto della “novella” introdotta dal d.l. nr. 69 del 2013), consente al giudice, anche in sede di appello, di imporre alle parti l’esperimento della procedura di mediazione.
4.2. Al riguardo, il primo giudice ha escluso che la nuova disciplina introdotta nel 2013, pur stabilendo nei termini visti l’obbligatorietà del previo esperimento della mediazione, comportasse una significativa incisione del diritto alla tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost., essendo essa circondata da cautele idonee a prevenire un serio pregiudizio di tale diritto: in tal senso andrebbero le previsioni dell’assistenza obbligatoria del difensore, della specializzazione dei mediatori e, soprattutto, della circoscrizione dell’obbligatorietà al solo “primo incontro” di cui al comma 1 dell’art. 8 del d.lgs. nr. 28/2010, all’esito del quale l’interessato può decidere di non proseguire nella procedura di mediazione.
4.3. In critica a tali argomenti, parte appellante incidentale rileva che le garanzie previste a favore del privato sarebbero solo apparenti, essendo per un verso limitata nel tempo la previsione dell’obbligatorietà dell’assistenza del difensore in sede di mediazione, e sotto altro profilo non idoneamente assicurata la specializzazione e l’esperienza di diritto dei mediatori (e ciò malgrado la contestuale previsione per cui gli stessi avvocati sono “mediatori di diritto”).
Soprattutto, l’appellante incidentale muove dal presupposto che la previsione di cui al ricordato comma 2 dell’art. 5 obblighi l’interessato, a sèguito dell’ordinanza del giudice che impone la mediazione quale condizione di procedibilità dell’azione, non già a limitarsi al primo incontro, ma ad esperire la vera e propria procedura di mediazione.
4.4. La Sezione non condivide tale ultimo avviso, che appare in frontale contrasto col dettato normativo.
Infatti, al di là di quanto appresso meglio si dirà in ordine all’essere il primo incontro parte integrante del procedimento di mediazione e non un qualcosa di estraneo ad esso, rileva il chiaro tenore testuale del comma 2-bis del medesimo art. 5, il quale, con previsione certamente applicabile anche alla fattispecie regolata dal precedente comma 2, dispone: “…Quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”.
Quanto ai più specifici rilievi svolti nell’appello incidentale, questi sono basati su una svalutazione della rilevanza e della centralità del momento formativo e dell’aggiornamento dei mediatori, il quale invece, come pure meglio appresso si rileverà, costituiscono parte essenziale del substrato comunitario dell’istituto de quo, di modo che non è possibile predicare l’illegittimità costituzionale delle previsioni in questione sulla base di una mera visione “pessimistica” del come in concreto detta formazione sarà attuata (come sembra fare parte appellante incidentale, allorché assume che i cittadini saranno lasciati in balìa di mediatori che non saranno necessariamente “esperti di diritto”).
4.5. In definitiva, la Sezione ritiene di dover condividere e confermare le conclusioni esposte nella sentenza impugnata in punto di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale qui riproposta: nel senso che, una volta superato il vizio di eccesso di delega che aveva indotto l’intervento cassatorio della Corte costituzionale con la richiamata sentenza nr. 272 del 2012, non è dato rinvenire manifesti e significativi profili di violazione dell’art. 24 Cost. ovvero di altri parametri di rango costituzionale.
5. Proseguendo nella disamina delle questioni preliminari, va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso di prime cure sollevata nell’atto di intervento ad adiuvandum dell’Associazione Primavera Forense, laddove si assume il difetto di corretta instaurazione del rapporto processuale a cagione della mancata evocazione in giudizio di almeno un organismo di mediazione, quale controinteressato nei cui confronti il provvedimento impugnato era produttivo di effetti.
Tale questione può certamente essere delibata nella presente sede, atteso che:
a) va intesa quale vero e proprio motivo di impugnazione, essendo articolata in un atto di intervento in appello scaturito da conversione di opposizione di terzo proposta dinanzi al giudice di primo grado, giusta il disposto dell’art. 109, comma 2, cod. proc. amm.;
b) afferisce alla rituale instaurazione del rapporto processuale, e pertanto può pacificamente essere formulata anche per la prima volta in grado di appello.
Tuttavia, l’eccezione è infondata, dovendo in questa sede ribadirsi il consolidato insegnamento giurisprudenziale per cui, in caso di impugnazione di norme regolamentari, non possono individuarsi soggetti aventi posizione formale di controinteressati, a nulla rilevando in tal senso la posizione dei destinatari delle disposizioni generali e astratte contenute nel regolamento impugnato (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21 giugno 2006, nr. 3717; id., sez. V, 17 maggio 2005, nr. 6420).
6. Ciò premesso, col primo motivo d’impugnazione l’Amministrazione reitera l’eccezione, disattesa dal primo giudice, di inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione, non potendo riconoscersi sufficiente rappresentatività all’Unione istante in primo grado.
