AVVIA UNA MEDIAZIONE: PER AVVIARE UN PROCEDIMENTO OCCORRE PRESENTARE UNA SPECIFICA ISTANZA.

AVVIA UNA MEDIAZIONE

18 Novembre

Luigi Majoli

Materie di mediazione obbligatoria

Mediazione e diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità

Ai sensi dell’art. 5, co. 1, D.lgs 28/2010, chi intenda esercitare in giudizio un’azione in materia di risarcimento del danno derivante da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione.

Si tratta, pertanto, di una delle materie in cui la mediazione si pone quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

In particolare, deve innanzitutto sottolinearsi come la fattispecie in oggetto (diffamazione a mezzo stampa o altro mezzo di pubblicità, vale a dire televisione, radio, siti internet, socialnetwork, cartellonistica pubblicitaria, etc.) rappresenti, all’interno dell’ambito previsionale dell’art. 5, D.lgs 28/2010, l’unica materia avente rilevanza penale. Tuttavia, non dovrà esperirsi il previo tentativo di mediazione allorché l’azione civile sia esercitata nel processo penale, giusta la previsione di cui all’art. 5, co. 6, lett. g), D.lgs 28/2010.

Il reato di diffamazione è disciplinato dall’art. 595 c.p., secondo cui “1. Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. 2. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro. 3. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro. 4. Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.

Due gli aspetti fondamentali da sottolineare: in primo luogo, la ratio della disposizione, che mira evidentemente alla tutela della reputazione del soggetto offeso.

Ai fini della configurabilità del reato in parola occorre innanzitutto l’offesa, in termini diffamatori, da parte del soggetto agente nei confronti del soggetto destinatario; inoltre, occorre l’assenza del diffamato, vale a dire l’impossibilità per lo stesso di percepire direttamente l’offesa, al momento del verificarsi del comportamento tale da determinarla: e proprio in ciò risiede la differenza con il concetto di ingiuria, ossia la condotta consistente nell’offesa rivolta alla persona presente o comunque in grado di percepire immediatamente l’intento offensivo (l’ingiuria costituisce oggi illecito civile, a seguito dell’abrogazione dell’art 594 c.p. ad opera del D.lgs. 7/2016, pertanto il soggetto colpito dalla condotta ingiuriosa potrà agire in sede civile ai fini del risarcimento del danno; infine, la condotta diffamatoria, ai sensi dell’art. 595, co.1, c.p., deve avvenire comunicando con più persone (quindi almeno due persone) in grado di percepirla.

In secondo luogo, deve osservarsi come, ai sensi dell’art. 595, co. 3, c.p., il legislatore abbia inteso attribuire all’ipotesi di diffamazione a mezzo stampa una maggiore gravità. Ciò, evidentemente, in conseguenza della rafforzata capacità diffusiva del mezzo di comunicazione, dal momento che, da un lato, si tratta di strumento idoneo a raggiungere una pluralità indistinta di destinatari e, dall’altro, in grado di aumentare, quantomeno potenzialmente, la credibilità delle affermazioni diffamatorie stante la notorietà e l’autorevolezza della fonte. Con conseguente incremento della gravità del danno arrecato al soggetto diffamato.

Costituisce peraltro ulteriore aggravamento, di origine non codicistica ma previsto dalla L. 47/1948 (c.d. legge sulla stampa), l’attribuzione di un fatto determinato alla persona diffamata, proprio perché il carattere della specificità dell’attribuzione stessa risulta idoneo ad incrementarne la credibilità.

Orbene, con riferimento al caso di diffamazione a mezzo stampa, la responsabilità penale si estende anche, ex art. 596 – bis c.p., “al direttore o vice-direttore responsabile, all’editore e allo stampatore, per i reati preveduti negli articoli 57, 57-bis e 58”.

In particolare, giova rammentare, con riferimento alla stampa periodica, come ai sensi dell’art. 57 c.p., sia punibile il direttore o il vicedirettore responsabile, fuori dai casi di concorso con l’autore del reato, a titolo di colpa per omesso controllo del contenuto del periodico “…se col mezzo della pubblicazione viene commesso un reato”; mentre, con riguardo alla stampa non periodica, identica conseguenza è applicabile “…all’editore, se l’autore della pubblicazione è ignoto o non imputabile, ovvero allo stampatore, se l’editore non è indicato o non è imputabile” (art. 57 – bis c.p.).

