18 Novembre
Luigi Majoli
Materie di mediazione obbligatoria
Il concetto di responsabilità medica e sanitaria riguarda la responsabilità degli operatori nel campo della salute (medici, infermieri, etc.) con riferimento agli errori ed alle negligenze poste in essere dagli stessi nello svolgimento delle rispettive attività professionali o, più in generale, al complesso di situazioni in cui il professionista provoca dei danni o lesioni al paziente a causa del mancato rispetto delle regole della scienza medica (c.d. malasanità).
Si tratta di una responsabilità che può essere addirittura di natura penale, nell’ipotesi di commissione di un reato da parte del professionista sanitario (si pensi, ad esempio, all’omicidio colposo ovvero alle lesioni personali colpose)
La responsabilità medica e sanitaria civile, cui precipuamente si rivolgono le presenti brevi note, è invece relativa al diritto riconosciuto al paziente di richiedere il risarcimento dei danni subiti a causa dell’errore nel trattamento sanitario o della mancata adozione di tutti gli accorgimenti necessari al fine di garantire la più idonea assistenza al paziente stesso.
In effetti, la responsabilità medica e sanitaria va collocata all’interno del più ampio ambito della responsabilità professionale di cui all’art. 2236 c.c., secondo cui “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”, con esclusione, pertanto, di responsabilità per “colpa lieve” del prestatore d’opera intellettuale.
Come è noto, l’art. 1176, co. 2, c.c., prevede che “Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata” (c.d. diligenza qualificata), non risultando sufficiente la normale diligenza del buon padre di famiglia di cui al co. 1 della medesima disposizione. Si tratta, dunque, di una forma di diligenza cui deve necessariamente correlarsi la nozione di perizia, vale a dire la conoscenza e la corretta applicazione del complesso di regole tecniche proprie della singola categoria professionale di volta in volta considerata, con conseguente configurarsi di responsabilità ogni qualvolta risulti acclarata l’inosservanza e/o la violazione delle predette regole di condotta.
Ciò premesso, con specifico riguardo all’attività medica, va innanzitutto distinta la responsabilità gravante sulla struttura sanitaria da quella incombente sul singolo operatore cui sia attribuibile in concreto la condotta colposa cagione di danno in capo al paziente.
Con riferimento alla responsabilità della struttura sanitaria, tradizionalmente tanto la dottrina quanto la giurisprudenza la riconducono all’ambito della responsabilità contrattuale, dal momento che l’accettazione del paziente in ospedale (indagini strumentali, visita ambulatoriale, ricovero etc.) implica la conclusione di un contratto (atipico) di spedalità, in forza delle obbligazioni nascenti dal quale la struttura sarà chiamata a rispondere in via diretta per quanto concerne le inefficienze sotto il profilo organizzativa (si pensi ad es. al difettoso funzionamento di un apparecchio), vale a dire per gli obblighi accessori correlati alla prestazione sanitaria vera e propria, ed in via indiretta, per quanto riguarda il profilo medico stricto sensu inteso, vale a dire per il fatto commesso dagli ausiliari, ai sensi dell’art. 1228 c.c. (“…il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro)”.
Per quanto concerne la responsabilità del sanitario, ove la stessa insorga in forza di un contratto d’opera professionale direttamente stipulato con il paziente non potrà sussistere alcun dubbio in ordine alla sua natura contrattuale; laddove invece gli obblighi del sanitario conseguano al rapporto di lavoro intercorrente tra il medesimo e la struttura, appare con evidenza la differenza tra profilo formale del contratto (concluso tra struttura e paziente) e profilo sostanziale, con responsabilità del soggetto che in concreto è chiamato ad eseguire la prestazione.
La Corte di Cassazione (sent. n. 589/1999) ha ricompreso la responsabilità del medico nell’ambito dell’attività prestata presso la struttura sanitaria nell’alveo della responsabilità contrattuale, tanto nel caso di sussistenza di un pregresso contratto tra medico e paziente quanto nel caso di carenza dello stesso. Si è elaborato, dunque, il profilo della responsabilità da contatto sociale qualificato, derivante cioè dal fatto che dal momento dell’accettazione del paziente presso la struttura e dalla presa in carico da parte del sanitario, nasce in capo a quest’ultimo il dovere di eseguire la prestazione con diligenza e correttezza e – parallelamente – in capo al paziente un legittimo affidamento nell’operato del professionista. In estrema sintesi: dal momento che sull’operatore gravano gli obblighi derivanti dalle regole tecniche proprie dell’attività che svolge, la violazione o la non corretta applicazione delle stesse determina un non facere, che come tale va ad integrare responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c.
Con conseguenze rilevantissime sotto il profilo dell’onere della prova, che risulterà semplificato, dovendo il paziente che asserisca di aver subito un danno semplicemente allegare – nel rispetto del termine di prescrizione decennale – l’inadempimento del medico; sotto il profilo della prova liberatoria, vigeva, fino al 2001, un regime probatorio differenziato in funzione del grado di complessità dell’attività medica. In termini schematici:
in caso di attività routinaria o comunque di non complessa esecuzione con esiti negativi, da parte del paziente si richiedeva unicamente di provare la semplicità di essa e ciò malgrado gli effetti negativi dalla medesima scaturiti (in sostanza: presunzione di negligente adempimento della prestazione), mentre stava alla difesa del sanitario dimostrare che l’esito negativo fosse da attribuirsi a causa imprevista o imprevedibile o comunque al professionista non imputabile.
