AVVIA UNA MEDIAZIONE: PER AVVIARE UN PROCEDIMENTO OCCORRE PRESENTARE UNA SPECIFICA ISTANZA.

AVVIA UNA MEDIAZIONE

mediazione obbligatoria

L’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo n. 28/2010, che ha subito importanti modifiche da parte della riforma Cartabia, prevede le materie per le quali, chi intende avviare una causa, deve prima esperire la procedura di mediazione, tra le quali troviamo espressamente elencate “le liti relative a condominio”. Il successivo comma 2 del medesimo articolo 5 prevede l’obbligo di esperire in via preventiva la mediazione, in quanto condizione di procedibilità della domanda giudiziale, quando la controversia sorge in una delle materie indicate nel precedente comma 1. In forza del disposto dell’art.71-quater, comma 1, disp. att. c.c. - che individua l’ambito di applicabilità della condizione di procedibilità in materia condominiale, specificando che, per controversie in materia di condominio, ai sensi dell’articolo 5, 1 comma, del d.l. 4 marzo 2010, n. 28, si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall’errata applicazione delle disposizioni del libro III, titolo VII, capo II, del codice civile (e cioè dall’art. 1117 all’art. 1139 c.c.) e degli articoli da 61 a 72 delle disposizioni per l’attuazione del codice civile – è indubbio che una controversia relativa all’impugnazione di una delibera assembleare debba essere oggetto di mediazione obbligatoria, rientrando a tutti gli effetti nella materia condominiale. Ma quali devono essere i contenuti essenziali della domanda di mediazione affinchè si possa affermare che è stata soddisfatta la condizione di procedibilità della domanda giudiziale? Il Tribunale di Roma, con la recente sentenza n. 3910 del 29/02/2024 (conforme Tribunale di Foggia, sentenza del 01.10.2020), ha affrontato proprio il suddetto argomento, fornendo altresì le necessarie indicazioni da inserire nell'istanza di mediazione in caso di impugnazione di una delibera assembleare. Il caso concreto da cui trae origine la sentenza in esame è il seguente: un condomino intendeva impugnare una delibera assembleare, depositava quindi l’istanza di mediazione, chiedendo la convocazione del Condominio, ma motivando semplicemente la domanda con una sola indicazione:

“Impugnazione delibera assembleare del ….”

La mediazione aveva esito negativo e il Condomino evocava quindi in giudizio il condominio, producendo il verbale di mediazione e illustrando - soltanto nella domanda giudiziale - i motivi per i quali chiedeva al Tribunale di accertare e dichiarare la nullità e/o l’annullabilità e/o, comunque, l’illegittimità e l’invalidità della delibera suddetta. Il condominio convenuto si costituiva in giudizio, impugnando e contestando le deduzioni attoree ed eccependo, in via preliminare, l’improcedibilità della domanda e la conseguente tardività della impugnazione. Il convenuto eccepiva che l’attore aveva attivato la mediazione, chiedendo genericamente l’impugnazione della delibera, senza tuttavia specificare i motivi di impugnazione e i vizi della delibera, rendendo di fatto non assolta la condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 del D.Lgs. n. 28/2010 e, di conseguenza, tardiva l’impugnazione. La difesa del convenuto sosteneva infatti che l’istanza di mediazione fosse priva dei requisiti minimi per la sua validità, in spregio a quanto indicato dall’art. 4, comma 2, del D.Lgs. n. 28/2010 che specifica come la domanda di mediazione deve indicare “…..l’oggetto e le ragioni della pretesa”. Il Tribunale di Roma, con la precitata sentenza, accoglieva la tesi difensiva del convenuto e dichiarava quindi improcedibile l’impugnazione della delibera, per i seguenti motivi:
  •  Vista la ratio deflattiva della mediazione, l’istanza con la quale si intende impugnare una delibera assembleare deve necessariamente avere un contenuto minimo che è quello indicato dall’art. 4, comma 2, del D.Lgs. n. 28/2010, che poi è in sostanza equivalente al dettato dell’art. 125 c.p.c, relativo al contenuto degli atti processuali (esclusi solo gli “elementi di diritto”).
  •  Se manca, come nel caso di specie, qualsiasi riferimento ai singoli motivi di impugnazione della delibera (che costituiscono, fra l'altro, ciascuno autonoma causa petendi) o ancora al petitum, si impedisce alla parte chiamata non solo di conoscere la materia del futuro giudizio, ma anche di partecipare con cognizione di causa al procedimento di mediazione.
  •  Nel caso di specie, la mancata indicazione degli elementi essenziali dell'istanza aveva altresì impedito ai Condomini di valutare in assemblea l'opportunità o meno di autorizzare l'amministratore a prendere parte a tale procedimento, sostenendone i relativi costi (la mediazione si era svolta prima dell’entrata in vigore della Riforma Cartabia).
  • Una domanda di mediazione generica sotto il profilo del petitum e della causa petendi non può quindi considerarsi validamente espletata e comporta l'improcedibilità della domanda.
