Responsabilità ex art. 96, co. 3, c.p.c. e mancato esperimento del tentativo di conciliazione
Come è noto, il terzo comma dell’art. 96 c.p.c., introdotto dall’art. 45 della legge n. 69/2009, prevede che il giudice, in sede di pronuncia sulle spese di giudizio secondo i principi generali di cui all’art. 91 c.p.c., possa comunque condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento, in favore di controparte, di una somma quantificata in via equitativa.
Si tratta, evidentemente, di una norma concepita per introdurre nell’ordinamento una forma di “danno punitivo”, finalizzata a fungere da deterrente nei confronti di forme di abuso del processo, e come tale volta a preservare la funzionalità del sistema giustizia, ciò che esclude la necessità di un danno di controparte, pur se la condanna è prevista a favore di quest’ultima e non dello Stato. La pronuncia ex art. 96 comma 3 c.p.c. presuppone solo il requisito soggettivo della malafede o della colpa grave, elementi che concretizzano, per l’appunto, la temerarietà della lite. In sostanza, dunque, la riforma ha introdotto una vera e propria pena pecuniaria, indipendente tanto dalla istanza della parte interessata quanto dalla allegazione e dalla prova del danno che sia diretta conseguenza della condotta processuale altrui (in tal senso Corte Cassaz., sez. I civ., 30 luglio 2010, n. 17902).
Ora, pur non rappresentando le presenti note sede idonea per un’analisi del vivacissimo dibattito dottrinale che l’introduzione del nuovo comma ha immediatamente suscitato, in particolare circa la natura dell’istituto, va comunque rilevato come palesi appaiano i tratti differenziali della disposizione in parola rispetto al primo comma del medesimo art. 96, il quale dispone che “se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza”.
Infatti, va in primis rilevato come, ai sensi dell’art. 96, co. 3, la condanna possa essere pronunciata anche d’ufficio, anche in assenza, dunque, di istanza della parte vittoriosa, che invece rappresenta l’ineludibile presupposto di quanto previsto nel primo comma, dal momento che in quest’ultima disposizione il risarcimento del danno consegue non solo al fatto oggettivo della soccombenza, ma anche all’elemento soggettivo della mala fede (o colpa grave) del soccombente, risultando, quindi, la parte vittoriosa onerata della relativa prova.
Inoltre, l’ipotesi di condanna di cui al terzo comma dell’art. 96 si differenzia nettamente da quella di cui al primo in virtù del suo carattere prettamente “sanzionatorio”, dal momento che il suo ammontare non è direttamente collegato al danno subito dalla parte a favore della quale è pronunciata, ma è rimesso alla valutazione equitativa da parte del giudice (per cui il medesimo non potrà che avere riguardo a tutte le circostanze del caso concreto al fine di calibrare in modo adeguato la somma da attribuirsi alla parte vittoriosa).
Infine, e questo è il punto che in questa sede riveste indubbiamente l’importanza principale, nell’art. 96, co. 3, non risultano individuate in alcun modo le condotte sanzionabili. Non potendosi ritenere che il legislatore abbia inteso accordare al giudicante la facoltà di irrogare la sanzione in parola sulla base del mero fatto della soccombenza, senza cioè una plausibile e circostanziata giustificazione, si è ritenuto, da parte di non pochi interpreti, che la condanna possa essere pronunciata soltanto ove ricorrano i presupposti di cui al primo comma del medesimo art. 96 (vale a dire qualora il soccombente abbia agito o resistito spinto da mala fede o colpa grave). D’altra parte, ad una soluzione siffatta conduce il rilevo che, a suo tempo, il comma di nuovo conio sia stato inserito in una disposizione rubricata “Responsabilità aggravata”.
Sulla base delle sintetiche premesse che precedono, sembra opportuno interrogarsi – nella presente sede – sul fatto se, ed eventualmente fino a che punto, possa ravvisarsi l’elemento soggettivo della mala fede nella circostanza per cui una delle parti, anziché recepire l’invito dell’altra all’utilizzo di uno strumento come la mediazione, che avrebbe potuto consentire l’approdo ad una soluzione alternativa della controversia, abbia preferito adire il giudice ovvero costringere, con il proprio contegno passivo, l’altra a percorrere le ordinarie vie giudiziali.
Sul piano concettuale, non sembrano sussistere dubbi insuperabili.