Il mezzo è infondato, atteso che, come già rilevato in sede cautelare, va ascritta a mero errore l’indicazione nell’epigrafe del ricorso (e della sentenza di primo grado) del nominativo della ricorrente come “Unione Nazionale delle Camere Civili di Parma”, risultando documentate dallo statuto, da un lato, la rappresentatività nazionale dell’associazione, e, per altro verso, che l’originaria sede in Parma dipendeva unicamente dalla previsione che, nelle more dell’individuazione di una sede in Roma, fissava automaticamente la sede sociale presso lo studio professionale del Presidente pro tempore (il quale, al momento della proposizione del ricorso, era appunto un avvocato del foro di Parma).
7. Parzialmente fondati invece, come più sopra anticipato, sono il secondo e il terzo motivo dell’appello dell’Amministrazione, con i quali si censurano le due statuizioni di annullamento della disciplina regolamentare cui è pervenuto il primo giudice.
8. Principiando dal secondo mezzo, questo attiene alla parte della sentenza impugnata nella quale è stata ritenuta l’illegittimità dei commi 2 e 9 dell’art. 16 del d.m. nr. 180 del 2010, nei quali rispettivamente si prevedeva che: “…Per le spese di avvio, a valere sull’indennità complessiva, è dovuto da ciascuna parte per lo svolgimento del primo incontro un importo di euro 40,00 per le liti di valore fino a 250.000,00 euro e di euro 80,00 per quelle di valore superiore, oltre alle spese vive documentate che è versato dall’istante al momento del deposito della domanda di mediazione e dalla parte chiamata alla mediazione al momento della sua adesione al procedimento. L’importo è dovuto anche in caso di mancato accordo”, e che: “…Le spese di mediazione sono corrisposte prima dell’inizio del primo incontro di mediazione in misura non inferiore alla metà. Il regolamento di procedura dell’organismo può prevedere che le indennità debbano essere corrisposte per intero prima del rilascio del verbale di accordo di cui all’articolo 11 del decreto legislativo. In ogni caso, nelle ipotesi di cui all’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo, l’organismo e il mediatore non possono rifiutarsi di svolgere la mediazione”.
8.1. Tali previsioni, comportanti sempre e comunque l’erogazione di somme da parte dell’utente anche in caso di esito negativo del primo incontro, sono state ritenute dal primo giudice incompatibili con l’innovativa disposizione di cui al comma 5-ter dell’art. 17 del d.lgs. nr. 28/2010, secondo cui: “…Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”.
Siffatta incompatibilità viene in sentenza ricondotta a un difetto di coordinamento fra la “novella” di cui al d.l. nr. 69/2013 ed il preesistente impianto normativo, avendo la prima introdotto il principio della gratuità del ricorso alla mediazione, sia pure limitatamente alla fase del “primo incontro”.
8.2. A fronte di tali argomentazioni, la Sezione reputa fondate le opposte deduzioni della difesa erariale, nei limiti e per le ragioni già in parte anticipate in fase cautelare e che di sèguito si vanno ulteriormente a sviluppare.
8.2.1. Innanzi tutto, è opportuno rilevare l’infelicità della formula impiegata dalla novella del 2013 da ultimo citata, la quale per la prima volta fa uso del generico termine “compenso”, inserendosi in un tessuto normativo in cui il corrispettivo dovuto per i servizi di mediazione è qualificato più tecnicamente come “indennità”; quest’ultima terminologia, oltre che nelle norme primarie anteriori al ricordato intervento del 2013, si rinviene anche nell’art. 1 del censurato d.m. nr. 180/2010, laddove l’indennità di mediazione è definita come “l’importo posto a carico degli utenti per la fruizione del servizio di mediazione fornito dagli organismi” (comma 1, lettera h).
Tale indennità poi, a tenore del successivo e citato art. 16, si compone di varie voci, fra le quali rilievo primario hanno le già richiamate “spese di avvio” e “spese di mediazione”.
8.2.2. Tanto premesso, nessun dubbio può porsi per le spese di mediazione, le quali, comprendendo “anche l’onorario del mediatore per l’intero procedimento di mediazione” (art. 16, comma 10), integrano certamente il nucleo essenziale dell’indennità di mediazione: di queste, in applicazione del richiamato comma 5-ter dell’art. 17, non può che essere esclusa la debenza in caso di esito negativo del primo incontro.
Diverse considerazioni vanno svolte per le spese di avvio, indipendentemente dal se le si voglia considerare comprensive delle “spese vive documentate” ovvero a latere di esse (sul punto, il dettato del comma 9 sconta una certa ambiguità): ed invero, mentre non può seriamente essere negato il rimborso delle spese vive (sul che la stessa originaria ricorrente avendo chiarito di non avere alcunché da opporre), anche per le residue spese disciplinate dal medesimo comma 9 deve ritenersi la loro estraneità alla nozione di “compenso” – intesa quale corrispettivo di un servizio prestato – introdotta dal comma 5-ter dell’art. 17.
