adr intesa ente di formazione per mediatori civili riconosciuto dal ministero della giustizia

Responsabilità ex art. 96, co. 3, c.p.c. e mancato esperimento del tentativo di conciliazione

Come è noto, il terzo comma dell’art. 96 c.p.c., introdotto dall’art. 45 della legge n. 69/2009, prevede che il giudice, in sede di pronuncia sulle spese di giudizio secondo i principi generali di cui all’art. 91 c.p.c., possa comunque condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento, in favore di controparte, di una somma quantificata in via equitativa.

Si tratta, evidentemente, di una norma concepita per introdurre nell’ordinamento una forma di “danno punitivo”, finalizzata a fungere da deterrente nei confronti di forme  di abuso del processo, e come tale volta a preservare la funzionalità del sistema giustizia, ciò che esclude la necessità di un danno di controparte, pur se la condanna è prevista a favore di quest’ultima e non dello Stato. La pronuncia ex art. 96 comma 3 c.p.c. presuppone solo il requisito soggettivo della malafede o della colpa grave, elementi che concretizzano, per l’appunto, la temerarietà della lite. In sostanza, dunque, la riforma ha introdotto una vera e propria pena pecuniaria, indipendente tanto dalla istanza della parte interessata quanto dalla allegazione e dalla prova del danno che sia diretta conseguenza della condotta processuale altrui (in tal senso Corte Cassaz., sez. I civ., 30 luglio 2010, n. 17902).

Ora, pur non rappresentando le presenti note sede idonea per un’analisi del vivacissimo dibattito dottrinale che l’introduzione del nuovo comma ha immediatamente suscitato, in particolare circa la natura dell’istituto, va comunque rilevato come palesi appaiano i tratti differenziali della disposizione in parola rispetto al primo comma del medesimo art. 96, il quale dispone che “se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza”.

Infatti, va in primis rilevato come, ai sensi dell’art. 96, co. 3, la condanna possa essere  pronunciata anche d’ufficio, anche in assenza, dunque, di istanza della parte vittoriosa, che invece rappresenta l’ineludibile presupposto di quanto previsto nel primo comma, dal momento che in quest’ultima disposizione il risarcimento del danno consegue non solo al fatto oggettivo della soccombenza, ma anche all’elemento soggettivo della mala fede (o colpa grave) del soccombente, risultando, quindi, la parte vittoriosa onerata della relativa prova.

Inoltre, l’ipotesi di condanna di cui al terzo comma dell’art. 96 si differenzia nettamente da quella di cui al primo in virtù del suo carattere prettamente “sanzionatorio”, dal momento che il suo ammontare non è direttamente collegato al danno subito dalla parte a favore della quale è pronunciata, ma è rimesso alla valutazione equitativa da parte del giudice (per cui il medesimo non potrà che avere riguardo a tutte le circostanze del caso concreto al fine di calibrare in modo adeguato la somma da attribuirsi alla parte vittoriosa).

Infine, e questo è il punto che in questa sede riveste indubbiamente l’importanza principale, nell’art. 96, co. 3, non risultano individuate in alcun modo le condotte sanzionabili. Non potendosi ritenere che il legislatore abbia inteso accordare al giudicante la facoltà di irrogare la sanzione in parola sulla base del mero fatto della soccombenza, senza cioè una plausibile e circostanziata giustificazione, si è ritenuto, da parte di non pochi interpreti, che la condanna possa essere pronunciata soltanto ove ricorrano i presupposti di cui al primo comma del medesimo art. 96 (vale a dire qualora il soccombente abbia agito o resistito spinto da mala fede o colpa grave). D’altra parte, ad una soluzione siffatta conduce il rilevo che, a suo tempo, il comma di nuovo conio sia stato inserito in una disposizione rubricata “Responsabilità aggravata”.

Sulla base delle sintetiche premesse che precedono, sembra opportuno interrogarsi – nella presente sede – sul fatto se, ed eventualmente fino a che punto, possa ravvisarsi l’elemento soggettivo della mala fede nella circostanza per cui una delle parti, anziché recepire l’invito dell’altra all’utilizzo di uno strumento come la mediazione, che avrebbe potuto consentire l’approdo ad una soluzione alternativa della controversia, abbia preferito adire il giudice ovvero costringere, con il proprio contegno passivo, l’altra a percorrere le ordinarie vie giudiziali.

Sul piano concettuale, non sembrano sussistere dubbi insuperabili.

In fondo un atteggiamento doloso o gravemente colposo in capo a chi abbia agito o resistito temerariamente può ravvisarsi in un comportamento o in valutazioni attinenti non soltanto alla fase prettamente processuale ma anche alle fasi che precedono il giudizio medesimo, tra le quali un particolare rilievo deve essere attribuito al tentativo di mediazione, specialmente (ma non solo) nelle ipotesi in cui quest’ultimo è  di necessario esperimento ex lege.

Sotto il profilo attinente al piano testuale, però, l’utilizzo da parte del legislatore della locuzione “in ogni caso” sembrerebbe implicare che la condanna ai sensi del terzo comma art. 96 possa essere irrogata sia nelle ipotesi di cui ai primi due commi della medesima disposizione sia in ogni altro caso, vale a dire in tutti le circostanze in cui detta condanna appaia ragionevole.

Interpretazione estrema? Probabile. Ma – come tra breve si mostrerà – non manca in giurisprudenza chi abbia effettivamente opinato in tal senso.

La prima pronuncia rilevante in materia, Tribunale di S. Maria Capua Vetere, sent. 23 dicembre 2013, ha rilevato come, in sostanza, l’ambito concettuale entro il quale il legislatore ha mostrato ormai di muoversi è quello che tende ad individuare nel ricorso alle vie giudiziarie una sorta di extrema ratio per la risoluzione di una sempre più vasta gamma di controversie civili, con la conseguenza che la  diserzione, senza giustificato motivo, del procedimento di mediazione può senz’altro configurarsi quale comportamento omissivo passibile di condanna ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c.

In altri termini, il giudice ha ritenuto ravvisabile l’elemento soggettivo della mala fede in capo ad una delle parti la quale “…anziché recepire l’invito della controparte che avrebbe potuto condurre ad una soluzione del problema, abbia preferito adire il Tribunale”.

Secondo la pronuncia in esame, infatti, detto comportamento andrebbe ad evidenziare un’ottica conflittuale antitetica alla nuova prospettiva alla quale sembra decisamente orientato il legislatore nell’attuale fase storica, come dimostrato peraltro, dalle reintroduzione dell’obbligatorietà del tentativo di mediazione a seguito del c.d. “decreto del fare” e relativa conversione.

Nel caso di specie, i ricorrenti avevano proposto ricorso per accertamento tecnico preventivo ai sensi dell’art. 696 c.p.c. al fine di accertare le cause di macchie ed infiltrazioni presenti nell’unità abitativa da essi condotta in locazione. La parte resistente, tuttavia, eccepiva la mancanza dei presupposti per disporre il medesimo accertamento propedeutico al giudizio, avendo essa stessa manifestato piena disponibilità ad accertare le cause delle asserite infiltrazioni al fine di eventualmente eliminarle, incontrando, però, un comportamento poco collaborativo ed ostruzionistico da parte dei ricorrenti.

Ritenuti condivisibili i rilievi della convenuta e rigettata perciò la domanda dei ricorrenti, il giudice condanna gli stessi ex art. 96, co. 3, c.p.c., in quanto “…si sarebbe potuto agevolmente risolvere il problema emerso nel corso del rapporto locatizio senza ricorrere all’autorità giudiziaria, semplicemente raccogliendo l’invito della resistente a far visionare l’immobile locato. Emblematica del comportamento posto in essere dai ricorrenti, contrario ai doveri di buona fede contrattuale, è la circostanza che il ricorso per accertamento tecnico preventivo è stato depositato il 23.10.2013, ovvero il giorno immediatamente successivo alla trasmissione del fax (del 22.10.2013) con il quale la resistente specificamente diffidava i ricorrenti, a mezzo del proprio legale, a prendere contatti al fine di poter risolvere il problema dell’accesso all’immobile, stante la persistente irreperibilità degli stessi. Infatti, anziché recepire l’invito della locatrice, che avrebbe potuto condurre ad una soluzione del problema, si è preferito adire il Tribunale, in un’ottica conflittuale decisamente lontana dalla nuova prospettiva nella quale, anche alla luce della recente reintroduzione con il c.d. decreto del fare della mediazione obbligatoria, appare muoversi il legislatore negli ultimi tempi, prospettiva che attribuisce al difensore un ruolo centrale, prima ancora che nel giudizio, nell’attività di mediazione delle controversie – al punto da prevedere, con le modifiche operate dal D.L. n. 69/2013 che gli avvocati siano di diritto mediatori e debbano assistere la parte nel procedimento di mediazione – prospettiva che tende sempre di più ad individuare nel ricorso al Tribunale l’extrema ratio per la soluzione della quasi totalità delle controversie civili”.

Successivamente, il Tribunale di Roma (Sez. XII civ., sent. 4140/2014) ha condannato ai sensi dell’art. 96 c.p.c. un’assicurazione in considerazione dei comportamenti da questa tenuti, tanto nella fase della mediazione quanto in quella del giudizio.