In fondo un atteggiamento doloso o gravemente colposo in capo a chi abbia agito o resistito temerariamente può ravvisarsi in un comportamento o in valutazioni attinenti non soltanto alla fase prettamente processuale ma anche alle fasi che precedono il giudizio medesimo, tra le quali un particolare rilievo deve essere attribuito al tentativo di mediazione, specialmente (ma non solo) nelle ipotesi in cui quest’ultimo è di necessario esperimento ex lege.
Sotto il profilo attinente al piano testuale, però, l’utilizzo da parte del legislatore della locuzione “in ogni caso” sembrerebbe implicare che la condanna ai sensi del terzo comma art. 96 possa essere irrogata sia nelle ipotesi di cui ai primi due commi della medesima disposizione sia in ogni altro caso, vale a dire in tutti le circostanze in cui detta condanna appaia ragionevole.
Interpretazione estrema? Probabile. Ma – come tra breve si mostrerà – non manca in giurisprudenza chi abbia effettivamente opinato in tal senso.
La prima pronuncia rilevante in materia, Tribunale di S. Maria Capua Vetere, sent. 23 dicembre 2013, ha rilevato come, in sostanza, l’ambito concettuale entro il quale il legislatore ha mostrato ormai di muoversi è quello che tende ad individuare nel ricorso alle vie giudiziarie una sorta di extrema ratio per la risoluzione di una sempre più vasta gamma di controversie civili, con la conseguenza che la diserzione, senza giustificato motivo, del procedimento di mediazione può senz’altro configurarsi quale comportamento omissivo passibile di condanna ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c.
In altri termini, il giudice ha ritenuto ravvisabile l’elemento soggettivo della mala fede in capo ad una delle parti la quale “…anziché recepire l’invito della controparte che avrebbe potuto condurre ad una soluzione del problema, abbia preferito adire il Tribunale”.
Secondo la pronuncia in esame, infatti, detto comportamento andrebbe ad evidenziare un’ottica conflittuale antitetica alla nuova prospettiva alla quale sembra decisamente orientato il legislatore nell’attuale fase storica, come dimostrato peraltro, dalle reintroduzione dell’obbligatorietà del tentativo di mediazione a seguito del c.d. “decreto del fare” e relativa conversione.
Nel caso di specie, i ricorrenti avevano proposto ricorso per accertamento tecnico preventivo ai sensi dell’art. 696 c.p.c. al fine di accertare le cause di macchie ed infiltrazioni presenti nell’unità abitativa da essi condotta in locazione. La parte resistente, tuttavia, eccepiva la mancanza dei presupposti per disporre il medesimo accertamento propedeutico al giudizio, avendo essa stessa manifestato piena disponibilità ad accertare le cause delle asserite infiltrazioni al fine di eventualmente eliminarle, incontrando, però, un comportamento poco collaborativo ed ostruzionistico da parte dei ricorrenti.
Ritenuti condivisibili i rilievi della convenuta e rigettata perciò la domanda dei ricorrenti, il giudice condanna gli stessi ex art. 96, co. 3, c.p.c., in quanto “…si sarebbe potuto agevolmente risolvere il problema emerso nel corso del rapporto locatizio senza ricorrere all’autorità giudiziaria, semplicemente raccogliendo l’invito della resistente a far visionare l’immobile locato. Emblematica del comportamento posto in essere dai ricorrenti, contrario ai doveri di buona fede contrattuale, è la circostanza che il ricorso per accertamento tecnico preventivo è stato depositato il 23.10.2013, ovvero il giorno immediatamente successivo alla trasmissione del fax (del 22.10.2013) con il quale la resistente specificamente diffidava i ricorrenti, a mezzo del proprio legale, a prendere contatti al fine di poter risolvere il problema dell’accesso all’immobile, stante la persistente irreperibilità degli stessi. Infatti, anziché recepire l’invito della locatrice, che avrebbe potuto condurre ad una soluzione del problema, si è preferito adire il Tribunale, in un’ottica conflittuale decisamente lontana dalla nuova prospettiva nella quale, anche alla luce della recente reintroduzione con il c.d. decreto del fare della mediazione obbligatoria, appare muoversi il legislatore negli ultimi tempi, prospettiva che attribuisce al difensore un ruolo centrale, prima ancora che nel giudizio, nell’attività di mediazione delle controversie – al punto da prevedere, con le modifiche operate dal D.L. n. 69/2013 che gli avvocati siano di diritto mediatori e debbano assistere la parte nel procedimento di mediazione – prospettiva che tende sempre di più ad individuare nel ricorso al Tribunale l’extrema ratio per la soluzione della quasi totalità delle controversie civili”.