Il Tribunale di Roma non ha ritenuto condivisibili le difese dell'attore, il quale riteneva che l'istanza così formulata - per quanto generica - sarebbe stata comunque sufficiente a consentire la partecipazione del Condominio convenuto, che avrebbe pur sempre potuto chiedere maggiori delucidazioni nel corso del primo incontro. Ne consegue che l'improcedibilità della domanda giudiziale, dichiarata dal Tribunale, ha comportato la definitiva inammissibilità dell'impugnazione della delibera assembleare per intervenuta decadenza; infatti, l'effetto interruttivo del termine, prodotto dall'instaurazione del procedimento di mediazione, non può dirsi realizzato in presenza di un'istanza generica e di un procedimento svolto in modo irregolare. Ma vi è di più. Secondo il Tribunale romano, se è vero che per la mediazione ante causam è sempre possibile sanare l'improcedibilità potendo il giudice demandare un nuovo esperimento della mediazione e - solo in caso di mancato esperimento della nuova mediazione - pronunciare l'improcedibilità della domanda, tuttavia, nel caso di impugnazione di delibera condominiale, l'istanza di mediazione ha anche una sua specifica ed ulteriore finalità, che è quella di impedire la decadenza dalla domanda giudiziale prevista espressamente dal codice civile (cfr. art. 1137 c.c. e art. 8 d.lgs. n. 28/2010). Secondo l’orientamento del giudice di merito, infatti, consentire ad un soggetto di avvalersi del beneficio dell'interruzione dei termini di decadenza con la mera presentazione di un’istanza che non presenti i requisiti minimi di validità, significherebbe infatti vanificare l'istituto della mediazione, relegandolo ad un mero adempimento burocratico, in contrasto con la ratio ad esso sottesa ed incentivare il suo uso meramente dilatorio, a beneficio di un'unica parte (nel caso di specie, la parte che impugna la delibera assembleare). Una domanda di mediazione generica sotto il profilo del petitum e della causa petendi non può quindi considerarsi validamente espletata e comporta l'improcedibilità della domanda di mediazione depositata. Oltretutto, osserva ancora il Giudice romano, nella specie, non si è neppure trattato di semplice asimmetria tra quanto ha costituito oggetto e titolo dell'istanza di mediazione e quanto rappresentato dall'attore nel successivo giudizio in tribunale, quanto piuttosto della totale assenza nell'istanza di mediazione degli elementi di fatto oggetto della pretesa dell'attore che non hanno consentito il corretto svolgimento della mediazione. Da ultimo, il Giudice di merito ricorda che - come previsto espressamente dall’art. 4, comma 2, del D.Lgs. n. 28/2010 - l'istanza di mediazione, al pari degli atti processuali, per essere considerata valida ed efficace, deve necessariamente indicare:
  • la delibera che si intende impugnare;
  • l’enunciazione del provvedimento (nullità o annullabilità) che s'intende richiedere al giudice in caso di fallimento della conciliazione;
  • la sintetica indicazione dei motivi di impugnazione (causa petendi).
E ancora, il Tribunale di Roma osserva come la mediazione abbia un'indubbia valenza deflattiva e che, di conseguenza, l'istanza con la quale si intende impugnare il deliberato deve necessariamente avere il contenuto minimo indicato dalla predetta norma (art. 4, comma 2, del D.Lgs. n. 28/2010) proprio per consentire alla controparte, chiamata in mediazione, di conoscere la materia del futuro contendere e di prendere posizione su di essa già nel corso della procedura mediante le opportune difese. In conclusione, tale contenuto minimo risponde proprio all'esigenza di rendere fattiva la soluzione alternativa e/o conciliativa della controversia in mediazione, anche e solo nell'intento di provocare una contrazione del thema decidendum nella successiva fase processuale (ad es. su questioni superate in relazione alle difese svolte).

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Sin dall’originario testo del D.lgs 28/2010, la materia condominiale rientra nell’alveo in cui la mediazione si pone come condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Si tratta, dunque, delle controversie derivanti dalla violazione o dalla errata applicazione delle disposizioni riguardanti il condominio, vale a dire Libro II, Titolo VII, Capo II del codice civile (vale a dire artt. 1117-1139) e degli articoli da 61 a 72 delle disp. att. c. c. Posto che l’obbligatorietà del tentativo di mediazione deve considerarsi estesa anche al c.d. condominio minimo, al c.d. condominio orizzontale e al supercondominio, tra le controversie in materia condominiale rientrano, in via non esaustiva, quelle relative alle parti comuni ed alla destinazione d’uso di esse, quelle – frequentissime – inerenti l'impugnazione delle delibere condominiali (art. 1137 c.c.), quelle relative all’amministratore ex artt. 1129-1133 c.c., le controversie riguardanti il regolamento di condominio, etc. A tutti gli effetti “condominiali” – e quindi assoggettate alla condizione di procedibilità rappresentata dalla mediazione – devono poi essere considerate le controversie in materia di riscossione dei contributi condominiali (art. 63 disp. att. c.c.), nonché quelle relative all’amministratore, di cui agli artt. 66 e 67 disp. att. cc., oltre a quelle concernenti le tabelle millesimali (artt. 68 e 69, disp. att. c.c.) ed i regolamenti di condominio (artt. 70 e 72, disp. att. c.c.), come anche le controversie in materia di scioglimento de condominio di cui agli artt. 61 e 62 delle medesime disp. att. c.c. Diversa la situazione, invece, per quanto concerne la tematica della revoca dell’amministratore. A tale proposito va rilevato che è ben vero che, come in precedenza già osservato, nel novero delle controversie in materia condominiale rientrino anche quelle ricomprese negli articoli 61 a 72 delle disp. att. c.c., tra le quali, pertanto, anche l’art. 64 (revoca dell’amministratore), ma è altresì vero che l’art. 5, co. 6, lett. f), D.lgs 28/2010, esclude l’applicabilità della norma di cui al comma 1 dello stesso articolo nell’ipotesi (come quella in esame) dei procedimenti in camera di consiglio. Detta inapplicabilità si giustifica, secondo la giurisprudenza ormai largamente prevalente, con il carattere eccezionale ed urgente dell’azione in parola, ispirato dall’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela della corretta gestione dell’amministrazione condominiale; peraltro, tali argomentazioni trovano riscontro, dal punto di vista esegetico, dalla significativa elencazione di cui al citato art. 5, co. 6, D.lgs 28/2010, di tutti i procedimenti logicamente collegati dalle caratteristiche di celerità, informalità e semplicità, oltre che dalla definibilità degli stessi con provvedimenti non aventi il carattere della definitività e decisorietà (senza omettere la considerazione in ordine alla circostanza che il precedente comma quinto ha riguardo ai provvedimenti cautelari ed urgenti). Con riferimento