Osserva infatti il giudice che detta parte “da un lato, non si era presentata, e senza giustificarsi, nella fase mediatoria”; dall’altro, aveva resistito alla domanda attorea “…pur nella consapevolezza dell’infondatezza delle tesi sostenute e nel difetto della normale diligenza con cui era stata istruita la pratica assicurativa”.

Il medesimo Tribunale di Roma, sez. XIII civ., con la sentenza 29 maggio 2014 ha affermato che la parte (nel caso di specie ancora una compagnia di assicurazione) che non partecipa al procedimento di mediazione adducendo quale giustificazione la fondatezza delle proprie ragioni, ostacola il corretto esplicarsi degli strumenti conciliativi e può essere condanna al pagamento di una somma pari al contributo unificato dovuto per il giudizio e al doppio delle spese processuali per responsabilità aggravata ex art. 96, co. 3, c.p.c.

Secondo il Tribunale di Roma, la parte non può limitarsi ad opporre quale giustificato motivo della mancata partecipazione alla mediazione, l’asserzione aprioristica che la propria posizione sia fondata rispetto alle tesi della controparte, poiché ammettendo ciò sussisterebbe sempre e comunque in capo a chiunque un giustificato motivo per non comparire.

Poiché, invece, la mediazione nasce da un contrasto tra le parti che il mediatore tenta di dirimere riallacciando canali di dialogo, non può esserci alcuna presa di posizione preconcetta fondata su ragioni proprie occorrendo, invece, una partecipazione effettiva.

In ordine alla condanna ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c., l’apparato motivazionale della pronuncia in esame rileva come “…in primo luogo non è più necessario allegare e dimostrare  l’esistenza di un danno che abbia tutti i connotati giuridici per essere ammesso a risarcimento essendo semplicemente previsto che il giudice condanna la parte soccombente al pagamento di un somma di denaro;

non si tratta di  un risarcimento ma di un indennizzo (se si pensa alla parte a cui favore viene concesso) e di una punizione (per aver appesantito inutilmente il corso della giustizia, se si ha riguardo allo Stato), di cui viene gravata la parte che ha agito con imprudenza, colpa o dolo;

l’ammontare della somma è lasciata alla discrezionalità del giudice che ha come parametro di legge l’equità per il che non si potrà che avere riguardo, da parte del giudice, a tutte le circostanze del caso per tarare in modo adeguato la somma attribuita alla parte vittoriosa;

a differenza delle ipotesi classiche (primo e secondo comma) il giudice provvede ad applicare quella che si presenta né più né meno che come una sanzione d’ufficio a carico della parte soccombente e non (necessariamente) su richiesta di parte;

infine, la possibilità di attivazione della norma non è necessariamente correlata alla sussistenza delle fattispecie del primo e secondo comma. Come rivela in modo inequivoco la locuzione in ogni caso la condanna di cui al terzo comma può essere emessa sia nelle situazioni di cui ai primi due commi dell’art. 96 e sia in ogni altro caso. E quindi in tutti i casi in cui tale condanna, anche al di fuori dei primi due commi, appaia ragionevole .

Sulla base dei presupposti che precedono, il giudice, in sede di concretizzazione del precetto, osserva che “…vengono in mente i casi in cui la condotta della parte soccombente sia caratterizzata da colpa semplice (ovvero non grave, che è l’unica fattispecie di colpa presa in esame dal primo comma), ovvero laddove una parte abbia agito o resistito senza la normale prudenza (fattispecie diversa da quelle previste dal primo e secondo comma).

Poiché non è pensabile che possa essere sanzionata la semplice soccombenza, che è un fatto fisiologico della contesa processuale, è necessario che esista qualcosa di più rispetto ad essa, tale che la condotta soggettiva risulti caratterizzata, come in questo caso, da imprudenza e colpa (la sussistenza dei quali potrà essere ravvisata anche applicando i ben noti parametri della prevedibilità ed evitabilità dell’inevitabile rigetto della posizione, domanda o eccezioni, della parte soccombente).

Come detto, invece, non è necessario che vi sia stato a carico della parte vittoriosa un danno.

O meglio non si tratta di una condizione necessaria come nei casi del primo e del secondo comma dell’articolo in commento.

Naturalmente laddove risulti un danno (patrimoniale o non patrimoniale) questo contribuirà insieme a tutte le altre circostanze alla formazione della valutazione del giudice sul punto della responsabilità della parte condannata, specialmente per quanto riguarda il quantum della somma da porle a carico.

Quanto all’elemento soggettivo, ritiene il giudice che non sia richiesto né il dolo (mala fede) né la colpa grave, poiché tali situazioni sono previste per fattispecie diversa (il primo comma dell’art. 96 c.p.c.) ma che tuttavia un qualche stato soggettivo censurabile, dolo, colpa (di qualsivoglia intensità) o imprudenza debba comunque sussistere”.

Come può chiaramente evincersi da una interpretazione come quella appena riportata, dalla locuzione “in ogni caso”, forse utilizzata dal legislatore con eccessiva disinvoltura, dipende l’interpretazione dell’intervento legislativo e, soprattutto, il suo ambito di applicazione, vale a dire se le ipotesi di riferimento coincidano con i primi due commi del medesimo  art. 96, dai cui presupposti dipenderebbe la propria incidenza, o se, al contrario, si intenda generalizzare lo spettro della condanna a tutti i casi in cui il giudice, definendo il processo, abbia a pronunciare sulle spese di lite, prescindendo, in particolare, dalla sussistenza di un illecito caratterizzato sul piano soggettivo da dolo o colpa grave.

In ogni caso, peraltro, la condanna ex art. 96, co. 3, c.p.c. non sembra possa considerarsi se non in stretta correlazione con gli altri strumenti progressivamente introdotti al fine di deflazionare i carichi della giustizia civile, dal momento che mira ad un maggior contrasto di iniziative giudiziarie non supportate da un reale ed adeguato interesse in capo alla parte che le propone (o che senza alcun costrutto ragionevolmente ipotizzabile resiste).

Sembra dunque possano condividersi le coordinate fondamentali evidenziate dalla giurisprudenza di merito e di legittimità secondo cui, in linea generale:

l’aver subito un’azione manifestamente infondata per mala fede o colpa grave, ovvero per inosservanza della normale prudenza nei casi previsti dall’art. 96, co. 2, c.p.c. può configurare di per sé e secondo le circostanze del caso un danno risarcibile. Si è in sostanza inserita nel sistema una fattispecie di responsabilità da abuso del diritto d’azione ex se causativa di danno non patrimoniale, consistente nell’aver subito una iniziativa del tutto ingiustificata dell’avversario, alla stessa stregua del danno oggettivo per la durata irragionevole del processo contemplato dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto) (Cfr. Tribunale di Salerno 27 maggio 2010).

Inoltre, ogni forma di abuso del processo anche se limitata comporta la sottrazione di tempo e risorse alla trattazione di altri giudizi e determina sprechi ingiustificati ed insostenibili di una risorsa sempre più scarsa come è quella del giudizio civile (Cfr. Tribunale di Verona 12 gennaio 2012).

Si può quindi affermare che la pronuncia ex art. 96, co. 3, c.p.c., introduce nell’ordinamento una forma di danno punitivo per scoraggiare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia deflazionando il contenzioso ingiustificato, ciò che esclude la necessità di un danno di controparte pur se la condanna è prevista a favore della parte e non dello Stato (Cfr. Tribunale di Reggio Emilia 18 aprile 2012).

In merito alla liquidazione del danno, si impone al giudice di osservare un criterio equitativo in applicazione del quale la responsabilità patrimoniale della parte in mala fede ben può essere (anche) calibrata sull’importo delle spese processuali o su un loro multiplo, sempre con il limite della ragionevolezza (Cfr. Corte Cassaz., sez. VI civile, 30 novembre 2012).

Può quindi affermarsi, in conclusione, ferme restando le problematiche interpretative derivanti da una disposizione concepita nei termini del terzo comma dell’art. 96 c.p.c., che ben potrà trovare applicazione il meccanismo sanzionatorio in questione nelle ipotesi in cui sia rintracciabile l’elemento soggettivo della mala fede in capo alla parte che anziché aderire al procedimento di mediazione, con concrete prospettive di risoluzione stragiudiziale della controversia, abbia preferito adire comunque il Tribunale con evidenti finalità dilatorie, certamente poco conciliabili, ferma l’intangibilità del diritto all’azione, con l’attuale trend legislativo, chiaramente ispirato ad una immanente – ancorchè a volte discutibile – logica deflattiva.

dott. Luigi Majoli

 

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Mediazione-civile-d.lgs-28-2010

Mediazione civile: tendenze giurisprudenziali

Riflessioni sulla recente giurisprudenza in materia di mediazione civile

Dott. Luigi Majoli

 Introduzione  

Già tempo di bilanci? Prevengo l’obiezione, certamente fondata (e che quindi condivido). Prematuro, dopo meno di un anno dall’entrata in vigore del nuovo modello di mediazione civile, a seguito del c.d. “decreto del fare”.

Eppure, in questi pochi mesi, molto è avvenuto. Dunque, niente bilanci, ma riflessioni sì. Riflessioni che appaiono ineludibili, allo stato attuale, soprattutto – come si analizzerà in seguito – alla luce del contributo della giurisprudenza alla diffusione della mediazione. Già. Proprio questo appare, a mio avviso, il punto fondamentale.