Successivamente, il Tribunale di Roma (Sez. XII civ., sent. 4140/2014) ha condannato ai sensi dell’art. 96 c.p.c. un’assicurazione in considerazione dei comportamenti da questa tenuti, tanto nella fase della mediazione quanto in quella del giudizio.
Osserva infatti il giudice che detta parte “da un lato, non si era presentata, e senza giustificarsi, nella fase mediatoria”; dall’altro, aveva resistito alla domanda attorea “…pur nella consapevolezza dell’infondatezza delle tesi sostenute e nel difetto della normale diligenza con cui era stata istruita la pratica assicurativa”.
Il medesimo Tribunale di Roma, sez. XIII civ., con la sentenza 29 maggio 2014 ha affermato che la parte (nel caso di specie ancora una compagnia di assicurazione) che non partecipa al procedimento di mediazione adducendo quale giustificazione la fondatezza delle proprie ragioni, ostacola il corretto esplicarsi degli strumenti conciliativi e può essere condanna al pagamento di una somma pari al contributo unificato dovuto per il giudizio e al doppio delle spese processuali per responsabilità aggravata ex art. 96, co. 3, c.p.c.
Secondo il Tribunale di Roma, la parte non può limitarsi ad opporre quale giustificato motivo della mancata partecipazione alla mediazione, l’asserzione aprioristica che la propria posizione sia fondata rispetto alle tesi della controparte, poiché ammettendo ciò sussisterebbe sempre e comunque in capo a chiunque un giustificato motivo per non comparire.
Poiché, invece, la mediazione nasce da un contrasto tra le parti che il mediatore tenta di dirimere riallacciando canali di dialogo, non può esserci alcuna presa di posizione preconcetta fondata su ragioni proprie occorrendo, invece, una partecipazione effettiva.
In ordine alla condanna ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c., l’apparato motivazionale della pronuncia in esame rileva come “…in primo luogo non è più necessario allegare e dimostrare l’esistenza di un danno che abbia tutti i connotati giuridici per essere ammesso a risarcimento essendo semplicemente previsto che il giudice condanna la parte soccombente al pagamento di un somma di denaro;
non si tratta di un risarcimento ma di un indennizzo (se si pensa alla parte a cui favore viene concesso) e di una punizione (per aver appesantito inutilmente il corso della giustizia, se si ha riguardo allo Stato), di cui viene gravata la parte che ha agito con imprudenza, colpa o dolo;
l’ammontare della somma è lasciata alla discrezionalità del giudice che ha come parametro di legge l’equità per il che non si potrà che avere riguardo, da parte del giudice, a tutte le circostanze del caso per tarare in modo adeguato la somma attribuita alla parte vittoriosa;
a differenza delle ipotesi classiche (primo e secondo comma) il giudice provvede ad applicare quella che si presenta né più né meno che come una sanzione d’ufficio a carico della parte soccombente e non (necessariamente) su richiesta di parte;
infine, la possibilità di attivazione della norma non è necessariamente correlata alla sussistenza delle fattispecie del primo e secondo comma. Come rivela in modo inequivoco la locuzione in ogni caso la condanna di cui al terzo comma può essere emessa sia nelle situazioni di cui ai primi due commi dell’art. 96 e sia in ogni altro caso. E quindi in tutti i casi in cui tale condanna, anche al di fuori dei primi due commi, appaia ragionevole ”.
Sulla base dei presupposti che precedono, il giudice, in sede di concretizzazione del precetto, osserva che “…vengono in mente i casi in cui la condotta della parte soccombente sia caratterizzata da colpa semplice (ovvero non grave, che è l’unica fattispecie di colpa presa in esame dal primo comma), ovvero laddove una parte abbia agito o resistito senza la normale prudenza (fattispecie diversa da quelle previste dal primo e secondo comma).
Poiché non è pensabile che possa essere sanzionata la semplice soccombenza, che è un fatto fisiologico della contesa processuale, è necessario che esista qualcosa di più rispetto ad essa, tale che la condotta soggettiva risulti caratterizzata, come in questo caso, da imprudenza e colpa (la sussistenza dei quali potrà essere ravvisata anche applicando i ben noti parametri della prevedibilità ed evitabilità dell’inevitabile rigetto della posizione, domanda o eccezioni, della parte soccombente).
Come detto, invece, non è necessario che vi sia stato a carico della parte vittoriosa un danno.
O meglio non si tratta di una condizione necessaria come nei casi del primo e del secondo comma dell’articolo in commento.