all'opposizione a decreto ingiuntivo, occorre oggi tenere ben presente la previsione di cui all’art. 5 – bis, D.lgs 28/2020, introdotto dalla c.d. riforma Cartabia, secondo il quale, accedendo alla ormai consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. SS.UU. sent. n. 19596 del 18 settembre 2020), il ricorrente opposto, formalmente convenuto nel relativo giudizio, deve considerarsi attore sotto il profilo sostanziale, mentre l’opponente, che formalmente ha agito, sempre sotto il profilo sostanziale deve ritenersi convenuto. Pertanto l’opposto, titolare della pretesa sostanziale azionata, divenuta oggetto del giudizio di opposizione, ha l’onere di promuovere il tentativo di mediazione, subendo, in mancanza, la declaratoria di improcedibilità della domanda, con conseguente venir meno della pretesa sostanziale proposta in via monitoria. Ora con riferimento specifico all’ambito condominiale, si pensi all’ipotesi più frequente: l’amministratore del condominio, ai sensi dell’art. 1131 c.c., è il soggetto legittimato ad agire in giudizio, senza preventiva autorizzazione dell'assemblea condominiale, per riscuotere i contributi dovuti in base allo stato di riparto approvato dall'assemblea. Può, pertanto, ottenere dal giudice un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo ex lege, secondo il disposto dell’art. 63, co. 1, disp. att. cod. civ.). Incomberà dunque sul condominio l’onere di attivazione del tentativo di mediazione una volta che il giudice, nel giudizio di opposizione, abbia pronunciato sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione, ai sensi degli artt. 648 e 649 c.p.c. Ove il Condominio non si attivasse in tal senso, il decreto ingiuntivo, stante il mancato esperimento del tentativo conciliativo, dovrebbe essere revocato a causa del non avveramento della condizione di procedibilità della domanda, che, nell’ipotesi di pretesa fatta valere con ricorso per decreto ingiuntivo, è differita, come si è già accennato in precedenza, alla fase dell’opposizione in cui il giudice ha pronunciato sulla concessione o sospensione della provvisoria esecuzione. Sotto il profilo prettamente procedimentale, occorre sottolineare come una delle più rilevanti innovazioni apportate dalla c.d. “riforma Cartabia” alla disciplina della mediazione civile, ed in particolare a quella relativa alla materia condominiale, è certamente rappresentata dall’introduzione, da parte dell’art. 2, co. 2, D. Lgs. 149/2022, dell’art. 5- ter, D.lgs 28/2010, a tenore del quale “L’amministratore del condominio è legittimato ad attivare un procedimento di mediazione, ad aderirvi e a parteciparvi. Il verbale contenente l’accordo di conciliazione o la proposta conciliativa del mediatore sono sottoposti all’approvazione dell’assemblea condominiale, la quale delibera entro il termine fissato nell’accordo o nella proposta con le maggioranze previste dall’articolo 1136 del codice civile. In caso di mancata approvazione entro tale termine la conciliazione si intende non conclusa”. Come è noto, anteriormente alla suddetta riforma, l’art. 71 - quater disp. att. c.c. prevedeva che l’Amministratore di condominio fosse legittimato alla partecipazione ad un procedimento di mediazione solo in presenza di autorizzazione assembleare, con espresso richiamo alla maggioranza di cui all’art. 1136, comma 2, c.c. I condomini dovevano, quindi, conferire all’amministratore il potere negoziale di rappresentare il condominio coinvolto nella controversia. Si ponevano, dunque, frequenti problematiche inerenti alle tempistiche necessarie ai fini della convocazione dell’assemblea condominiale, dal omento che il primo incontro di mediazione doveva essere fissato entro 30 giorni dalla data di deposito dell’istanza (tanto che l’art. 71-quater, co. 4, disp. att. c. c., prevedeva che “Se i termini di comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere la delibera di cui al terzo comma, il mediatore dispone, su istanza del condominio, idonea proroga della prima comparizione”. Con il nuovo art. 5 – ter, D.lgs 28/2010, si ha dunque una nuova legittimazione processuale – di origine legale – in capo all’amministratore del condominio per quanto concerne la partecipazione alla mediazione. In altri termini, pertanto, l’amministratore non è più condizionato nella partecipazione al procedimento di mediazione dal previo ottenimento di una delibera autorizzativa, ma, come si è visto, è legittimato ad attivare, aderire e partecipare alla mediazione dalla legge. Certamente, la disposizione in parola mira a garantire maggiore velocità e impulso alle procedure di mediazione in materia condominiale, come detto spesso “rallentate” spesso bloccate dalle difficoltà di convocazione assembleare. Tuttavia, con l’entrata in vigore della riforma, immediatamente sono emersi profili di criticità sui quali appare opportuno sia pur brevemente soffermarsi, fermo restando – giova chiarirlo sin d’ora – che l’amministratore “è legittimato” a partecipare al procedimento senza delibera autorizzativa, ma ben potrà comunque optare, come prassi in molti casi mostra, qualora lo ritenga opportuno, per la convocazione del consesso condominiale, al fine di munirsi in ogni caso di delibera autorizzativa. In effetti, dato il tenore della disposizione in commento, l’amministratore potrebbe svolgere l’intero procedimento di mediazione all’insaputa dei condomini, convocando l’assemblea solo al fine di sottoporle “… l’accordo di conciliazione (rectius: l’ipotesi di accordo) o la proposta conciliativa del mediatore (…)”, senza considerare che – trattandosi di mediazione “obbligatoria” – il condominio dovrà necessariamente, ai sensi dell’art. 8, co. 5, D.lgs 28/2010, essere assistito da un avvocato. Il che, obiettivamente, sembra contrastare con il principio per il quale nel condominio "…l'organo principale depositario del potere decisionale è l'assemblea dei condomini", costituendo "…prima e fondamentale competenza" dell’amministratore “…quella di "eseguire le deliberazioni dell'assemblea dei condomini" (Cfr. Corte di Cassazione, SS.UU. sentenza n. 18331/2010). A ciò deve aggiungersi la competenza specifica attribuita dall’art. 1131, co. 3, c.c. all'assemblea in ordine alla decisione di partecipare alle liti e passive qualora l’oggetto delle stesse esorbiti dalle attribuzioni dell'amministratore. Né il tenore letterale dell’art. 5 – ter, D.lgs 28/2010, sembra consentire una lettura restrittiva dello stesso nel senso di ritenere che la previsione normativa rilevi esclusivamente nell’ipotesi in cui la mediazione abbia un oggetto rientrante nelle attribuzioni dell'amministratore stesso, ex art. 1130 c.c. Altro profilo critico della mediazione in materia condominiale che non può essere sottaciuto è quello relativo alla decadenza, con riferimento al disposto di cui all’art. 1137, co. 2, c.c., secondo cui “Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominioogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adirel'autorità