Al di là delle posizioni preconcette che si contrappongono da anni, al di là delle rendite di posizione e dei (presunti) interessi di categoria da difendere, un fatto appare chiaro: l’obbligatorietà della mediazione civile in un (rilevante) novero  di ipotesi – strumento inizialmente inevitabile per il “decollo” dell’istituto –  potrà anche venir meno laddove alla fine “soccombente” (ma per ora non sembra) nella querelle circa la sua costituzionalità; i quattro anni del “periodo di prova” previsto dal legislatore potranno certamente portare a risultati oggi imprevedibili o, semplicemente, il D.lgs 28/2010 ben potrebbe essere nuovamente oggetto di riforma con conseguente venir meno dell’obbligatorietà stessa, ma se la giurisprudenza continuerà a “credere” nell’istituto così come fino ad ora ha mostrato, ebbene la diffusione della mediazione troverà, verosimilmente, un canale parallelo di non minore portata.

Sulle base delle considerazioni che precedono, si analizzeranno di seguito gli spunti di maggiore interesse forniti dal contributo giurisprudenziale successivo alla vigenza della “nuova” mediazione.

Certamente, una considerazione preliminare non può essere sottaciuta: dopo il de profundis seguito alla sentenza dell’ottobre 2012 della Corte costituzionale, l’esigenza  di soluzioni delle controversie civili e commerciali alternative rispetto alla (naturale) sede del giudizio è immediatamente (ri)emersa in tutta la sua allarmante attualità, con conseguente – anche se senz’altro farraginoso e, quindi, perfettibile – intervento del legislatore in materia.

Sennonchè la criticità fondamentale va riscontrata proprio nelle problematiche di ordine interpretativo che le disposizioni di nuovo conio hanno immediatamente generato, favorendo, come subito di seguito si rileverà, posizioni di immutato sfavore verso lo strumento mediazione in sé e per sé considerato, che hanno finito con il sostituirsi alla pregiudiziale di costituzionalità cui si faceva in precedenza riferimento, in vista, però, del medesimo obiettivo.

La realtà normativa e le sue conseguenze sul terreno della pratica

Come è noto, l’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010, nel suo testo post riforma, prevede che “Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore. Al termine di due anni dalla medesima data di entrata in vigore è attivato su iniziativa del Ministero della giustizia il monitoraggio degli esiti di tale sperimentazione. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni”.

Non particolarmente rilevanti, dunque, appaiono le modifiche in ordine alle materie soggette all’obbligatorietà della mediazione: tra “tagli” (danni da circolazione di autoveicoli e natanti) ed “aggiunte” (responsabilità sanitaria) la sostanza non cambia.

Ben più incisivo, invece, il dettato dell’art. 5, co. 2,: “Fermo quanto previsto dal comma 1-bis e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello. Il provvedimento di cui al periodo precedente è adottato prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista prima della discussione della causa. Il giudice fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6 e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione”.

Mediazione delegata, dunque, non più su invito, ma “disposta” dal giudice. E tale da costituire, in primo grado ed in appello, condizione di procedibilità dell’azione. Innovazione dirompente, come già la realtà giurisprudenziale ha ampiamente dimostrato, in quanto direttamente condizionata unicamente alla volontà applicativa dei giudici. Tanto più, ove si consideri la contestuale entrata in vigore dell’art. 185 – bis c.p.c., che ha introdotto, come è noto, la c.d. mediazione “endoprocedimentale”, con la quale il giudice stesso può formulare una pronuncia transattiva o conciliativa da sottoporre alle parti.

In detto rinnovato contesto, le problematiche attuative di maggior rilievo sono state però cagionate dalla disposizione di cui all’art. 8, co. 1, a tenore della quale “All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della domanda. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante. Al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato. Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. Nelle controversie che richiedono specifiche competenze tecniche, l’organismo può nominare uno o più mediatori ausiliari”.

Tale disposizione deve essere collegata all’art. 5, co. 2 – bis, secondo cui “Quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”, e con l’art. 17, co. 5 – ter, per il quale “Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”.

Ora, la criticità in assoluto più rilevante sul piano pratico, come ben sa chi pratica professionalmente la mediazione, deriva dall’interpretazione che si è voluta dare del penultimo periodo del primo comma dell’art. 8, laddove si prevede che il mediatore invita le parti ad esprimersi circa la possibilità di “iniziare” il procedimento: se si intende con ciò che la mediazione avrà inizio solo ove le parti manifestino una sorta di volontà in tal senso, risulta chiaro che l’obbligatorietà finirebbe con l’essere tale solo formalmente, ma non di fatto.

Se è vero, come è vero, che un comportamento può definirsi obbligatorio solo se previsto come tale dalla legge o da un provvedimento giurisdizionale che nella legge medesima trovi la sua legittimazione, ne deriva che l’interpretazione di cui sopra determina una asserita obbligatorietà attenuata che – in sostanza – non è tale.

O, meglio ancora: così opinando quello che risulterebbe effettivamente obbligatorio non sarebbe altro che il primo incontro delle parti (o, peggio, dei soli avvocati delle stesse) con il mediatore, che il più delle volte varrebbe soltanto ad esprimere la “volontà” delle stesse contraria all’ingresso nel procedimento al fine di addivenire alla formazione di un verbale negativo che consenta di assolvere la condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Insomma, un mero orpello formale. Con conseguente svuotamento di ogni  significato della mediazione sul piano deflattivo e sul quello, in prospettiva ancor più importante, culturale.

Si tratta, di fatto, di un sensibile ridimensionamento (volendo fare uso di un eufemismo) di ciò che la legge – sia pure tra mille “cautele” e compromessi – bene o male prevede.

Da un lato, infatti, si contempla, tanto per la mediazione ex lege quanto per la delegata, l’esperimento di un tentativo destinato a concludere la vicenda in via stragiudiziale, ovvero, nell’ipotesi di fallimento dello stesso (mancato accordo), volto a consentire l’ingresso nella canonica via giudiziale; dall’altro, si impone nella pratica un’interpretazione riduttiva, per la quale la condizione risulterebbe soddisfatta con la mera presenza dinanzi al mediatore, in sede di primo incontro, di soggetti dalla cui “volontà”, in ultima analisi, verrebbe a dipendere l’”inizio” del tentativo stesso.

Ciò appare oggettivamente inquietante.

Se infatti una simile lettura delle disposizioni sopra ricordate sembra contraddittoria rispetto al concetto stesso di mediazione concepita quale condizione di procedibilità della domanda (ossia “obbligatoria”), ancor più sconcertante risulta se rapportata ad una mediazione, quale quella delegata ex art. 5, co. 2, ipotesi in cui la legge attribuisce al giudice il potere di disporre il tentativo. Cosa finirebbe con il disporre il giudice, una tediosa formalità dinanzi al mediatore volta ad accertare la mera volontà di non mediare, con conseguente ulteriore appesantimento dei tempi di giustizia?

In presenza di un siffatto stato di cose non poteva che essere la giurisprudenza a prendere posizione in ordine agli aspetti appena accennati, nell’intendo di dare sostanza alle previsioni legislative, destinate, altrimenti, ad un oblio inevitabile quanto, da molte parti, non certo sgradito.

I contributi della giurisprudenza

 La partecipazione personale delle parti

In primo luogo, i più recenti orientamenti giurisprudenziali in materia di mediazione delegata sottolineano come sia connaturata al concetto stesso di mediazione la presenza delle parti dinanzi al mediatore (Cfr. Trib. Firenze, ordd. 17 e 19 marzo 2014; Trib. Roma, sent. 29 maggio 2014 e ord. 30 giugno 2014; Trib. Bologna, ord. 5 giugno 2014).

In sintesi, si osserva come l’assenza della parte determini conseguenze rilevanti sulla natura stessa del tentativo di mediazione che, in quanto tale, dovrebbe dipanarsi in modo tale da consentire agli interessati di assurgere quanto più possibile al ruolo di autentici protagonisti della vicenda (auspicabilmente) destinata a favorire il recupero del rapporto tra le parti, anticamera di ogni ipotesi di conciliazione. Una trattativa svolta dai soli avvocati potrebbe anche portare ad un esito fruttuoso, ma non rappresenterebbe una mediazione vera e propria, assumendo piuttosto le sembianze di una mera transazione, in quanto tale ispirata alla (diversa) logica delle reciproche rinunce.

Secondo l’ordinanza 19 marzo 2014 del Tribunale di Firenze, ad esempio, posto che “…la natura della mediazione esige che siano presenti di persona anche le parti: l’istituto mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. L’assenza delle parti, rappresentate dai soli difensori, dà vita ad altro sistema di soluzione dei conflitti, che può avere la sua utilità, ma non può considerarsi mediazione. D’altronde, questa conclusione emerge anche dall’interpretazione letterale: l’art. 5, comma 1-bis e l’art. 8 prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo con l’ ‘assistenza degli avvocati’, e questo implica la presenza degli assistiti”, il giudice osserva che “…i difensori, definiti mediatori di diritto dalla stessa legge, hanno sicuramente già conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità. Se così non fosse non si vede come potrebbero fornire al cliente l’ informazione prescritta dall’art. 4, comma 3, del d.lgs 28/2010, senza contare che obblighi informativi in tal senso si desumono già sul piano deontologico (art. 40 codice deontologico ). Non avrebbe dunque senso imporre l’incontro tra i soli difensori e il mediatore solo in vista di un’informativa”.