Naturalmente laddove risulti un danno (patrimoniale o non patrimoniale) questo contribuirà insieme a tutte le altre circostanze alla formazione della valutazione del giudice sul punto della responsabilità della parte condannata, specialmente per quanto riguarda il quantum della somma da porle a carico.
Quanto all’elemento soggettivo, ritiene il giudice che non sia richiesto né il dolo (mala fede) né la colpa grave, poiché tali situazioni sono previste per fattispecie diversa (il primo comma dell’art. 96 c.p.c.) ma che tuttavia un qualche stato soggettivo censurabile, dolo, colpa (di qualsivoglia intensità) o imprudenza debba comunque sussistere”.
Come può chiaramente evincersi da una interpretazione come quella appena riportata, dalla locuzione “in ogni caso”, forse utilizzata dal legislatore con eccessiva disinvoltura, dipende l’interpretazione dell’intervento legislativo e, soprattutto, il suo ambito di applicazione, vale a dire se le ipotesi di riferimento coincidano con i primi due commi del medesimo art. 96, dai cui presupposti dipenderebbe la propria incidenza, o se, al contrario, si intenda generalizzare lo spettro della condanna a tutti i casi in cui il giudice, definendo il processo, abbia a pronunciare sulle spese di lite, prescindendo, in particolare, dalla sussistenza di un illecito caratterizzato sul piano soggettivo da dolo o colpa grave.
In ogni caso, peraltro, la condanna ex art. 96, co. 3, c.p.c. non sembra possa considerarsi se non in stretta correlazione con gli altri strumenti progressivamente introdotti al fine di deflazionare i carichi della giustizia civile, dal momento che mira ad un maggior contrasto di iniziative giudiziarie non supportate da un reale ed adeguato interesse in capo alla parte che le propone (o che senza alcun costrutto ragionevolmente ipotizzabile resiste).
Sembra dunque possano condividersi le coordinate fondamentali evidenziate dalla giurisprudenza di merito e di legittimità secondo cui, in linea generale:
l’aver subito un’azione manifestamente infondata per mala fede o colpa grave, ovvero per inosservanza della normale prudenza nei casi previsti dall’art. 96, co. 2, c.p.c. può configurare di per sé e secondo le circostanze del caso un danno risarcibile. Si è in sostanza inserita nel sistema una fattispecie di responsabilità da abuso del diritto d’azione ex se causativa di danno non patrimoniale, consistente nell’aver subito una iniziativa del tutto ingiustificata dell’avversario, alla stessa stregua del danno oggettivo per la durata irragionevole del processo contemplato dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto) (Cfr. Tribunale di Salerno 27 maggio 2010).
Inoltre, ogni forma di abuso del processo anche se limitata comporta la sottrazione di tempo e risorse alla trattazione di altri giudizi e determina sprechi ingiustificati ed insostenibili di una risorsa sempre più scarsa come è quella del giudizio civile (Cfr. Tribunale di Verona 12 gennaio 2012).
Si può quindi affermare che la pronuncia ex art. 96, co. 3, c.p.c., introduce nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia deflazionando il contenzioso ingiustificato, ciò che esclude la necessità di un danno di controparte pur se la condanna è prevista a favore della parte e non dello Stato (Cfr. Tribunale di Reggio Emilia 18 aprile 2012).
In merito alla liquidazione del danno, si impone al giudice di osservare un criterio equitativo in applicazione del quale la responsabilità patrimoniale della parte in mala fede ben può essere (anche) calibrata sull’importo delle spese processuali o su un loro multiplo, sempre con il limite della ragionevolezza (Cfr. Corte Cassaz., sez. VI civile, 30 novembre 2012).
Può quindi affermarsi, in conclusione, ferme restando le problematiche interpretative derivanti da una disposizione concepita nei termini del terzo comma dell’art. 96 c.p.c., che ben potrà trovare applicazione il meccanismo sanzionatorio in questione nelle ipotesi in cui sia rintracciabile l’elemento soggettivo della mala fede in capo alla parte che anziché aderire al procedimento di mediazione, con concrete prospettive di risoluzione stragiudiziale della controversia, abbia preferito adire comunque il Tribunale con evidenti finalità dilatorie, certamente poco conciliabili, ferma l’intangibilità del diritto all’azione, con l’attuale trend legislativo, chiaramente ispirato ad una immanente – ancorchè a volte discutibile – logica deflattiva.
dott. Luigi Majoli
Ogni riproduzione, anche parziale, sarà perseguita a termini di legge.