giudiziaria chiedendone l'annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti”. Ora, prima della riforma, l’art. 5, co. 6, D.lgs 28/2010 prevedeva che "Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all'articolo 11 presso la segreteria dell'organismo". La situazione era dunque chiara: esemplificando, il condomino che avesse ritenuto una delibera assembleare viziata ed annullabile, era tenuto, ex art. 1137 c.c., ad impugnarla entro trenta giorni. Quindi, con il deposito dell’istanza di mediazione, si interrompevano i termini di cui all'art. 1137 c.c., previsti a pena di decadenza dall'azione giudiziaria e, in caso di conclusione del procedimento di mediazione con esito negativo, dal deposito del verbale decorrevano di nuovo i predetti trenta giorni per la proposizione della domanda giudiziale. Sennonché, il nuovo art. 8, co. 2, D.lgs 28/2010 dispone che "Dal momento in cui la comunicazione di cui al comma 1 (cioè la comunicazione della domanda, del mediatore, del luogo ed ora dell’incontro, delle modalità dello stesso) perviene a conoscenza delle parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale e impedisce la decadenza per una sola volta", avendo tuttavia omesso il legislatore (dimenticanza?) la parte, come si è visto originariamente presente nell'art. 5, co 6, in cui si prevedeva che "se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all'articolo 11 presso la segreteria dell'organismo". Interpretando letteralmente la nuova normativa, il risultato condurrebbe all’assurdo: infatti, il termine di giorni 30 previsto dall'art. 1137 c.c. per impugnare una delibera assembleare che si assuma viziata da annullabilità, decorrerà non più dal deposito del verbale negativo (come prevedeva espressamente, giova ribadirlo, il precedente art. 5, co. 6) ma dal "momento in cui la comunicazione di cui al comma 1 perviene a conoscenza delle parti" (nuovo art. 8, co. 2), con conseguenze fin troppo evidenti. Il paradosso è confermato dal fatto che, ai sensi dell’art. 8, co. 1, D.lgs 28/2010, nel testo oggi in vigore, il primo incontro tra le parti deve tenersi "non prima di venti e non oltre quaranta giorni dal deposito della domanda". Quindi il termine decadenziale per l’azione giudiziale potrebbe spirare non solo a mediazione in corso ma addirittura prima ancora dello svolgimento del primo incontro di mediazione. In sostanza, il legislatore, intenzionato a perseguire un virtuoso intento deflattivo, “costringerebbe” ad intraprendere la via giudiziale, per non decadere, a mediazione in corso. Non è ragionevole pensare che il legislatore volesse questo, dal momento che la mediazione non potrebbe svolgere la funzione per la quale, esplicitamente, è stata introdotta. Naturalmente, in presenza di pronunce di impronta apoditticamente letterale e, quindi, restrittiva, appare quanto mai urgente un intervento l, sottolineando l’assurdità dell’effetto venutosi a determinare, consenta di continuare ad individuare il dies a quo per il decorso del termine di decadenza nel giorno in cui avviene il deposito del verbale negativo presso la segreteria dell’Organismo di mediazione.

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La L. 55/2006 ha introdotto nell’ordinamento italiano i “patti di famiglia”, istituto che consente al titolare dell’impresa di anticipare il trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni sociali ai discendenti (o al singolo discendente) che diano più ampie garanzie di adeguatezza con riferimento alla gestione dell'impresa o comunque che siano maggiormente interessati alla stessa. L’art. 768 – bis, c.c., qualifica il patto di famiglia come “…il contrattocon cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti”. La ratio, chiaramente, è quella di garantire (in deroga, sia pur parziale, al divieto di patti successori, come si vedrà infra), la continuità nella gestione dell'azienda o della partecipazione sociale, al fine di evitare i pregiudizi al loro valore ed alla loro consistenza che deriverebbero da un eventuale frazionamento ed in particolare dall’insorgere di controversie di natura ereditaria. Il contratto, a pena di nullità, deve essere concluso per atto pubblico (art. 768 – ter, c.c.). Devono necessariamente partecipare al contratto, secondo quanto disposto dall’art. 768 - quater, co. 1, c.c., non solo il disponente e beneficiario, ma anche “…il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore”. Il co. 2 della medesima disposizione prevede altresì che gli assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni societarie saranno tenuti a “liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti”; i contraenti potranno tuttavia convenire che la liquidazione, in toto o in parte qua, avvenga in natura. Lo stesso art. 768 – quater, nel co. 3, dispone che “I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell'azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti”; si contempla peraltro espressamente la possibilità che l'assegnazione sia disposta “…anche con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti”. Infine, il co. 4 della disposizione in parola prevede che quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione. Ora, sulla base delle disposizioni che precedono, possiamo affermare che il patto di famiglia costituisce un contratto plurilaterale inter vivos ad effetti reali, a titolo gratuito, attraverso il quale, pertanto, il titolare di una azienda od il titolare di quote sociali, vale a dire il disponente, trasferisce a uno o più dei suoi eredi (assegnatari o beneficiari) la proprietà di una parte dei propri beni destinati a cadere in successione (ossia l’azienda ovvero quote di partecipazione in società). Con l’istituto in esame, quindi, parte dei beni destinati a cadere in successione risultano sottratti alla devoluzione ereditaria, beninteso a condizione che sia stato prestato il consenso dei legittimari. Il che, evidentemente, è funzionale alla continuità dell’impresa, che viene ad essere garantita in ordine alle vicende successorie conseguenti alla morte del disponente, con contestuale contemperamento, per l’appunto, dei diritti dei legittimari. Come già accennato in precedenza, i patti di famiglia rappresentano una deroga espressa al divieto di patti successori, di cui all’art. 458 c.c. (“Fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768 bis e seguenti, è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. È del pari nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi”). Ma non solo. Dal dettato normativo richiamato, emerge come i patti di famiglia costituiscano altresì un’eccezione all’azione di riduzione di cui all’art. 533 c.c. (“L'eredepuò chiedere il riconoscimento della sua qualità ereditaria contro chiunque possiede tutti o parte dei beni ereditaria titolo di erede o senza titolo alcuno, allo scopo di ottenere la restituzione dei beni medesimi”) nonché alle normali regole in materia di collazione di cui