Il fatto che la condizione si avveri con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore appare poi “…particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare ”la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione”.

Anche per il Tribunale di Bologna, ordinanza 5 giugno 2014, la presenza delle parti costituisce presupposto necessario.

Ribadito, in primo luogo, che la natura della mediazione richiede “...che all’incontro (…) siano presenti (anche e soprattutto le parti): l’istituto, infatti, mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore”, il giudicebolognese prosegue osservando che “…i difensori, definiti mediatori di diritto dalla stessa legge, sono senza dubbio già a conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità (come peraltro si desume dal fatto che essi, prima della causa, devono fornire al cliente l’informazione prescritta dall’art. 4, comma 3, del d.lgs 28/2010), di talchè non avrebbe senso imporre l’incontro tra i soli difensori ed il mediatore in vista di una (dunque, inutile) informativa”.

In terzo luogo (e soprattutto, ad avviso di chi commenta), il Tribunale rileva il fatto che “…l’ipotesi in cui all’incontro davanti al mediatore compaiono i soli difensori, anche in rappresentanza delle parti, non può considerarsi in alcun modo mediazione, come si desume dalla lettura coordinata dell’art. 5, comma 1 – bis, e dell’art. 8, che prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo con l’assistenza degli avvocati, e questo implica la presenza degli assistiti (personale o a mezzo di delegato, cioè di soggetto comunque diverso dal difensore)”.

E ancora, anche nell’ordinanza 30 giugno 2014 del Tribunale di Roma siconferma che le parti inviate in mediazione ai sensi dell’art. 5, co. 2, devono partecipare personalmente (salvo casi eccezionali) al procedimento – a partire dal primo incontro con il mediatore di cui all’art. 8 del decreto legislativo.

In sostanza, dunque, limitandosi per ora alle ipotesi di mediazione disposta dal giudice, la previsione circa la presenza delle parti, assistite dall’avvocato, viene intesa quale volontà legislativa di favorire la partecipazione personale della parte, che rappresenta un indefettibile ed autonomo centro di imputazione e valutazione di interessi. Senza parti, salvo casi eccezionali, parlare di mediazione diventa arduo.

Nei casi di rappresentanza delle parti in mediazione, occorre poi aprire un diverso capitolo in ordine alla legittimazione del rappresentante. In questa sede basti rammentare che la rappresentanza in esame ha natura negoziale e non processuale, e quindi il rappresentato dovrà conferire adeguata procura ad negotia che autorizzi il rappresentante ad agire in nome e per conto, con idonea puntualizzazione dei poteri e dei limiti.

In sostanza, in mediazione, il mediatore e l’altra parte dovranno essere in grado di interfacciarsi con un soggetto che risulti realmente in grado di esplorare tutte le possibilità conciliative, molte delle quali, come ben ha presente chi pratica la mediazione, emergono nel procedimento (e dal procedimento), spesso molto al di là delle posizioni iniziali. Per queste ragioni, soltanto la procura notarile speciale, redatta ad hoc per il singolo affare, oltre a permettere al rappresentante di stipulare atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, sembra in grado di fornire le necessarie garanzie in ordine alla sua utilizzabilità nei confronti di terzi.

L’effettività del tentativo di mediazione

Partecipazione personale delle parti al procedimento, dunque. Ma non solo.

A nulla gioverebbe, infatti, la presenza personale delle parti all’interno di una vuota formalità mirante unicamente all’ottenimento di un verbale negativo, senza alcun tentativo concreto di soluzione stragiudiziale.

Secondo la giurisprudenza citata, infatti, per mediazione disposta dal giudice deve intendersi un tentativo di mediazione effettivamente avviato, ossia che le parti, anziché limitarsi ad incontrarsi ed informarsi, per poi non aderire alla proposta del mediatore di procedere, adempiano effettivamente all’ordine del giudice, partecipando alla vera e propria procedura (auspicabilmente) conciliativa, salvo, naturalmente, l’emergere di questioni pregiudiziali (di natura – pertanto – oggettiva) ostative al suo svolgimento.

L’ordinanza 19 marzo 2014 del Tribunale di Firenze, in particolare, pur muovendo dalla premessa di una difficile individuazione del confine tra la fase preliminare e la mediazione vera e propria, osserva, con riferimento alla mediazione delegata ex art. 5, co. 2, come “…ritenere che l’ordine del giudice sia osservato quando i difensori si rechino dal mediatore e, ricevuti i suoi chiarimenti su funzione e modalità della mediazione,(…) possano dichiarare il rifiuto di procedere oltre, appare una conclusione irrazionale e inaccettabile”.

D’altronde, prosegue il giudice fiorentino, “…ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro, in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione, vuol dire in realtà ridurre ad un’ inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori. Non avrebbe ragion d’essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere. La dilazione si giustifica solo quando una mediazione sia effettivamente svolta e vi sia stata data un’effettiva chance di raggiungimento dell’accordo alle parti. Pertanto occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione. Altrimenti, si porrebbe un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione”.

Anche il Tribunale di Roma, nella citata ordinanza 30 giugno 2014, sottolinea con forza come il tentativo di mediazione, con riferimento alle ipotesi di cui all’art. 5, co. 2, debba svolgersi effettivamente, dal momento che una formale e “burocratica” presenza delle parti (o, peggio, dei soli avvocati delle stesse) volta a produrre la condizione di procedibilità della domanda (tramite, ovviamente, formazione di verbale negativo) finirebbe con il trasformarsi in una totale elusione dell’ordine del giudice, il quale avrà già provveduto in prima persona alle valutazioni del caso circa la “mediabilità” della controversia.

In sintesi, quindi: tentativo effettivamente svolto – in ottemperanza all’ordine del giudice, e caratterizzato dalla presenza personale – salvo casi eccezionali – delle parti.

Partecipazione delle parti ed principio di effettività nella mediazione ex lege

La giurisprudenza uniforme che deriva dai provvedimenti or ora presi in considerazione si fonda sull’esigenza di partecipazione personale delle parti e sulla circostanza che il tentativo di mediazione disposto dal giudice deve essere caratterizzato da “effettività”. Per l’appunto, si tratta di pronunce relative ad ipotesi di mediazione delegata ai sensi dell’art. 5, co. 2, d.lgs 28/2010.

Ma detti principi possono estendersi sic et simpliciter alle ipotesi di cui all’art. 5. co. 1 – bis, vale a dire ai casi, ben più frequenti nella pratica, di mediazione instaurata dalla parte interessata in quanto ex lege condizione di procedibilità della domanda giudiziale?

Occorre, sul piano interpretativo, rilevare immediatamente che la condizione di procedibilità è rappresentata, tanto ai sensi dell’art. 5, co. 1 – bis, quanto dell’art. 5, co. 2, dall’”esperimento del procedimento di mediazione”.

Bene. Su cosa debba intendersi per “mediazione” non possono sussistere dubbi, in ragione della definizione fornitaci dall’art. 1, co. 1, lett. a) del medesimo D.lgs 28/2010, secondo cui si tratta della “l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, anche con formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa”.

Ne consegue che ove le parti si limitino a comparire innanzi al mediatore senza aderire alla proposta di quest’ultimo di procedere al tentativo, di “mediazione” in senso tecnico non si possa proprio parlare. In tal caso, con riferimento alle ipotesi di mediazione delegata ai sensi dell’art. 5, co. 2, il potere conferito dalla legge al  giudice (di disporre una mediazione che, in primo grado ed in appello, condiziona la procedibilità della domanda) risulterebbe, nella sostanza, indebolito se non completamente vanificato.

Ora, però, se è vero che nelle ipotesi di cui sopra è il giudice a valutare nel caso concreto i margini di “mediabilità” della controversia, è anche vero che nelle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, detta valutazione risulta già operata in astratto dal legislatore. Non si vede quindi perchè le stesse considerazioni in ordine alla partecipazione personale delle parti al procedimento e soprattutto alla effettività del tentativo non debbano valere anche (ed a maggior ragione) laddove l’esperimento della mediazione condiziona la procedibilità della domanda giudiziale ab inizio.

L’assimilazione in parola, peraltro, è stata già fatta propria dalla giurisprudenza.

Il Tribunale di Firenze, con l’ordinanza 17 marzo 2014, ha infatti osservato come debba ritenersi che “…le procedure di mediazione ex art. 5, comma 1-bis (ex lege) e comma 2 (su disposizione del giudice) del d.lgs. 28/10 (e succ. mod.), sono da ritenersi ambedue di esperimento obbligatorio, essendo addirittura previsti a pena di improcedibilità dell’azione; che difatti, per espressa volontà del legislatore, il mediatore nel primo incontro chiede alle parti di esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione, vale a dire sulla eventuale sussistenza di impedimenti all’effettivo esperimento della medesima e non sulla volontà delle parti, dal momento che in tale ultimo caso si tratterebbe, nella sostanza, non di mediazione obbligatoria bensì facoltativa e rimessa alla mera volontà delle parti medesime con evidente, conseguente e sostanziale interpretatio abrogans del complessivo dettato normativo e assoluta dispersione della sua finalità esplicitamente deflattiva”.