Nell’ipotesi invece di attività caratterizzata da particolare complessità, non potendo ovviamente operare la predetta presunzione, era sufficiente all’operatore dedurre tale circostanza, incombendo sul paziente l’onere di dimostrare che l’esito negativo fosse da attribuirsi al concreto operare del professionista.
Tale “scissione” relativa all’ambito probatorio e fondata, come detto, sulla “semplicità” ovvero “complessità” dell’attività di volta in volta considerata viene tuttavia meno con la sent. n. 13533/2001 delle SS. UU. della Corte di Cassazione, con la quale si statuisce la valenza della distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione particolarmente complessa ai soli fini della valutazione del grado di diligenza richiesto e del corrispondente grado di colpa, con la conseguenza che il paziente, agendo in sede giudiziale, dovrà semplicemente allegare il contratto e l’inadempimento, incombendo sul sanitario convenuto la prova liberatoria dell’esatto adempimento ovvero dell’inadempimento dovuto a causa allo stesso non imputabile.
Con la L. 24/2017 (c.d. legge “Gelli-Bianco) si è avuta una revisione complessiva delle tematiche relative alla responsabilità derivante dall’esercizio dell’attività medica e sanitaria.
In particolare, l’art. 7 della legge in parola ha provveduto da un lato a ricondurre espressamente la responsabilità della struttura ospedaliera nell’alveo della responsabilità contrattuale, in forza dell’avvenuta conclusione del contratto atipico di spedalità, mediante l’acquisizione del consenso, anche implicito (accettazione) del paziente, con la conseguenza che la struttura risponderà ex artt. 1218 e 1228 c.c.; dall’altro lato, la responsabilità dell’operatore sanitario viene ad essere configurata quale responsabilità extracontrattuale (con l’eccezione – beninteso – della sussistenza di un pregresso contratto d’opera professionale stipulato con il paziente). La condotta dell’operatore rappresenta in altri termini un fatto illecito fonte di danno ingiusto, risarcibile pertanto ex art. 2043 c.c., con conseguente onere della prova a carico del paziente, il quale sarà chiamato a dimostrare (nel termine di prescrizione quinquennale) tutti gli elementi costitutivi della fattispecie. Maggiori oneri probatori in capo al paziente, dunque, e conseguente minore probabilità di condanna per l’operatore sanitario.
Da rilevare, infine, come la L. 24/2017 abbia introdotto, all’interno del Codice penale, l’art. 590 – sexies (Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario), che tuttavia al co. 2 prevede che “Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.
Con riguardo al profilo dei danni risarcibili, occorrono necessariamente alcune precisazioni, dal momento che ben diverse possono essere le tipologie di conseguenze negative derivanti o comunque riconducibili all’errore medico o, più in generale, sanitario.
La distinzione fondamentale, naturalmente è quella tra danni patrimoniali e danni non patrimoniali.
I primi si riferiscono a tutte le ricadute negative di ordine economico subite dal paziente in conseguenza dei comportamenti erronei o negligente dell’operatore sanitario.
Si pensi alla perdita di reddito, intesa come mancato guadagno derivante dall’impossibilità di svolgere le proprie attività lavorative o, ad esempio, alla perdita di opportunità di lavoro a seguito delle conseguenze dell’errore o della negligenza.
O, semplicemente, alle spese mediche sostenute per le cure resesi necessarie a seguito dell’evento dal quale la responsabilità scaturisce.
Certamente si tratta delle tipologie di danno più immediatamente e più facilmente quantificabili sotto il profilo monetario.
I danni non patrimoniali, invece sono quelli riguardanti profili come la sofferenza, il dolore ed anche il disagio sotto il profilo morale e psicologico che – secondo modalità assai differenziate – possono derivare al paziente in conseguenza del comportamento erroneo o negligente.
Si tratta di danni immateriali, pertanto di difficile quantificazione sotto il profilo economico, tali, perciò, da implicare necessariamente valutazioni di ordine soggettivo da parte di periti ed esperti.
Innanzitutto, occorre considerare il danno biologico, vale a dire il danno cagionato alla salute fisica e psichica del paziente. Il riferimento è alle disabilità, permanenti o temporanee, o comunque alle lesioni che siano conseguenza dell’evento, nonché ai pregiudizi relativi alla stabilità psicologica del soggetto leso. Naturalmente, si tratta di danni che, sulla base di determinati parametri, come ad esempio l’età e la salute del paziente, dovranno calcolarsi sulla base della gravità delle conseguenze riportate e dell’impatto delle stesse sulla vita quotidiana e professionale.