all’art. 737 c.c. (“I figlie i loro discendentied il coniuge che concorrono alla successione devono conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente salvo che il defunto non li abbia da ciò dispensati. La dispensa da collazione non produce effetto se non nei limiti della quota disponibile”). A norma dell’art 768 – sexies, c.c. all'apertura della successione del disponente, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dall’art. 768-quater, co. 2, aumentata degli interessi legali. L'inosservanza delle predette regole costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell'articolo 768-quinquies, c.c., secondo il quale il patto può essere impugnato da tutti i partecipanti, quindi non esclusivamente il coniuge o i legittimari bensì anche l’imprenditore o gli assegnatari, nel termine di prescrizione di un anno, ai sensi degli artt. 1427 e ss. c.c., vale a dire laddove il contratto sia stato stipulato in presenza di un vizio del consenso del disponente, ovvero in caso di errore da parte dello stesso o ancora nell’ipotesi di costrizione alla sottoscrizione mediante violenza o inganno. A norma dell’art. 768 – septies, c.c., il contratto di patto di famiglia può essere sciolto o modificato dalle stesse persone che lo hanno concluso attraverso due distinte modalità. Innanzitutto, “…mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo”; occorrerà pertanto la necessaria partecipazione di coloro che eventualmente abbiano partecipato al patto anche successivamente alla stipula dello stesso e gli adempimenti pubblicitari cui dovrà provvedersi dovranno essere i medesimi. Inoltre, “…mediante recesso, se espressamente previsto nel contratto stesso e, necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio”. Il contratto, pertanto, dovrà disciplinare le modalità del recesso e potrà altresì prevedere detta facoltà in favore di tutti i partecipanti al patto. Naturalmente, se ad esercitare il recesso sarà l’imprenditore disponente (ovvero l’assegnatario), l’azienda o le partecipazioni societarie rientreranno nel suo patrimonio, con conseguente scioglimento del contratto. Se invece il recesso sarà posto in essere da un legittimario non assegnatario, il contratto non andrà a sciogliersi, insorgendo però in capo al recedente l’obbligo di restituzione della somma liquidata in proprio favore ai sensi dell’art. 768 – quater, co. 2, equivalente cioè alla sua quota di legittima ed agli interessi maturati. Ora, nell’ipotesi in cui insorgano controversie in materia di patti di famiglia, ai sensi dell’art. 5, co. 1, D.lgs 28/2010 prima di avviare l’eventuale azione giudiziaria si dovrà necessariamente instaurare un procedimento di mediazione, dal momento che si tratta di materia inserita dal legislatore nel novero di quelle in ordine alle quali la mediazione si pone quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Pertanto, sarà necessario – con l’assistenza dell’avvocato – depositare una domanda di mediazione presso un organismo territorialmente competente, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 4, D.lgs 28/2010. Il predetto regime non deve stupire: è ben noto come assai di frequente l’impresa possa rappresentare, per chi ne sia stato promotore, un valore non solo economico, bensì anche affettivo. Spesso, perciò, per chi abbia avviato e coltivato un’attività imprenditoriale, la continuità della stessa nell’ambito familiare rappresenta un vero e proprio bisogno primario. Naturalmente, però, non tutti i discendenti potrebbero essere nella stessa misura interessati ad un progetto siffatto, stanti le diverse priorità ed i diversi progetti di vita. I patti di famiglia, dunque, si propongono di far sì che i successibili disinteressati alla conduzione dell’impresa possano evitare di preoccuparsene e che, per converso, la conduzione stessa sia lasciata agli eredi aventi l’interesse e le capacità adeguate. Laddove quindi in una materia come quella dei patti di famiglia, caratterizzata da una così rilevante compenetrazione tra interessi economici e di altra natura (familiari, affettivi, emotivi, etc.), finiscano con l’insorgere controversie, la mediazione sembra rappresentare effettivamente uno strumento atto al recupero del dialogo, alla conservazione dei rapporti e soprattutto a favorire l’emersione dei reali bisogni di tutti i soggetti coinvolti i quali, essendo i reali protagonista della negoziazione, avranno in molti casi la possibilità di pervenire ad un contemperamento di interessi il più possibile  satisfattorio, anche nell’interesse della continuità aziendale. Si comprendono, pertanto, sulla base delle considerazioni che precedono ed in virtù della presenza attiva di un soggetto terzo ed imparziale quale il mediatore, le ragioni per cui il legislatore abbia inteso considerare la mediazione in materia di patti di famiglia quale strumento conciliativo maggiormente adeguato alle prevedibili caratteristiche della lite insorta o insorgenda.

Luigi Majoli

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Il concetto di responsabilità medica e sanitaria riguarda la responsabilità degli operatori nel campo della salute (medici, infermieri, etc.) con riferimento agli errori ed alle negligenze poste in essere dagli stessi nello svolgimento delle rispettive attività professionali o, più in generale, al complesso di situazioni in cui il professionista provoca dei danni o lesioni al paziente a causa del mancato rispetto delle regole della scienza medica (c.d. malasanità). Si tratta di una responsabilità che può essere addirittura di natura penale, nell’ipotesi di commissione di un reato da parte del professionista sanitario (si pensi, ad esempio, all’omicidio colposo ovvero alle lesioni personali colpose) La responsabilità medica e sanitaria civile, cui precipuamente si rivolgono le presenti brevi note, è invece relativa al diritto riconosciuto al paziente di richiedere il risarcimento dei danni subiti a causa dell’errore nel trattamento sanitario o della mancata adozione di tutti gli accorgimenti necessari al fine di garantire la più idonea assistenza al paziente stesso. In effetti, la responsabilità medica e sanitaria va collocata all’interno del più ampio ambito della responsabilità professionale di cui all’art. 2236 c.c., secondo cui “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”, con esclusione, pertanto, di responsabilità per “colpa lieve” del prestatore d’opera intellettuale. Come è noto, l’art. 1176, co. 2, c.c., prevede che “Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata” (c.d. diligenza qualificata), non risultando sufficiente la normale diligenza del buon padre di famiglia di cui al co. 1 della medesima disposizione. Si tratta, dunque, di una forma di diligenza cui deve necessariamente correlarsi la nozione di perizia, vale a dire la conoscenza e la corretta applicazione del complesso di regole tecniche proprie della singola categoria professionale di volta in volta considerata, con