Ad avviso del giudice fiorentino, in altri termini, il tentativo di mediazione, pur ritualmente iniziato, ove le parti si limitino ad esprimere una asserita volontà contraria a procedere, non risulterebbe altrettanto ritualmente condotto a termine e pertanto “…le parti devono essere rimesse dinanzi al mediatore affinché, in ottemperanza all’interpretazione sopra offerta, prosegua e si esaurisca l’esperimento della procedura di mediazione”.

In sostanza, dunque, il Tribunale di Firenze individua le ragioni della “impossibilità di iniziare la procedura”, di cui all’art. 8, co. 1, nelle sole questioni preliminari o pregiudiziali di natura oggettiva, chiarendo come non sia previsto in alcun modo che le parti manifestino una sorta di volontà di partecipazione al tentativo di mediazione effettivamente inteso.

Sulla stessa lunghezza d’onda, ancor più di recente, il Tribunale di Palermo (sez. I civile, ordinanza 16 luglio 2014).

Il Giudice rileva infatti come sussista “…un nodo interpretativo da risolvere. Il Legislatore ha espressamente regolato il regime giuridico sotteso alla condizione di procedibilità e previsto, all’art. 5 comma 2bis, che «quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avveratase il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo». La disposizione, dunque, sembra richiamare espressamente “il primo incontro” di cui all’art. 8 comma I cit.”. Pertanto, “…il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilità, che le mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro. Tuttavia, egli può comunque richiedere che in questo primo incontro il tentativo di  mediazione sia stato effettivo”.

Naturalmente, una lettura frettolosa ed approssimativa dell’art. 8 D.lgs 28/2010  sembrerebbe giustificare un’interpretazione per cui se le parti e i loro avvocati non  intendessero effettuare un vero tentativo di conciliazione (verosimilmente al solo scopo di non versare l’indennità di mediazione prevista per il rispettivo scaglione di riferimento) ben potrebbero esprimere in questa prima parte del primo incontro, di natura preliminare, la loro volontà contraria all’inizio di una mediazione, con conseguente chiusura del procedimento. La disposizione normativa in questione, così interpretata, risulterebbe però a dir poco bizzarra, in quanto rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa.

Ragion per cui, il giudice siciliano ritiene, come anticipato poc’anzi, che “…il mediatore non dovrebbe chiedere, come invece ritenuto da molti, se le parti vogliono andare avanti. Egli non deve verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma li invita ad esprimersi sulla “possibilitàdi iniziare la procedura di mediazione. E nel punto in cui la norma dice che “nel caso positivo, procede con lo svolgimento” essa non va intesa nel senso che se gli avvocati dicono che c’è tale possibilità si va avanti, mentre se dicono che non sussiste questa possibilità non si procede oltre. È il mediatore che, tenuto conto di quello che dicono le parti e gli avvocati, valuta se sussiste questa possibilità (nella norma, infatti, non si legge “nel caso di risposta positiva”, ma “nel caso positivo”). Si comprende, quindi, il motivo per cui il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10 contempla (come il comma 2 bis dell’art. 5) la possibilità di un accordo tra le parti in sede di primo incontro (prevedendo che in caso di mancato incontro non è dovuto compenso all’organismo)”.

Un ulteriore passo avanti in tal senso è indubbiamente rappresentato dalla recentissima ordinanza 16 luglio 2014 del Tribunale di Rimini in cui, per la prima volta, il principio dell’effettività del tentativo di mediazione è affermato con riferimento ad una ipotesi di mediazione ex lege, depositata, cioè, ai sensi dell’art. 5, co. 1- bis, D.lgs 28/2010.

Nel caso di specie, il Giudice, rilevata la mera formalità del tentativo di mediazione avviato ante causam dalla parte attrice del giudizio, esauritosi nella semplice presenza delle parti in sede di primo incontro all’unico scopo di manifestare una asserita “non volontà” di intraprendere il tentativo conciliativo, ha disposto lo svolgimento di un tentativo effettivo pena l’improcedibilità della domanda giudiziale.

Il Tribunale romagnolo, dunque, ha inteso sottolineare come il carattere dell’”effettività” debba necessariamente contraddistinguere la mediazione tout court, indipendentemente dal fatto che il tentativo sia disposto dal giudice.

Come già si è avuto modo di rilevare in precedenza, se è vero che le pronunce “fiorentine” si riferiscono alla mediazione delegata dal giudice di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, è altrettanto vero però che i principi in esse contenuti appaiono estensibili a tutte le ipotesi di mediazione “obbligatoria”, dal momento che il legislatore non ha inteso configurare modelli procedimentali differenti in funzione del fatto che la mediazione consegua alla (necessaria) iniziativa della parte che intenda proporre una domanda nelle materie di cui all’art. 5. co 1 – bis, ovvero che sia demandata, in primo grado o in appello, dal giudice ex art. 5, co. 2.

Il Tribunale di Rimini ha ritenuto di perseguire una linea interpretativa siffatta, che, allo stato, non può che rappresentare una spinta di inestimabile valore verso l’effettività della mediazione e, quindi, verso lo sviluppo di una cultura nuova, antitetica a quella tradizionale del conflitto ad ogni costo.

Ragioni come la mancanza di una parte necessaria, la carenza di rappresentanza, l’incompetenza dell’organismo presso il quale si è depositata l’istanza etc. sono questioni che possono emergere solo dinanzi al mediatore in sede di primo incontro, tali da configurare l’impossibilità di dare avvio al procedimento.

Non certo la “volontà” di non procedere espressa dalle parti (o dagli avvocati chiamati ad assisterle). In tal caso la condizione dovrà ritenersi non avverata, per inadempimento all’obbligo conseguente dalla legge o dall’ordine del giudice.

Non può, ovviamente, configurarsi alcun “obbligo a conciliare”, ma ad iniziare concretamente un percorso di mediazione certamente sì. In altri termini, è vero che a norma dell’art. 3 D.lgs 28/2010 il procedimento di mediazione non è formalizzato, ma altrettanto certo è che, in assenza di una qualche sequenza di atti e di comportamenti volti a favorire il recupero di un dialogo tra le parti, di svolgimento di una “mediazione” non possa in alcun modo parlarsi.

Di qui, due considerazioni.

Innanzitutto, l’importanza dell’obbligo di informativa posto a carico degli avvocati dall’art. 4, co. 3, D.lgs 28/2010, nel quale si prevede che “All’atto del conferimento dell’incarico, l’avvocato è tenuto a informare l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20. L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’informazione deve essere fornita chiaramente e per iscritto. In caso di violazione degli obblighi di informazione, il contratto tra l’avvocato e l’assistito è annullabile. Il documento che contiene l’informazione è sottoscritto dall’assistito e deve essere allegato all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio. Il giudice che verifica la mancata allegazione del documento, se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione”.

A prescindere da qualsiasi altra considerazione ed approfondimento, basti osservare, nella presente sede, come debba trattarsi di un’informativa piena e completa, non soltanto, cioè, relativa alla possibilità di avvalersi della mediazione o al fatto che, nelle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, essa costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale, nonché alle correlate agevolazioni fiscali previste dalla legge. Dovranno essere illustrate, altresì, anche (e soprattutto) le caratteristiche del procedimento, a partire – dunque – dalle finalità e dalle modalità del primo incontro.

Sarà dunque l’avvocato, all’atto de conferimento dell’incarico, che dovrà esplicare all’assistito – tra le altre cose – l’importanza della sua partecipazione personale ed il concetto di effettività del tentativo.

In secondo luogo, il fatto che il (famigerato) art. 17, co. 5 – ter, preveda che nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro nessun compenso sia dovuto per l’organismo nulla implica in ordine al fatto che il tentativo debba comunque svolgersi effettivamente ai fini del rispetto della condizione di procedibilità della domanda.

Chiunque operi nella mediazione conosce gli effetti devastanti della disposizione in esame. Anche a non voler ulteriormente insistere sul punto, non è chi non veda che per potersi parlare di “mancato accordo” un tentativo di mediazione deve necessariamente essersi svolto: per giungere alla redazione di un verbale negativo per mancato raggiungimento dell’accordo tra le parti il mediatore deve pur sempre entrare nel merito della controversia dinanzi a lui pendente.

Se, però, a tale risultato si perviene all’esito del primo incontro, il tentativo risulta espletato, salvo che il mediatore ha operato gratuitamente (sic), previsione circa la legittimità, anche sul piano costituzionale, della quale sembra possano sollevarsi non poche riserve (a volersi esprimere con un eufemismo).

 Mediazione delegata e mediazione endoprocedimentale

Fin qui sui contributi giurisprudenziali in tema di partecipazione delle parti e di effettività del tentativo di mediazione.

Naturalmente, però, non può essere sottaciuto, in questa sede, l’impatto dell’ulteriore “spinta” che il legislatore ha inteso fornire alla diffusione di una cultura della mediazione finora carente, vale a dire l’introduzione dell’art. 185 – bis c.p.c.

Come è noto, al disposizione prevede che “Il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice”.

Non si intende qui disquisire sulle ombre, che certamente non possono essere aprioristicamente negate, che detta novella suscita. Certamente, la formulazione “attenuata” che il legislatore ha (saggiamente) adottato in sede di conversione, rispetto all’imperatività – obiettivamente insostenibile – di quanto disposto dall’originario testo del c.d. “decreto del fare” va salutata positivamente.