Ed invero, come efficacemente dimostrato dalla difesa erariale e dagli intervenienti ad adiuvandum, le spese di avvio, quantificate dal legislatore in modo fisso e forfettario (e, quindi, sganciato da ogni considerazione dell’entità del servizio effettivamente prestato dall’organismo di mediazione), vanno qualificate come onere economico imposto per l’accesso a un servizio che è obbligatorio ex lege per tutti coloro i quali intendano accedere alla giustizia in determinate materie; quanto sopra risulta confermato dal riconoscimento, a favore di chi tali spese abbia erogato, di un correlativo credito d’imposta commisurato alla somma versata e dovuto, ancorché in misura ridotta, anche nel caso in cui la fruizione del servizio si sia arrestata al primo incontro (art. 20, d.lgs. nr. 28/2010).
In altri termini, posto che il primo incontro non costituisce un passaggio esterno e preliminare della procedura di mediazione, ma ne è invece parte integrante alla stregua del chiaro tenore testuale dell’art. 8 del d.lgs. nr. 28/2010, e dal momento che tale fase il legislatore ha inteso configurare come obbligatoria per chiunque intenda adire la giustizia in determinate materie, indipendentemente dalla scelta successiva se avvalersi o meno della mediazione (al punto da qualificare l’esperimento del detto incontro come condizione di procedibilità dell’azione), ne discende la coerenza e ragionevolezza della scelta di scaricare i relativi costi non sulla collettività generale, ma sull’utenza che effettivamente si avvarrà di detto servizio.
8.3. A fronte dei rilievi fin qui svolti, che la Sezione ha in parte anticipato in fase cautelare, parte appellata nella propria memoria conclusiva rileva:
– che quanto evidenziato in ordine alla non riconducibilità delle spese di avvio alla nozione di “compenso”, di cui all’art. 17, comma 5-ter, del d.lgs. nr. 28/2010, sarebbe bensì vero in astratto, ma trascurerebbe di considerare la circostanza, dimostrata dall’esperienza pratica, che le spese de quibusfiniscono di fatto per coprire non solo i costi di esercizio degli organismi di mediazione (come era negli intenti del legislatore), ma anche e per buona parte i loro compensi, di modo che dovrebbe in ogni caso concludersi che esse, per come sono state quantificate e per la loro incidenza sul complessivo equilibrio economico-finanziario degli organismi di mediazione, finirebbero comunque per risolversi in una prestazione patrimoniale imposta in violazione della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost.;
– che, quanto alla previsione del riconoscimento di un credito d’imposta a favore di chi si sia avvalso della mediazione, questa andrebbe in realtà riferita alla sola ipotesi in cui dopo il primo incontro vi sia stato accesso alla mediazione, ma questa abbia poi avuto esito negativo, e non anche al caso in cui non si sia andati oltre il primo incontro.
8.3.1. Con riguardo al primo aspetto, la Sezione osserva anzi tutto che il tema della quantificazione dell’indennità di mediazione, e specificamente dell’incidenza delle spese di avvio sul complessivo equilibrio economico-finanziario degli organismi di mediazione, risulta estraneo al perimetro del presente giudizio, non essendo stato in prime cure il d.m. nr. 180/2010 impugnato nella parte relativa alla determinazione dei criteri di calcolo dell’indennità.
Al di là di tale assorbente rilievo, la descrizione degli effetti “perversi”, che si paventa possano scaturire da una determinata opzione normativa, non è evidentemente ex se sufficiente a farne inferire l’illegittimità; né può predicarsi una violazione della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. in presenza di una disposizione primaria, quale è l’art. 17 del d.lgs. nr. 28/2010, che, nel disciplinare i criteri e le modalità per il reperimento delle risorse atte a consentire il funzionamento degli organismi di mediazione, in via di eccezione esonera l’utenza che si avvalga dell’obbligatorio primo incontro, in caso di esito infruttuoso di esso, dalla sola corresponsione di somme a titolo di “compenso” (nel senso sopra precisato).
8.3.2. Quanto al secondo rilievo, esso muove da un presupposto – l’estraneità del “primo incontro” al procedimento di mediazione propriamente detto – che non solo non trova alcun aggancio testuale nell’art. 20 del d.lgs. nr. 28/2010 (il quale, nel disciplinare il credito d’imposta, non impiega affatto espressioni univoche nel senso di circoscrivere la detraibilità alle sole somme erogate in caso di effettivo accesso alla mediazione), ma – come detto – appare smentito da altre disposizioni del medesimo decreto, e in primo luogo dall’art. 8, alla cui stregua il primo incontro rientra indiscutibilmente nel “procedimento” di mediazione.