conseguente configurarsi di responsabilità ogni qualvolta risulti acclarata l’inosservanza e/o la violazione delle predette regole di condotta. Ciò premesso, con specifico riguardo all’attività medica, va innanzitutto distinta la responsabilità gravante sulla struttura sanitaria da quella incombente sul singolo operatore cui sia attribuibile in concreto la condotta colposa cagione di danno in capo al paziente. Con riferimento alla responsabilità della struttura sanitaria, tradizionalmente tanto la dottrina quanto la giurisprudenza la riconducono all’ambito della responsabilità contrattuale, dal momento che l’accettazione del paziente in ospedale (indagini strumentali, visita ambulatoriale, ricovero etc.) implica la conclusione di un contratto (atipico) di spedalità, in forza delle obbligazioni nascenti dal quale la struttura sarà chiamata a rispondere in via diretta per quanto concerne le inefficienze sotto il profilo organizzativa (si pensi ad es. al difettoso funzionamento di un apparecchio), vale a dire per gli obblighi accessori correlati alla prestazione sanitaria vera e propria, ed in via indiretta, per quanto riguarda il profilo medico stricto sensu inteso, vale a dire per il fatto commesso dagli ausiliari, ai sensi dell’art. 1228 c.c. (“…il debitore che nell'adempimento dell'obbligazione si vale dell'opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro)”. Per quanto concerne la responsabilità del sanitario, ove la stessa insorga in forza di un contratto d’opera professionale direttamente stipulato con il paziente non potrà sussistere alcun dubbio in ordine alla sua natura contrattuale; laddove invece gli obblighi del sanitario conseguano al rapporto di lavoro intercorrente tra il medesimo e la struttura, appare con evidenza la differenza tra profilo formale del contratto (concluso tra struttura e paziente) e profilo sostanziale, con responsabilità del soggetto che in concreto è chiamato ad eseguire la prestazione. La Corte di Cassazione (sent. n. 589/1999) ha ricompreso la responsabilità del medico nell’ambito dell’attività prestata presso la struttura sanitaria nell’alveo della responsabilità contrattuale, tanto nel caso di sussistenza di un pregresso contratto tra medico e paziente quanto nel caso di carenza dello stesso. Si è elaborato, dunque, il profilo della responsabilità da contatto sociale qualificato, derivante cioè dal fatto che dal momento dell’accettazione del paziente presso la struttura e dalla presa in carico da parte del sanitario, nasce in capo a quest’ultimo il dovere di eseguire la prestazione con diligenza e correttezza e – parallelamente – in capo al paziente un legittimo affidamento nell’operato del professionista. In estrema sintesi: dal momento che sull’operatore gravano gli obblighi derivanti dalle regole tecniche proprie dell’attività che svolge, la violazione o la non corretta applicazione delle stesse determina un non facere, che come tale va ad integrare responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. Con conseguenze rilevantissime sotto il profilo dell’onere della prova, che risulterà semplificato, dovendo il paziente che asserisca di aver subito un danno semplicemente allegare – nel rispetto del termine di prescrizione decennale –  l’inadempimento del medico; sotto il profilo della prova liberatoria, vigeva, fino al 2001, un regime probatorio differenziato in funzione del grado di complessità dell’attività medica. In termini schematici: in caso di attività routinaria o comunque di non complessa esecuzione con esiti negativi, da parte del paziente si richiedeva unicamente di provare la semplicità di essa e ciò malgrado gli effetti negativi dalla medesima scaturiti (in sostanza: presunzione di negligente adempimento della prestazione), mentre stava alla difesa del sanitario dimostrare che l’esito negativo fosse da attribuirsi a causa imprevista o imprevedibile o comunque al professionista non imputabile. Nell’ipotesi invece di attività caratterizzata da particolare complessità, non potendo ovviamente operare la predetta presunzione, era sufficiente all’operatore dedurre tale circostanza, incombendo sul paziente l’onere di dimostrare che l’esito negativo fosse da attribuirsi al concreto operare del professionista. Tale “scissione” relativa all’ambito probatorio e fondata, come detto, sulla “semplicità” ovvero “complessità” dell’attività di volta in volta considerata viene tuttavia meno con la sent. n. 13533/2001 delle SS. UU. della Corte di Cassazione, con la quale si statuisce la valenza della distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione particolarmente complessa ai soli fini della valutazione del grado di diligenza richiesto e del corrispondente grado di colpa, con la conseguenza che il paziente, agendo in sede giudiziale, dovrà semplicemente allegare il contratto e l’inadempimento, incombendo sul sanitario convenuto la prova liberatoria dell’esatto adempimento ovvero dell’inadempimento dovuto a causa allo stesso non imputabile. Con la L. 24/2017 (c.d. legge “Gelli-Bianco) si è avuta una revisione complessiva delle tematiche relative alla responsabilità derivante dall’esercizio dell’attività medica e sanitaria. In particolare, l’art. 7 della legge in parola ha provveduto da un lato a ricondurre espressamente la responsabilità della struttura ospedaliera nell’alveo della responsabilità contrattuale, in forza dell’avvenuta conclusione del contratto atipico di spedalità, mediante l’acquisizione del consenso, anche implicito (accettazione) del paziente, con la conseguenza che la struttura risponderà ex artt.  1218 e 1228 c.c.; dall’altro lato, la responsabilità dell’operatore sanitario viene ad essere configurata quale responsabilità extracontrattuale (con l’eccezione – beninteso – della sussistenza di un pregresso contratto d’opera professionale stipulato con il paziente). La condotta dell’operatore rappresenta in altri termini un fatto illecito fonte di danno ingiusto, risarcibile pertanto ex art. 2043 c.c., con conseguente onere della prova a carico del paziente, il quale sarà chiamato a dimostrare (nel termine di prescrizione quinquennale) tutti gli elementi costitutivi della fattispecie. Maggiori oneri probatori in capo al paziente, dunque, e conseguente minore probabilità di condanna per l’operatore sanitario. Da rilevare, infine, come la L. 24/2017 abbia introdotto, all’interno del Codice penale, l’art. 590 – sexies (Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario), che tuttavia al co. 2 prevede che “Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”. Con riguardo al profilo dei danni risarcibili, occorrono necessariamente alcune precisazioni, dal momento che ben diverse possono essere le tipologie di conseguenze negative derivanti o comunque riconducibili all’errore medico o, più in generale, sanitario. La distinzione fondamentale, naturalmente è quella tra danni patrimoniali e danni non patrimoniali. I primi si riferiscono a tutte