Ciò su cui, però, si intende porre l’accento è l’immediato favore mostrato dai Giudici nei confronti dell’istituto (nonché nei confronti del modificato art. 420 c.p.c., per ciò che concerne il rito del lavoro).

Occorre innanzitutto rilevare che la L. 98/2013, appunto di conversione del D.L. 69/2013, mentre disponeva l’entrata in vigore delle norme relative alla nuova mediazione obbligatoria ex lege e a quella delegata a partire dal 20 settembre 2013, stabiliva, come data di inizio della vigenza dell’art. 185 – bis (e 420 modificato, cui si è fatto cenno poc’anzi) il 21 giugno dello stesso 2013.

Ebbene, in questo anno abbondante appena trascorso, la giurisprudenza ha fornito spunti davvero interessanti.

Immediatamente, infatti, il Tribunale di Milano, (sez. IX civ., decreto 26 giugno 2013), premesso che trattandosi di norma processuale risulta applicabile, in base al principio tempus regit actum, anche ai giudizi già pendenti alla data di entrata in vigore della stessa, ha inteso chiarire come si tratti della espressione “…di un principio generale (anche nell’art. 420 c.p.c. come riformato), anche per il fatto di distinguere espressamente tra proposta transattiva e conciliativa e per la difficoltà di ammettere settori o comparti divisi dell’ordinamento in cui il giudice possa o non possa aiutare i litiganti a pervenire ad un assetto condiviso per la soluzione pacifica della causa”, con conseguente applicabilità anche a controversie relative a materie non ricomprese nell’ambito di previsione dell’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010.

Poco dopo, il Tribunale di Nocera Inferiore (sez. I civ., ordinanza 27 agosto 2013), nell’applicare l’art. 185 – bis ad un campo “incandescente” come quello dell’anatocismo bancario, dopo aver osservato che la proposta di soluzione formulata dal giudice era giustificata (anche) dalla circostanza che i costi delle rispettive spettanze legali, di un eventuale supplemento di C.T.U. e di altri eventuali eventuali adempimenti connessi avevano già superato il valore della controversia, ha affermato, tra l’altro, che il giudice stesso “…se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92”.

Ma è dopo l’entrata in vigore del riformato D.lgs 28/2010 che la situazione, dal punto di vista giurisprudenziale, ha iniziato ad evolversi verso scenari sempre più innovativi.

Infatti, il Tribunale di Roma (sez. XIII civ., ordinanza 24 ottobre 2013) ha immediatamente dato il via all’orientamento per il quale la mediazione endoprocedimentale ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c. è cumulabile con la mediazione delegata ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.

Nel provvedimento in esame, infatti, il giudice capitolino, formulata la proposta e assegnato un congruo termine per la valutazione della medesima, dispone che “…dalla eventuale infruttosa scadenza del suddetto termine, decorrerà quello ulteriore di gg. 15 per depositare presso un organismo di mediazione, a scelta delle parti congiuntamente o di quella che per prima vi proceda, la domanda di cui al secondo comma dell’art. 5 del decreto; con il vantaggio di poter pervenire rapidamente ad una conclusione, per tutte le parti vantaggiosa, anche dal punto di vista economico e fiscale (cfr. artt. 17 e 20 del decr. legisl. 4.3.2010 n. 28), della controversia in atto.

Viene infine fissata un’udienza alla quale in caso di accordo  le parti potranno anche non comparire; viceversa, in caso di mancato accordo, potranno, volendo, in quella sede fissare a verbale quali siano state le loro posizioni a riguardo (relativamente alla sola proposta del giudice), anche al fine di consentire l’eventuale valutazione giudiziale della condotta processuale delle parti ai fini degli artt. 91 e 96 III° cpc”.

In altri casi, la cumulabilità tra i due istituti è stata affermata “in due tempi”, disponendo cioè la mediazione ex art. 5, co. 2, a seguito della mancata accettazione di una delle parti della proposta transattiva o conciliativa formulata dal giudice.

Ad esempio, il Tribunale di Milano (sez. spec. in materia di impresa, ordinanza 11 novembre 2013), avendo formulato una proposta transattiva ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., a fronte della quale “...il convenuto dichiara di essere disponibile a chiudere la lite con tale versamento da parte sua. L’attore dichiara che tale soluzione non è per lui accettabile(…)visto l’art.5 secondo comma del d.lgs. n.28/2010 nell’attuale sopravvenuta formulazione; valutata la natura della lite, i rapporti familiari tra le parti e il comportamento delle stesse anche all’odierna udienza; ritenutane in base a tali elementi l’utilità;

dispone l’esperimento del procedimento di mediazione, assegnando alle parti il termine di quindici giorni per dare inizio alla mediazione e fissando per la prosecuzione del giudizio l’udienza del (…) riservato ogni altro provvedimento”.

E non solo.

Con la successiva ordinanza 5 dicembre 2013, il Tribunale di Roma,  sez. XIII civ., osserva come la circostanza “…che l’attore abbia proposto prima e fuori dalla causa una domanda di mediazione (non ha rilevanza – ai fini che qui interessano – la natura

volontaria o obbligatoria), non sia impeditiva all’esercizio ed all’attivazione da parte del Giudice della mediazione demandata di cui all’art. 5 co. II del decr. legisl. 28/2010 nella versione riformata dal D.L.69/13 cit.”.

Con la pronuncia in parola si afferma dunque non solo l’utilizzabilità della mediazione delegata, eventualmente preceduta da una proposta transattiva o conciliativa ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., laddove un tentativo di mediazione sia già stato infruttuosamente esperito ante causam, ma anche la medesima possibilità laddove si tratti di materia non assoggettata al regime di obbligatorietà del tentativo conciliativo (nella quale ipotesi – quindi – una fattispecie originariamente “a mediazione non obbligatoria” diviene condizionata all’esperimento del tentativo in via successiva, a seguito, cioè,  dell’ordine del giudice di cui all’art, 5, co. 2).

Nella medesima ordinanza, il Tribunale evidenzia la sostanziale libertà (nei limiti – ovviamente – della tempistica processuale fissata dal legislatore) per il giudice in ordine alla scelta del momento più idoneo alla formulazione della proposta e sottolinea, altresì, l’importanza del ruolo rivestito dai difensori a fronte della proposta stessa: “…Il momento in cui il Giudice invia le parti in mediazione è svincolato da rigidità processuali se non quelle molto avanzate del giudizio (conclusioni/discussione), consentendogli di individuare e di scegliere il momento più propizio in relazione alle circostanze ed agli sviluppi della causa (e ciò anche in relazione alle difese articolate dalle parti).

La possibilità (…) di rappresentare pacatamente, con equidistanza ed imparzialità, i punti di debolezza e di forza delle rispettive posizioni, consente di esaltare la sensibilità culturale e giuridica dei difensori, che tanto ruolo hanno nella mediazione riformata. E, tramite essi, parlare alle parti che pertanto dovranno essere informate nel modo più ampio e sostanziale dai difensori circa il contenuto del provvedimento,

al fine che esse possano, esattamente come in ambito sanitario, determinarsi verso la scelta migliore da assumere, in ordine alla quale è precondizione una adeguata consapevolezza.

Compito dei difensori è quello di evocare la possibilità per le parti, cogliendo le potenzialità del provvedimento del Giudice, di trovare ragionevoli soluzioni e punti di accordo, non celando, in mancanza, i possibili sviluppi negativi delle aspettative che l’inevitabile antagonismo insito nella avviata contesa giudiziaria tende, per ciascuna delle parti, a radicare ed esaltare.

Con la mediazione demandata si evita di intraprendere percorsi spesso già condannati in partenza (si pensi ad una mediazione obbligatoria prima della causa nella quale saranno protagonisti necessari soggetti terzi, come assicurazioni successivamente chiamate; ovvero a situazioni in ordine alle quali le risultanze della consulenza tecnica disposta dal giudice sono determinanti per meglio fissare l’ubi consistam della lite); e ciò perché è il Giudice che sceglie, con oculatezza, il momento migliore per disporne l’avvio”.

Si tratta di orientamenti ormai largamente condivisi.

Una sorta di sintesi degli approdi cui la giurisprudenza sembra essere ormai pervenuta in tema di cumulabilità tra mediazione endoprocedimentale e mediazione delegata e, soprattutto, con riferimento ai temi appena trattati della partecipazione personale delle parti al procedimento di mediazione dell’effettivo svolgimento del medesimo, è rintracciabile nell’ampia e chiarissima motivazione della poc’anzi ricordata ordinanza del 16 luglio 2014 del Tribunale di Palermo, sez. I civile.

Sotto il primo profilo, il Giudice, premesso che sussistono nel caso di specie tutti i presupposti per la formulazione di una proposta ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c. (e con gli effetti, aspetto quest’ultimo di particolare rilevanza, di cui all’art. 91 c.p.c.), anticipa che “…comunque, in caso di mancata accettazione della proposta in questione, questo giudice disporrà la mediazione ex officio iudicis”, strumento quest’ultimo espressione del vero e proprio potere attribuito dalla legge al giudice di “…imporre alle parti di intraprendere un procedimento di mediazione nel corso del processo (in passato, invece, il giudice poteva solo invitarle a svolgere un tentativo stragiudiziale di mediazione, attendendo l’eventuale risposta positiva delle parti), in tal modo creando una nuova condizione di procedibilità (sopravvenuta) per ordine del giudice. Si tratta di una norma che rimette al giudice l’effettività di tale canale di accesso alla mediazione (che opera non quale filtro preventivo alle liti, ma successivo e non per questo meno utile ed efficace) e può operare in ogni lite, purché abbia ad oggetto diritti disponibili”.

