15 Novembre
Luigi Majoli
Divisione
La divisione rappresenta, fin dall’originaria versione del D.lgs 28/2010, una delle materie in cui la mediazione si pone quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, tanto con riferimento ai casi di scioglimento di una comunione ordinaria (art. 713 e ss. c.c.) quanto in relazione alle ipotesi di comunione ereditaria (art. 1111 e ss. c.c.).
Il giudizio di divisione, disciplinato dagli artt. 784 e ss. c.p.c. nell’ambito dei procedimenti di volontaria giurisdizione, è finalizzato da un lato all’accertamento del diritto potestativo a chiedere la divisione e, dall’altro, alla determinazione delle modalità di attuazione della divisione medesima.
Il procedimento in parola, pur mantenendo natura unitaria, può essere distinto in tre fasi, vale a dire la fase concernente la formazione dell’asse patrimoniale, quella relativa alla formazione delle quote e, infine, la fase conclusiva, ossia quella consistente nell’attribuzione delle stesse agli aventi diritto.
Le domande di scioglimento di qualsivoglia comunione devono necessariamente essere proposte nei confronti di tutti gli eredi o condomini e, nel caso in cui vi siano, dei creditori opponenti. In tali ipotesi si instaura un giudizio inscindibile in quanto sussiste la necessaria partecipazione ad esso di tutti i condividenti. Di conseguenza, il difetto di instaurazione del contraddittorio può essere rilevato in qualunque stato e grado del processo, anche d’ufficio. L’eventuale mancata integrazione del contraddittorio nel termine perentorio assegnato dal giudice produce l’estinzione immediata del processo ai sensi del combinato disposto degli artt. 102 e 307 c.p.c.
Di qui la necessità, sotto il profilo soggettivo, di estendere la necessaria mediazione ante causam a tutte le parti che dovranno essere coinvolte, in caso di esito negativo, nell’eventuale successiva fase di divisione giudiziale.
Eguale corrispondenza, naturalmente, è richiesta sotto il profilo oggettivo: qualora infatti la domanda di mediazione sia stata caratterizzata dal fatto di avere ad oggetto un compendio diverso da quello costituente il petitum della domanda di divisione giudiziale, la condizione di procedibilità della domanda non potrà considerarsi avverata ed il giudice, sospeso il giudizio, fisserà un termine per il deposito di una nuova domanda di mediazione presso un organismo territorialmente competente
Trattandosi, come in precedenza accennato, di un procedimento di volontaria giurisdizione, lo stesso, ove non vengano sollevate contestazioni, si conclude con ordinanza non impugnabile. Laddove invece insorgano questioni controverse, tanto concernenti in diritto alla divisione, quanto relative ai criteri e alle modalità di attuazione della stessa, il giudizio di divisione si trasforma in un normale processo ordinario di cognizione a carattere contenzioso.
In ogni caso, all’esito del procedimento in esame verranno a determinarsi due effetti: la cessazione dello stato di comunione e, correlativamente, l’attribuzione a ciascun compartecipante del diritto di proprietà esclusiva sulla propria quota.
Analizziamo ora più da vicino le diverse tipologie di controversie che possono insorgere in materia di divisione.
Si tratta di conflitti la cui origine può essere rintracciata nelle più disparate situazioni che possono contraddistinguere la vita di un soggetto, come, ad esempio, l’acquisto di un bene da parte di due o più persone dal quale insorge una situazione di comproprietà, ovvero il matrimonio, dal quale può derivare un regime di comunione legale dei beni o, ancora, la successione ereditaria, allorché, a seguito della stessa, una pluralità di eredi subentri nella titolarità dei diritti del de cuius.
Le questioni oggetto di mediazione (e, in caso di esito negativo, del successivo giudizio), possono dunque vertere, ad esempio, sulla soluzione da adottare qualora non sussista accordo sulle modalità di divisione o di liquidazione, ovvero sui rapporti tra comunione legale e diritti successori o sui diritti spettanti al coniuge separato o divorziato, o ancora, con riferimento alla comunione ereditaria, ad eventuali lesioni della quota di legittima etc.
I soggetti coinvolti sono dunque i comproprietari (comunisti), da considerarsi quali centri d’interesse autonomi, dal momento che ciascuno può vantare diritti ed interessi confliggenti con quelli vantati dagli altri. Di qui, come sopra già rilevato, la situazione di litisconsorzio necessario e la conseguente necessità, ai fini del corretto perfezionarsi della condizione di procedibilità della domanda, di coinvolgere tutti i comunisti.
Va peraltro osservato come, tuttavia, possano verificarsi anche situazioni di divisione riguardanti solo alcuni soggetti comproprietari: ad esempio, nell’ipotesi in cui solo alcune parti vogliano procedere alla divisione rispetto ad altri comproprietari il cui diritto trae origine da contratti o titoli diversi (come nell’ipotesi di una comproprietà in cui una quota cada in successione e venga, in conseguenza di ciò, attribuita a due eredi), laddove, in caso di divisione giudiziale, potrà essere assegnata la quota indivisa di un bene, senza che sia necessario chiamare in giudizio il terzo comproprietario. (Cfr. Corte di Cassazione, sez. II civ., ordinanza n. 27377/2021, in cui si afferma che “La divisione giudiziale di una comunione ereditaria, così come la divisione negoziale, può riguardare beni provenienti da titoli diversi, costituenti essi stessi distinte comunioni da considerare come entità patrimoniali a sé stanti, con la conseguenza che ben può essere assegnata ad uno dei condividenti la quota indivisa di un bene in comunione. Ne consegue che non è necessaria la partecipazione del terzo in giudizio qualora non sia stato chiesto lo scioglimento della diversa comunione relativa a quel singolo bene”. Con la conseguenza che soltanto laddove si richieda anche lo scioglimento della diversa comunione gravante sul medesimo bene, dovrà integrarsi il contraddittorio con il terzo comproprietario, sia nella fase di mediazione che nella successiva eventuale fase divisionale.