le ricadute negative di ordine economico subite dal paziente in conseguenza dei comportamenti erronei o negligente dell’operatore sanitario. Si pensi alla perdita di reddito, intesa come mancato guadagno derivante dall’impossibilità di svolgere le proprie attività lavorative o, ad esempio, alla perdita di opportunità di lavoro a seguito delle conseguenze dell’errore o della negligenza. O, semplicemente, alle spese mediche sostenute per le cure resesi necessarie a seguito dell’evento dal quale la responsabilità scaturisce. Certamente si tratta delle tipologie di danno più immediatamente e più facilmente quantificabili sotto il profilo monetario. I danni non patrimoniali, invece sono quelli riguardanti profili come la sofferenza, il dolore ed anche il disagio sotto il profilo morale e psicologico che – secondo modalità assai differenziate – possono derivare al paziente in conseguenza del comportamento erroneo o negligente. Si tratta di danni immateriali, pertanto di difficile quantificazione sotto il profilo economico, tali, perciò, da implicare necessariamente valutazioni di ordine soggettivo da parte di periti ed esperti. Innanzitutto, occorre considerare il danno biologico, vale a dire il danno cagionato alla salute fisica e psichica del paziente. Il riferimento è alle disabilità, permanenti o temporanee, o comunque alle lesioni che siano conseguenza dell’evento, nonché ai pregiudizi relativi alla stabilità psicologica del soggetto leso. Naturalmente, si tratta di danni che, sulla base di determinati parametri, come ad esempio l’età e la salute del paziente, dovranno calcolarsi sulla base della gravità delle conseguenze riportate e dell’impatto delle stesse sulla vita quotidiana e professionale. Occorre poi valutare il danno morale, ossia quello derivante dal disagio, dalla sofferenza emotiva che discende dallo stress e dalla diminuita qualità della vita in conseguenza dell’errore o della negligenza dell’operatore sanitario. Esso va tenuto distinto dal danno esistenziale, che attiene alle conseguenze relative alla sfera personale, familiare o sociale del paziente (limitazioni nelle normali attività, necessità di assistenza e quindi perdita di autonomia, pregiudizio alla vita di relazione, deterioramento dei rapporti familiari e sociali, etc.). Né possono sottovalutarsi i profili riguardanti il danno estetico ed il danno alla reputazione. Il primo si riferisce non solo alle conseguenze sotto il profilo estetico in senso strette intese (come ad esempio la cicatrice invasiva derivante dall’utilizzo di tecniche non adeguate durante un intervento chirurgico) ma anche ai disagi che possano essere indotti – sul piano psicologico – dall’alterazione in senso negativo della propria persona. Il danno alla reputazione è ravvisabile allorché l’errore o la negligenza dell’operatore sanitario vada ad incidere sull’immagine pubblica del paziente (si pensi all’intervento di chirurgia estetica non correttamente eseguito, soprattutto con riferimento ai c.d. “personaggi pubblici”), con conseguenti ricadute sotto il profilo professionale ed economico, ma anche psicologico. Ora, esaurito il breve excursus che precede, occorre segnalare che, fin dalla originaria stesura del D.lgs 28/2010, le controversie in materia di responsabilità medica rientrano tra quelle di cui all’art. 5, co. 1, vale a dire quelle in relazione alle quali la mediazione si pone quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale. A seguito della riforma del 2013, il regime di “obbligatorietà” del tentativo di mediazione è stato esteso anche alla responsabilità sanitaria, quindi anche alle ipotesi in cui si intenda richiedere il risarcimento del danno cagionato da qualsivoglia soggetto operante all’interno della struttura sanitaria. Si tratta di procedimenti aventi ad oggetto una molteplicità di circostanze dalle quali si fa derivare il prodursi del danno, come in via esemplificativa, interventi chirurgici errati ovvero eseguiti con modalità improprie, diagnosi errate o tardive, errori nella somministrazione di farmaci, ma anche – sotto un diverso profilo – negligenza in generale nell’assistenza sanitaria, utilizzo di macchinari o di strumenti non funzionanti in modo idoneo, mancanza di consenso informato. In tutte queste ipotesi, il soggetto che intenda far valere il proprio diritto al risarcimento del danno asseritamente procuratogli deve necessariamente depositare una domanda di mediazione presso un organismo territorialmente competente (artt. 5, co. 1 e 4, co. 1, D.lgs 28/2010). Stante la possibilità per le parti, coadiuvate da un terzo neutrale ed imparziale, di dialogare direttamente tra loro senza formalità, la mediazione rappresenta, anche con riferimento alla materia che qui ci occupa, un’opportunità che, se ben interpretata, potrà consentire di evitare il ricorso al giudizio trovando una soluzione in qualche modo soddisfacente per tutte le parti coinvolte, tra l’altro – aspetto non certo trascurabile – con sensibile riduzione di tempi e costi. Si tratta molto spesso di controversie caratterizzate da un elevato tasso di conflittualità e di emotività, ed evidentemente il legislatore ha reputato la mediazione come lo strumento più idoneo a distogliere il piano della controversia dagli aspetti puramente tecnici, al fine di favorire il più possibile la comprensione reciproca tra i soggetti coinvolti nella fattispecie (ad esempio con il recupero del rapporto di fiducia tra paziente ed operatore sanitario). Si tratta, inoltre, di procedimenti complessi anche sotto il profilo soggettivo, coinvolgendo spesso, oltre il paziente istante ed il professionista chiamato, soggetti ulteriori come la struttura sanitaria e le compagnie assicurative (nonché, nelle ipotesi più gravi implicanti la morte del paziente, i familiari dello stesso). Si tratta infine di procedimenti in cui assai spesso potrà rilevarsi fondamentale l’espletamento di una consulenza tecnica in mediazione (CTM) ed a tale proposito giova ricordare innanzitutto che a norma dell’art. 8, co. 1, ultimo periodo, D.lgs 28/2010, “Nelle controversie che richiedono specifiche competenze tecniche, l'organismo può nominare uno o più mediatori ausiliari”. Dunque, ben potrà l’organismo, sulla base di una propria valutazione di opportunità, affiancare al mediatore “giuridico” un mediatore ausiliario che abbia le competenze tecniche richieste. Il medesimo art. 8 appena citato prevede altresì, nel co. 7, che “Il mediatore può avvalersi di esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali”: le Parti, pertanto, nel corso del procedimento, potranno chiedere la nomina di un Consulente Tecnico terzo, in quanto nominato dall’organismo, e sulla base di quanto introdotto in sede di riforma della mediazione (D.lgs 149/2022) potranno altresì “… convenire la producibilità in giudizio della sua relazione, anche in deroga all'articolo 9”. In tal caso, la relazione sarà valutata dal giudice ai sensi dell’art. 116, co. 1, c.p.c.