Per quanto concerne poi gli aspetti relativi alle modalità del tentativo di mediazione, premesso che occorre domandarsi che cosa occorra in realtà che risulti espletato dalle parti affinchè l’ordine del giudice possa considerarsi adempiuto, il Tribunale mostra di aderire all’impostazione esaustivamente esplicata dai giudici fiorentini nelle    citate ordinanze del 17 e 19 marzo 2014, in base alla quale il tentativo deve essere effettivo.

Il Tribunale, dunque, ribadisce che non avrebbe alcuna ragion d’essere una dilazione del processo civile per un mero adempimento burocratico, non potendosi in altro modo definire un tentativo che si risolva esclusivamente nella comparizione delle parti (o, peggio, dei soli avvocati delle stesse) dinanzi al mediatore per esprimere il proprio “no” aprioristico ad aprire un tavolo di discussione.

Ciò, evidentemente, finirebbe con lo svilire il concetto stesso di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Pertanto, occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione, ponendosi, altrimenti, un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione.

In sostanza, dunque, non può non sottolinearsi il ruolo fondamentale che il nuovo quadro normativo ha inteso assegnare alla figura del giudice al fine della ricerca di soluzioni conciliative che effettivamente possano rappresentare il massimo vantaggio ottenibile dalle parti in lite.

Da un lato, infatti, il Legislatore ha potenziato detto ruolo  prevedendo per il giudice la possibilità di formulare una proposta conciliativa, fondata – dunque – sulla natura della controversia, sullo stato dell’istruzione e  – last but not least, sul comportamento delle parti; dall’altro ha trasformato la mediazione delegata in uno strumento forte, con il quale il giudice può “spingere” (e non più meramente invitare) le parti ad instaurare la procedura dinanzi ad un organismo territorialmente competente.

Si è visto quale considerazione – fin dal principio – una consistente parte della Magistratura abbia riservato alle nuove potenzialità attribuitele: basti pensare alla possibilità di cumulo dei due istituti, in forza della quale la proposta formulata dal giudice ex art. 185 – bis, ove non accolta dalle parti, potrà comunque rappresentare una valida base di partenza per il successivo tentativo presso l’organismo adito “d’ordine” del giudice stesso.

Lo “sviluppo autonomo” della proposta, dunque.

Ben potrà, infatti, il mediatore, anche sulla base dell’eventuale proposta formulata dal giudice e dei motivi per i quali una delle parti (o entrambe) non abbia ritenuto di accoglierla, estendere la mediazione a profili emersi successivamente alla formulazione della proposta stessa o, comunque, se già esistenti, non entrati nel thema decidendum, superando così il vincolo rappresentato, nel giudizio, dalla corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

D’altra parte, si tratta di aspetti che la giurisprudenza ha sottolineato già in sede di prime esperienze applicative.

Basti pensare a passaggi come “Sotto tale ultimo profilo, vale a dire la possibilità che le parti, assistite dai rispettivi difensori, possano trarre utilità dall’ausilio, nella ricerca di un accordo,  ed anche alla luce della proposta del Giudice, di un mediatore professionale di un organismo che dia garanzie di professionalità e di serietà, è possibile prevedere, anche all’interno dello stesso provvedimento che contiene la proposta del Giudice, un successivo percorso di mediazione demandata dal magistrato” (cfr. Tribunale di Roma, sez. XIII civ., ord. 24 ottobre 2013); o, ancora,  “…i mediatori ben potrebbero estendere la «trattativa (rectius: mediazione)» ai crediti maturati successivamente alla instaurazione dell’odierna lite e non fatti valere in questo processo, così essendo evidente che l’eventuale soluzione conciliativa potrebbe definire il conflitto, nel suo complesso, mentre la sentenza di appello potrebbe definire, tout court, solo una lite, in modo parziale” (cfr. Tribunale di Milano, sez. IX civ., ord. 29 ottobre 2013).

La giurisprudenza ha, allo stato attuale, la chiave (unica?) per la diffusione delle soluzioni alternative delle controversie civili. Non rimane che sperare che i giudici continuino ad applicare, in forma sempre più estesa, gli strumenti che il legislatore, al di là delle critiche “tecniche” ha comunque fornito loro.

Le conseguenze della mancata partecipazione al procedimento di mediazione

Occorre a questo punto soffermarsi su un ulteriore aspetto nel quale il contributo della giurisprudenza può rivelarsi non meno determinante.

Mi riferisco alle conseguenze della mancata partecipazione, senza giustificato motivo, al procedimento di mediazione (ovvero  della partecipazione – escamotage, vale a dire semplicemente finalizzata ad esprimere la “volontà” di non esperire il tentativo).

Come è noto, l’art. 8, ult. co., D.lgs 28/2010 prevede che dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo il giudice possa trarre argomento di prova ai sensi dell’art. 116, co. 2, c.p.c., condannando, altresì, la parte costituita che non abbia partecipato al procedimento di mediazione, sempre senza valide giustificazioni, al versamento di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio.

Il giudice, per l’appunto.

Il mediatore, dal canto suo, dovrà limitarsi a dare atto, nel verbale, della mancata partecipazione. Allo stesso modo il mediatore ben potrà dare atto del mancato svolgimento del tentativo in presenza di entrambe le parti, senza poter entrare nel merito delle eventuali motivazioni rappresentate dalla parte invitata, come agevolmente si può evincere dal disposto degli artt. 9 e 10 D.lgs 28/2010, relativi, come è noto, al “Dovere di riservatezza” e “Inutilizzabilità e segreto professionale”.

Pertanto, in tale seconda ipotesi, il mediatore darà atto nel verbale che la procedura si è avviata, che le comunicazioni sono state ritualmente effettuate e che le parti si sono presentate al primo incontro, senza però che alcun tentativo di mediazione abbia potuto effettivamente svolgersi.

Ora, già da tempo si è affermato in giurisprudenza il principio secondo cui il mancato esperimento del tentativo di mediazione, senza giustificato motivo, oltre beninteso le conseguenze di cui all’art. 8, ult. co., cui si è appena fatto cenno, possa configurare la c.d. responsabilità processuale aggravata, di cui all’art. 96, co. 3, c.p.c., secondo il quale “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Si tratta, come è noto, di una sanzione che tende a punire l’abuso degli strumenti processuali. In altri termini, la condanna inflitta ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c. assume una doppia valenza: da un lato costituisce un risarcimento (coprendo un danno “presunto” della parte) e dall’altro ha la funzione di una vera e propria sanzione (il giudice pronuncia la condanna consapevole degli importanti effetti che essa avrà anche al di là del giudizio in cui la stessa è resa, ossia per sottolineare la disapprovazione per l’utilizzo emulativo dello strumento processuale).

Non può, evidentemente, sfuggire la portata che può avere l’applicazione (sistematica) di detta disposizione alle ipotesi in questione, vale a dire di mancata partecipazione o di “partecipazione  fittizia” al procedimento di mediazione.

A tale proposito, ad esempio, il Tribunale di S.Maria Capua Vetere, con sent. 23 dicembre 2013, ha accolto la richiesta di condanna ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c., ove sia ravvisabile l’elemento soggettivo della mala fede in capo ad una delle parti la quale “…anziché recepire l’invito della controparte che avrebbe potuto condurre ad una soluzione del problema, abbia preferito adire il Tribunale”.

Secondo la pronuncia in esame, infatti, detto comportamento andrebbe ad evidenziare un’ottica conflittuale antitetica alla nuova prospettiva alla quale sembra decisamente orientato il legislatore nell’attuale fase storica, come dimostrato peraltro, dalle reintroduzione dell’obbligatorietà del tentativo di mediazione a seguito del c.d. “decreto del fare” e relativa conversione.

Secondo il giudice, tale nuova prospettiva non può non attribuire al difensore un ruolo fondamentale, prima ancora che nella fase giudiziale, nell’attività di mediazione delle controversie, muovendosi ormai verso una concezione del ricorso al tribunale quale “…extrema ratio per la soluzione della quasi totalità delle controversie civili”.

Né si tratta dell’unica pronuncia che muova da premesse del genere. Tutt’altro.

Anche per il Tribunale di Firenze (sez. III civ., sent. 17 marzo 2014) deve essere accolta la richiesta di condanna ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c. “…qualora si ravvisi l’elemento soggettivo della mala fede in capo alla parte che, anziché recepire l’invito della controparte che avrebbe potuto condurre ad una soluzione del problema, abbia preferito adire il Tribunale. La condanna ex art. 96 cpc può essere infatti legata al comportamento tenuto non solo nella fase prettamente processuale, ma anche in quella della mediazione e, in particolare, al fatto che la parte non si presenti (senza giustificarsi) in mediazione e che abbia poi agito in giudizio pur nella consapevolezza dell’infondatezza delle tesi sostenute”.