In ogni caso, è evidente alla stregua di quanto sopra esposto che la disciplina riveniente dall’art. 20 del d.lgs. nr. 28/2010 costituisce solo una conferma, ulteriore e ad abundantiam, delle conclusioni che devono essere raggiunte aliunde, nel senso della riconducibilità delle spese di avvio non già al concetto di “compenso” degli organismi di mediazione, ma piuttosto a un costo di esercizio che il legislatore nella propria discrezionalità ha inteso porre a carico dell’utenza che è obbligata per legge a far ricorso al relativo servizio.
9. Col proprio terzo motivo d’appello, l’Amministrazione censura il capo di sentenza con cui è stato annullato il comma 3, lettera b), dell’art. 4 del d.m. nr. 180/2010, nella parte in cui obbligava anche gli avvocati a seguire i percorsi di formazione e aggiornamento previsti per gli organismi di mediazione.
A tale conclusione il primo giudice è giunto sulla base del duplice rilievo che, a norma dell’art. 16, comma 4-bis, del d.lgs. nr. 28/2010, gli avvocati sono mediatori di diritto (potendo dunque iscriversi de plano al relativo registro), e che essi hanno dei propri peculiari percorsi di formazione e aggiornamento previsti dalla legge, nei quali può certamente rientrare anche la preparazione allo svolgimento dell’attività di mediatore.
La Sezione, pur senza condividere taluni degli argomenti sul punto impiegati dalla difesa erariale (e, in particolare, quello imperniato sulla pretesa diversità “culturale” che esisterebbe, in relazione alla possibilità di accesso del cittadino alla giustizia, fra l’atteggiamento tipico dell’avvocato e quello richiesto al mediatore), reputa fondate le critiche mosse in parte qua alla sentenza in epigrafe.
Ed invero, non può sussistere dubbio sulla diversità “ontologica” dei corsi di formazione e aggiornamento gestiti per l’avvocatura dai relativi ordini professionali – i quali possono bensì prevedere anche una preparazione all’attività di mediazione, ma solo come momento eventuale e aggiuntivo rispetto ad una più ampia e variegata pluralità di momenti e percorsi di aggiornamento – rispetto alla formazione specifica che la normativa primaria richiede per i mediatori, proprio in ragione dell’esigenza (non casualmente qui agitata proprio dall’odierna appellata ed appellante incidentale) di assicurare che il rischio di “incisione” sul diritto di iniziativa giudiziale costituzionalmente garantito sia bilanciato da un’adeguata garanzia di preparazione e professionalità in capo agli organismi chiamati a intervenire in tale delicato momento.
Inoltre, che questo costituisca un tema centrale e “sensibile” del sistema si ricava anche dalla retrostante normativa europea in subiecta materia (e, in particolare, dall’art. 4, par. 2, della direttiva 2008/52/CE, secondo cui: “…Gli Stati membri incoraggiano la formazione iniziale e successiva dei mediatori allo scopo di garantire che la mediazione sia gestita in maniera efficace, imparziale e competente in relazione alle parti”), alla cui stregua va esclusa ogni opzione normativa o ermeneutica che possa anche solo dare l’apparenza di un ridimensionamento delle esigenze così rappresentate.
A fronte di ciò, non è dato ricavare argomenti decisivi in contrario dal disposto del comma 4-bis dell’art. 16 del d.lgs. nr. 28/2010 (richiamato dal primo giudice quale parametro della ritenuta illegittimità in parte quadella disciplina regolamentare), atteso che tale disposizione, proprio subito dopo aver stabilito che: “…Gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori”, espressamente aggiunge: “…Gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 55-bis del codice deontologico forense (…)”.
10. In conclusione, e riepilogando, s’impone il parziale accoglimento dell’appello dell’Amministrazione, con la conseguente riforma della sentenza impugnata e le reiezione del ricorso di primo grado quanto all’art. 16, comma 9, ed all’art. 4, comma 3, lettera b), del d.m. nr. 180/2010 (fermo restando, per il resto, quanto statuito dal primo giudice).
11. In considerazione della complessità e novità delle questioni esaminate, nonché della parziale soccombenza reciproca, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto:
– accoglie l’appello principale, nei limiti di cui in motivazione;
– respinge l’appello incidentale;
– per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado quanto ai vizi dedotti avverso l’art. 16, comma 9, e l’art. 4, comma 1, lettera b) del d.m. 18 ottobre 2010, nr. 180, confermando per il resto la sentenza medesima.
Compensa tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 ottobre 2015 con l’intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Raffaele Greco, Consigliere, Estensore
Raffaele Potenza, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere
Alessandro Maggio, Consigliere

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 17/11/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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