Occorre poi valutare il danno morale, ossia quello derivante dal disagio, dalla sofferenza emotiva che discende dallo stress e dalla diminuita qualità della vita in conseguenza dell’errore o della negligenza dell’operatore sanitario. Esso va tenuto distinto dal danno esistenziale, che attiene alle conseguenze relative alla sfera personale, familiare o sociale del paziente (limitazioni nelle normali attività, necessità di assistenza e quindi perdita di autonomia, pregiudizio alla vita di relazione, deterioramento dei rapporti familiari e sociali, etc.).
Né possono sottovalutarsi i profili riguardanti il danno estetico ed il danno alla reputazione.
Il primo si riferisce non solo alle conseguenze sotto il profilo estetico in senso strette intese (come ad esempio la cicatrice invasiva derivante dall’utilizzo di tecniche non adeguate durante un intervento chirurgico) ma anche ai disagi che possano essere indotti – sul piano psicologico – dall’alterazione in senso negativo della propria persona.
Il danno alla reputazione è ravvisabile allorché l’errore o la negligenza dell’operatore sanitario vada ad incidere sull’immagine pubblica del paziente (si pensi all’intervento di chirurgia estetica non correttamente eseguito, soprattutto con riferimento ai c.d. “personaggi pubblici”), con conseguenti ricadute sotto il profilo professionale ed economico, ma anche psicologico.
Ora, esaurito il breve excursus che precede, occorre segnalare che, fin dalla originaria stesura del D.lgs 28/2010, le controversie in materia di responsabilità medica rientrano tra quelle di cui all’art. 5, co. 1, vale a dire quelle in relazione alle quali la mediazione si pone quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale. A seguito della riforma del 2013, il regime di “obbligatorietà” del tentativo di mediazione è stato esteso anche alla responsabilità sanitaria, quindi anche alle ipotesi in cui si intenda richiedere il risarcimento del danno cagionato da qualsivoglia soggetto operante all’interno della struttura sanitaria.
Si tratta di procedimenti aventi ad oggetto una molteplicità di circostanze dalle quali si fa derivare il prodursi del danno, come in via esemplificativa, interventi chirurgici errati ovvero eseguiti con modalità improprie, diagnosi errate o tardive, errori nella somministrazione di farmaci, ma anche – sotto un diverso profilo – negligenza in generale nell’assistenza sanitaria, utilizzo di macchinari o di strumenti non funzionanti in modo idoneo, mancanza di consenso informato.
In tutte queste ipotesi, il soggetto che intenda far valere il proprio diritto al risarcimento del danno asseritamente procuratogli deve necessariamente depositare una domanda di mediazione presso un organismo territorialmente competente (artt. 5, co. 1 e 4, co. 1, D.lgs 28/2010).
Stante la possibilità per le parti, coadiuvate da un terzo neutrale ed imparziale, di dialogare direttamente tra loro senza formalità, la mediazione rappresenta, anche con riferimento alla materia che qui ci occupa, un’opportunità che, se ben interpretata, potrà consentire di evitare il ricorso al giudizio trovando una soluzione in qualche modo soddisfacente per tutte le parti coinvolte, tra l’altro – aspetto non certo trascurabile – con sensibile riduzione di tempi e costi.
Si tratta molto spesso di controversie caratterizzate da un elevato tasso di conflittualità e di emotività, ed evidentemente il legislatore ha reputato la mediazione come lo strumento più idoneo a distogliere il piano della controversia dagli aspetti puramente tecnici, al fine di favorire il più possibile la comprensione reciproca tra i soggetti coinvolti nella fattispecie (ad esempio con il recupero del rapporto di fiducia tra paziente ed operatore sanitario).
Si tratta, inoltre, di procedimenti complessi anche sotto il profilo soggettivo, coinvolgendo spesso, oltre il paziente istante ed il professionista chiamato, soggetti ulteriori come la struttura sanitaria e le compagnie assicurative (nonché, nelle ipotesi più gravi implicanti la morte del paziente, i familiari dello stesso).
Si tratta infine di procedimenti in cui assai spesso potrà rilevarsi fondamentale l’espletamento di una consulenza tecnica in mediazione (CTM) ed a tale proposito giova ricordare innanzitutto che a norma dell’art. 8, co. 1, ultimo periodo, D.lgs 28/2010, “Nelle controversie che richiedono specifiche competenze tecniche, l’organismo può nominare uno o più mediatori ausiliari”. Dunque, ben potrà l’organismo, sulla base di una propria valutazione di opportunità, affiancare al mediatore “giuridico” un mediatore ausiliario che abbia le competenze tecniche richieste.
Il medesimo art. 8 appena citato prevede altresì, nel co. 7, che “Il mediatore può avvalersi di esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali”: le Parti, pertanto, nel corso del procedimento, potranno chiedere la nomina di un Consulente Tecnico terzo, in quanto nominato dall’organismo, e sulla base di quanto introdotto in sede di riforma della mediazione (D.lgs 149/2022) potranno altresì “… convenire la producibilità in giudizio della sua relazione, anche in deroga all’articolo 9”. In tal caso, la relazione sarà valutata dal giudice ai sensi dell’art. 116, co. 1, c.p.c.
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