Una pronuncia successiva (Trib. Roma, sent. n. 4140/2014), ha altresì condannato ai sensi dell’art. 96 c.p.c. un’assicurazione in considerazione dei comportamenti da questa tenuti, tanto nella fase della mediazione quanto in quella del giudizio.

Osserva in fatti il giudice che detta parte “da un lato, non si era presentata, e senza giustificarsi, nella fase mediatoria; dall’altro, aveva resistito alla domanda attorea “pur nella consapevolezza dell’infondatezza delle tesi sostenute e nel difetto dellanormale diligenza con cui era stata istruita la pratica assicurativa”.

L’applicazione giudiziale della sanzione in parola, estesa dunque ad un momento pre – processuale (ove si tratti di mediazione ex lege) ovvero extra – processuale (ove, invece, si tratti di mediazione delegata dal giudice), può rappresentare, come risulta agevole rilevare, un congruo deterrente alla “desertificazione” e allo “svuotamento” dei procedimenti di mediazione.

Si tratta, pertanto, di un profilo che non può e non deve essere sottovalutato nel momento in cui la parte invitata in mediazione è chiamata ad effettuare le proprie scelte. Pertanto, non potrà non essere compreso tra gli aspetti che l’avvocato, in sede di informazione preventiva all’assistito, dovrà esplicare in modo dettagliato ed esaustivo.

Beninteso, occorre poi chiarire – e qui il contributo giurisprudenziale non può che essere determinante – cosa debba intendersi per “giustificati motivi” che effettivamente legittimino la diserzione del procedimento.

Certamente, non potrà ritenersi giustificata la mancata partecipazione fondata sull’asserita fondatezza della propria tesi (Tizio mi invita in mediazione, ma io, siccome “ho ragione” sono giustificato nel non partecipare al procedimento…).

A tale proposito, il Tribunale di Roma, sez. XIII civ., nella recente sentenza 29 maggio 2014, ha precisato, traslando dalla fattispecie concreta al piano generale dei principi, che in questo modo “…si potrebbe infatti affermare che ogni qualvolta la controparte ritenga erronea la tesi della parte che l’ha convocata in mediazione (come in questo caso), e pertanto inutile la sua partecipazione all’esperimento di mediazione, essa sia validamente dispensata dal comparirvi.

L’esponente non si avvede nell’aporia in cui incorre posto che così ragionando sussisterebbe sempre in ogni causa un giustificato motivo di non comparizione, se è vero com’è vero che se la controparte condividesse la tesi del suo avversario la lite non potrebbe neppure insorgere e se insorta verrebbe subito meno. La ragione d’essere della mediazione si fonda proprio sulla esistenza di un contrasto di opinioni, di vedute, di volontà, di intenti, di interpretazioni etc., che il mediatore esperto tenta di sciogliere favorendo l’avvicinamento delle posizioni delle parti fino alraggiungimento di un accordo amichevole”.

Non può che condividersi.

Resta però da capire quali possano essere motivi tali da giustificare la mancata partecipazione (e non – ovviamente – la richiesta all’organismo di rinviare la data del primo incontro ad es. per malattia o per gravi necessità sopravvenute), dal momento che l’unica, certa ragione legittimante l’assenza, vale a dire l’istanza presentata ad un organismo geograficamente “impossibile”, è stata eliminata in radice con l’introduzione della competenza territoriale ai sensi del novellato art. 4 D.lgs 28/2010.

La cultura della mediazione ed il contributo giurisprudenziale

Alcune considerazioni finali, alla luce di quanto finora analizzato, si impongono.

Che nel nostro paese la cultura della mediazione sia ad uno stadio di sviluppo embrionale è una verità sotto gli occhi di tutti.

D’altra parte il legislatore, dovendo necessariamente perseguire la strada degli interventi drastici, inevitabili nell’attuale situazione della giustizia civile, ha optato (rectius, dovuto optare) per l’obbligatorietà, in una vasta gamma di materie, per garantire il “decollo” dell’istituto e la medesima via ha ribadito a seguito dell’intervento della Corte costituzionale datato autunno 2012.

Al tempo stesso, però, c’è stato il coinvolgimento “formale” dell’Avvocatura e, soprattutto, il potenziamento degli strumenti a disposizione dei giudici per produrre la fuoriuscita delle liti dai giudizi già instaurati.

Si può dunque affermare che, come nella realtà anglosassone, l’avvento di una vera cultura della mediazione in luogo di quella del conflitto che, ad avviso di scrive, tanti danni ha fin qui provocato, sia oggi nelle mani dei giudici.

In particolare, la nuova mediazione delegata dal giudice sembra aprire scenari del tutto innovativi per l’ordinamento giuridico italiano, i cui effetti potranno positivamente riflettersi, se l’istituto sarà assistito dal consolidarsi dei principi finora emersi in giurisprudenza, sugli interessi dei cittadini e delle imprese, che, non dimentichiamolo mai, sono i soggetti quotidianamente esposti ai nefandi effetti della crisi della giustizia civile.

Ciò che emerge dalla più illuminata giurisprudenza è il graduale (ma costante) affermarsi di un nuovo modello di gestione del contenzioso, tale da far emergere gli interessi realmente sottesi a situazioni spesso sedimentatesi nel lungo periodo in luogo delle posizioni, preconcette ed apparentemente immutabili, proprie dell’approccio delle parti  alla vicenda  giudiziale.

Il conflitto può essere gestito solo comprendendone le ragioni più profonde, attraverso uno studio che deve necessariamente muovere da presupposti radicalmente diversi da quelli su cui poggia la cultura tradizionale del conflitto, volti all’obiettivo della creazione di soluzioni conformi, nella misura massima possibile, alla realizzazione dell’interesse di tutte le parti coinvolte nella vicenda  contenziosa.

Valori sociali, dunque, tra cui quello, ormai non più differibile, della deflazione dei carichi della giustizia civile, i cui costi, in termini di competitività del sistema paese, sono ormai a tutti ben noti.

La mediazione delegata, così come strutturata a seguito della conversione del “decreto del fare”, unitamente alla mediazione endoprocedimentale di cui all’art. 185 – bis c.p.c., può veramente rappresentare la chiave per la diffusione di un diverso approccio che consenta, nel tempo, al pubblico di apprezzare in profondità i pregi della soluzione condivisa delle liti, così da fungere da volano per la più piena affermazione della mediazione tout court quale strumento “normale” di risoluzione di numerose tipologie di controversie civili e commerciali.

In tema di mediazione disposta dal giudice e, in particolare, di proposta transattiva e conciliativa formulata dallo stesso, già nell’autunno del 2013 il Tribunale di Fermo (ordinanza 17 ottobre 2013) ebbe modo di formulare quelle che furono opportunamente definite, in dottrina, vere e proprie “linee guida” (cfr. Giovanni Matteucci, Conciliazione endoprocessuale e mediazione delegata: tenetele d’occhio, in www.blogconciliazione.com): “…rilevato che, a seguito dell’ultima novella al c.p.c., sono stati tra l’altro ulteriormente promossi gli istituti finalizzati alla fuoriuscita dal processo, rispetto ai quali, per quello che qui interessa, occorre sottolineare la presenza dei seguenti dati:

1) riconoscimento ope legis a tutti gli avvocati dell’idoneità ad essere mediatori, riconoscimento il quale, seppure specificamente previsto con riferimento alla legge speciale sulla cosiddetta media-conciliazione, non può non essere preso come caratteristica della stessa professione di avvocato

2) riconoscimento al giudice di un forte potere-dovere conciliativo (o “transattivo”), già anticipato, peraltro, da questo stesso giudice in via d’interpretazione sistematica della pregressa normativa

3) libertà/informalità della metodologia con la quale si svolge il tentativo di composizione, con l’unico limite del coinvolgimento paritario delle parti

4) tendenziale ricaduta sul regime delle spese in caso di proposta conciliativa fallita.

Considerato che, se questi sono i punti salienti che individuano il nuovo assetto delle possibilità di conciliazione/transazione, ne discende la necessità, più che la possibilità, di iniziare sistematicamente una composizione secondo le seguenti direttive:

a) responsabilizzazione dei difensori che, sia pure su impulso ed indirizzo del giudice, si vedono investiti di una proposta che possono gestire ulteriormente con i loro assistiti , ai fini di una composizione;

b) necessità di attivare programmi sistematici di fuoriuscita dal processo nelle controversie di modesto valore, inferiore ad euro 10.000, salvo casi particolari da individuare con criteri predeterminati;

c) necessità che non si protragga un contenzioso praticamente inutile in quanto in tutto o in parte si tratta di questioni ‘seriali’ su cui il giudice si è già pronunciato, magari con sentenze “pilota” (es., rapporti bancari in materia di anatocismo)”.

Se i giudici mostreranno di ispirarsi ad una logica siffatta anche nel prossimo futuro, come sembra probabile alla luce degli sviluppi che si sono in precedenza evidenziati, ciò rappresenterà molto probabilmente uno dei contributi più rilevanti in vista della costruzione e dello sviluppo, nel nostro paese, di un sistema di giustizia civile più efficiente e più rispondente alle concrete (e sempre più pressanti) istanze dei cittadini e del mondo produttivo.

In una parola, l’obiettivo – ormai indifferibile – è quello di una giustizia civile più giusta. L’occasione, occorre conclusivamente ribadirlo, è di quelle da non perdere: i rimpianti, in caso contrario, sarebbero davvero troppi.