Ciò premesso, occorre sottolineare come realmente la mediazione possa rappresentare la modalità più utile e vantaggiosa, soprattutto sotto il profilo economico, come si vedrà tra breve, per addivenire allo scioglimento di una comunione di beni.
Innanzitutto, ad avviso di chi scrive, va considerato un aspetto preliminare: trattandosi di controversie relative ad una comunione riguardante tanto beni mobili che beni immobili le cui parti sono spesso in rapporti di parentela, o comunque hanno avuto in passato relazioni caratterizzati da una forte componente afferente il piano dell’affettività, con conseguente complessità, anche e – spesso – soprattutto sotto il profilo psicologico, la mediazione, con l’informalità che la caratterizza e con il contributo del terzo neutrale, potrà effettivamente rappresentare quella sede atta a consentire l’emersione degli interessi più reconditi delle parti. Si tratta di mediazioni nelle quali, fermo il valore venale dei beni ed il conseguente interesse economico, molto spesso acquisisce una valenza preponderante il valore affettivo dei beni medesimi, derivante dal rapporto esistenziale intercorso o intercorrente tra gli stessi e le parti.
D’altra parte, il fine della mediazione in materia di divisione è lo scioglimento della comunione e l’attribuzione a ciascun soggetto della propria quota di diritti, il che non significa necessariamente che venuto meno il legame giuridicamente rilevante non persistano rapporti parentali e affettivi.
Si consideri inoltre che per il tramite della mediazione è possibile pervenire ai medesimi risultati attingibili con il giudizio, ma beneficiando di alcuni fondamentali vantaggi: tempi ristretti e costi limitati, partecipazione effettiva sotto il profilo personale e quindi anche emozionale, possibilità di risoluzione, nell’ambito del singolo procedimento, di questioni controverse non facenti tecnicamente parte della comunione ma ad essa strettamente collegate, possibilità, in sintesi, di addivenire ad una soluzione condivisa elaborata dalle parti stesse (e, naturalmente, dai propri consulenti tecnici di fiducia).
Il tutto, naturalmente, rammentando che l’accordo ha efficacia di titolo esecutivo, allo stesso modo della sentenza, e potrà essere trascritto nei pubblici registri mobiliari o immobiliari, con il considerevole – e spesso determinante – vantaggio economico derivante dal regime fiscale di cui all’art. 17, D.lgs 28/2010, che prevede l’esenzione dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura ivi comprese le imposte ipotecarie e catastali e, soprattutto, l’esenzione dall’imposta di registro entro il limite di valore di 100.000 euro, altrimenti l’imposta è dovuta per la parte eccedente.
Sulla base di quanto precede appare evidente come possa risultare conveniente l’utilizzo del procedimento di mediazione al fine di evitare l’insorgere di un conflitto, quindi in assenza di contenzioso sulla divisione, mediante l’avvio congiunto della procedura.
A conclusione delle presenti brevi note una ulteriore notazione.
Laddove le parti raggiungano un accordo conciliativo in mediazione sulla suddivisione di diritti reali su beni immobili o quote di essi, esso può essere direttamente trascritto, previa autentica notarile.
Prevede infatti l’art. 11, co.7, D.lgs 28/2010, che “Se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione dell’accordo di conciliazione deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”.
Ora, l’art. 2643 c.c. non contempla le divisioni che sono invece disciplinate dal successivo art. 2646 c.c. (“Si devono trascrivere le divisioni che hanno per oggetto beni immobili, come pure i provvedimenti di aggiudicazione degli immobili divisi mediante incanto, i provvedimenti di attribuzione delle quote tra condividenti e i verbali di estrazione a sorte delle quote. Si devono pure trascrivere la domanda di divisione giudiziale e l’atto di opposizione indicato dall’articolo 1113, per gli effetti ivi enunciati”).
Di qui l’aporia. L’art. 11, D.lgs 28/2010, senza dubbio si riferisce esclusivamente ai contenuti di cui all’art. 2643 c.c., ma appare evidente che se l’interpretazione fosse meramente letterale si dovrebbe escludere la trascrivibilità di accordi conclusi all’esito di un procedimento, quello di mediazione, svoltosi nell’ambito di una delle materie per le quali lo stesso è concepito dal legislatore in termini di condizione di procedibilità della domanda giudiziale, con conseguente ed intollerabile contraddizione. Si tratta di una evidente lacuna normativa, non avendo senso alcuno l’imposizione alle parti della mediazione nella materia delle divisioni al tempo stesso escludendo che l’eventuale accordo possa essere trascritto.
La giurisprudenza ha da tempo risolto positivamente la questione, a partire da Tribunale di Roma, ord. 17 novembre 2015, che ha ritenuto trascrivibili tutti gli accordi contenenti atti o negozi per cui il codice civile prevede la trascrivibilità, sulla base della considerazione che “…l’interpretazione sistematica e teleologica della legge in materia di mediazione civile ha lo scopo di favorire la conciliazione prima del giudizio della controversia insorta, scopo la cui realizzazione presuppone il riconoscimento della piena validità ed efficacia dell’accordo concluso tra le parti, con la sola particolarità che ai fini della sua trascrizione è espressamente richiesta l’autenticazione delle sottoscrizioni da parte di un Notaio ai fini della verifica della conformità del contenuto dell’atto alle prescrizioni di legge”.
Post correlati