Infine, aspetto quest’ultimo di particolare interesse nella presente sede, va sottolineato il fatto che l’art. 11, L. 47/1948 prevede che, ai soli fini della responsabilità civile, anche il proprietario della pubblicazione e l’editore siano responsabili in solido tra loro e con gli autori del reato, con riferimento ai reati commessi a mezzo stampa.

Ora, l’ambito previsionale dell’art. 595 c.p. (e – di conseguenza – dell’art. 5, co. 1, D.lgs 28/2010) contempla l’offesa arrecata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità.

Come ben noto, infatti, nel tempo ben altri media si sono aggiunti alla stampa stricto sensu considerata quali mezzi di diffamazione. Si pensi, ovviamente, alla radio ed alla televisione ma, soprattutto, con riferimento ai nostri giorni, al web (quotidiani e riviste online, siti di informazione e di gossip) e soprattutto ai social network: i dati hanno dimostrato e costantemente dimostrano come internet e le possibilità da esso fornite finiscano con il rendere più frequente il reato di diffamazione, nonché più potenzialmente nocivo, stante l’aumentata diffusività dell’offesa.

L’utilizzo del web e dei suoi canali rientra pertanto a tutti gli effetti nell’ipotesi aggravata di reato di diffamazione che si concretizza con un “altro mezzo di pubblicità” e, di conseguenza, anche in questi casi l’azione risarcitoria deve essere preceduta dalla procedura di mediazione.

Per quanto concerne il diritto al risarcimento del danno che un soggetto subisce a causa ed in conseguenza di un reato, nel caso in oggetto quello di diffamazione, lo stesso deriva dalla previsione generale di cui all’art. 185 c.p., ai sensi del quale “Ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili. Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui.”

Occorre, a tale proposito, distinguere tra danni di natura patrimoniale e non patrimoniale.

Per quanto concerne i primi, va rilevato come nella pratica risultino senza alcun dubbio più difficilmente dimostrabili, occorrendo – ai sensi dell’art. 1223 c.c. – la prova del danno emergente e del lucro cessante.

Con riferimento invece alle voci di danno non patrimoniale, occorre rifarsi al concetto di danno morale, parametrato alla sofferenza interiore, al disagio e a tutte quelle forme di condizionamento personale e sociale, anche di carattere transitorio, la cui dimostrazione ben potrà consistere nella prova del fatto che lo ha prodotto e nella idoneità dello stesso ad indurre effetti oggettivamente pregiudizievoli in capo al soggetto che lo ha subito.

Ora, come già affermato in apertura, stante l’elevata conflittualità che caratterizza la materia del risarcimento del danno derivante da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, il legislatore ha inserito la stessa – fin dal testo originario del D.lgs 28/2010 – nel novero di quelle relativamente alle quali la mediazione si pone quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Il che, invero, non deve sorprendere: una procedura che, a differenza della causa, sia tale da prevedere la necessaria partecipazione e collaborazione delle parti nella ricerca di una soluzione in grado di soddisfare le istanze dei soggetti coinvolti, sembra essere la più idonea a ripristinare una qualche modalità comunicativa tra diffamatore e diffamato (si pensi, ad es. al caso, tutt’altro che infrequente, in cui il soggetto originariamente diffamato finisca con il diventare a sua volta diffamatore per ragioni puramente istintive ed emotive, vale a dire per reazione al disagio causato dall’offesa pubblica arrecata alla propria reputazione).

Il tavolo della mediazione, dunque, appare il più idoneo, stante la presenza di un soggetto per definizione terzo e imparziale, ad indicare alle parti un possibile punto di caduta, che rappresenti il giusto mezzo tra posizioni ed interessi divergenti.

In sede di mediazione, alle parti certamente sarà concessa la possibilità di vagliare adeguatamente aspetti che in controversie di siffatta tipologia spesso assumono una importanza fondamentale, quali ad esempio l’opportunità della pubblicazione di una sentenza a conclusione del giudizio, per non parlare dei tempi e dei costi preventivabili per l’ottenimento della stessa, nonché dell’alea, facilment preventivabile, in ordine al riconoscimento, in sede giudiziale, di una effettiva responsabilità in capo al presunto diffamante e, quindi, della conseguente condanna dello stesso al risarcimento dal danno come richiesto dall’attore.

Luigi Majoli

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