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Ai sensi dell’art. 5, co. 1, D.lgs 28/2010, chi intenda esercitare in giudizio un'azione in materia di risarcimento del danno derivante da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione. Si tratta, pertanto, di una delle materie in cui la mediazione si pone quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale. In particolare, deve innanzitutto sottolinearsi come la fattispecie in oggetto (diffamazione a mezzo stampa o altro mezzo di pubblicità, vale a dire televisione, radio, siti internet, socialnetwork, cartellonistica pubblicitaria, etc.) rappresenti, all’interno dell’ambito previsionale dell’art. 5, D.lgs 28/2010, l’unica materia avente rilevanza penale. Tuttavia, non dovrà esperirsi il previo tentativo di mediazione allorché l'azione civile sia esercitata nel processo penale, giusta la previsione di cui all’art. 5, co. 6, lett. g), D.lgs 28/2010. Il reato di diffamazione è disciplinato dall'art. 595 c.p., secondo cui “1. Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. 2. Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro. 3. Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro. 4. Se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate. Due gli aspetti fondamentali da sottolineare: in primo luogo, la ratio della disposizione, che mira evidentemente alla tutela della reputazione del soggetto offeso. Ai fini della configurabilità del reato in parola occorre innanzitutto l’offesa, in termini diffamatori, da parte del soggetto agente nei confronti del soggetto destinatario; inoltre, occorre l’assenza del diffamato, vale a dire l’impossibilità per lo stesso di percepire direttamente l’offesa, al momento del verificarsi del comportamento tale da determinarla: e proprio in ciò risiede la differenza con il concetto di ingiuria, ossia la condotta consistente nell’offesa rivolta alla persona presente o comunque in grado di percepire immediatamente l’intento offensivo (l’ingiuria costituisce oggi illecito civile, a seguito dell’abrogazione dell’art 594 c.p. ad opera del D.lgs. 7/2016, pertanto il soggetto colpito dalla condotta ingiuriosa potrà agire in sede civile ai fini del risarcimento del danno; infine, la condotta diffamatoria, ai sensi dell’art. 595, co.1, c.p., deve avvenire comunicando con più persone (quindi almeno due persone) in grado di percepirla. In secondo luogo, deve osservarsi come, ai sensi dell’art. 595, co. 3, c.p., il legislatore abbia inteso attribuire all’ipotesi di diffamazione a mezzo stampa una maggiore gravità. Ciò, evidentemente, in conseguenza della rafforzata capacità diffusiva del mezzo di comunicazione, dal momento che, da un lato, si tratta di strumento idoneo a raggiungere una pluralità indistinta di destinatari e, dall’altro, in grado di aumentare, quantomeno potenzialmente, la credibilità delle affermazioni diffamatorie stante la notorietà e l'autorevolezza della fonte. Con conseguente incremento della gravità del danno arrecato al soggetto diffamato. Costituisce peraltro ulteriore aggravamento, di origine non codicistica ma previsto dalla L. 47/1948 (c.d. legge sulla stampa), l'attribuzione di un fatto determinato alla persona diffamata, proprio perché il carattere della specificità dell'attribuzione stessa risulta idoneo ad incrementarne la credibilità. Orbene, con riferimento al caso di diffamazione a mezzo stampa, la responsabilità penale si estende anche, ex art. 596 – bis c.p., “al direttore o vice-direttore responsabile, all'editore e allo stampatore, per i reati preveduti negli articoli 57, 57-bis e 58”. In particolare, giova rammentare, con riferimento alla stampa periodica, come ai sensi dell’art. 57 c.p., sia punibile il direttore o il vicedirettore responsabile, fuori dai casi di concorso con l'autore del reato, a titolo di colpa per omesso controllo del contenuto del periodico “…se col mezzo della pubblicazione viene commesso un reato”; mentre, con riguardo alla stampa non periodica, identica conseguenza è applicabile “…all'editore, se l'autore della pubblicazione è ignoto o non imputabile, ovvero allo stampatore, se l'editore non è indicato o non è imputabile” (art. 57 – bis c.p.). Infine, aspetto quest’ultimo di particolare interesse nella presente sede, va sottolineato il fatto che l’art. 11, L. 47/1948 prevede che, ai soli fini della responsabilità civile, anche il proprietario della pubblicazione e l'editore siano responsabili in solido tra loro e con gli autori del reato, con riferimento ai reati commessi a mezzo stampa. Ora, l’ambito previsionale dell’art. 595 c.p. (e – di conseguenza – dell’art. 5, co. 1, D.lgs 28/2010) contempla l'offesa arrecata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità. Come ben noto, infatti, nel tempo ben altri media si sono aggiunti alla stampa stricto sensu considerata quali mezzi di diffamazione. Si pensi, ovviamente, alla radio ed alla televisione ma, soprattutto, con riferimento ai nostri giorni, al web (quotidiani e riviste online, siti di informazione e di gossip) e soprattutto ai social network: i dati hanno dimostrato e costantemente dimostrano come internet e le possibilità da esso fornite finiscano con il rendere più frequente il reato di diffamazione, nonché più potenzialmente nocivo, stante l’aumentata diffusività dell’offesa. L’utilizzo del web e dei suoi canali rientra pertanto a tutti gli effetti nell’ipotesi aggravata di reato di diffamazione che si concretizza con un “altro mezzo di pubblicità” e, di conseguenza, anche in questi casi l’azione risarcitoria deve essere preceduta dalla procedura di mediazione. Per quanto concerne il diritto al risarcimento del danno che un soggetto subisce a causa ed in conseguenza di un reato, nel caso in oggetto quello di diffamazione, lo stesso deriva dalla previsione generale di cui all’art. 185 c.p., ai sensi del quale “Ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili. Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui.” Occorre, a tale proposito, distinguere tra danni di natura patrimoniale e non patrimoniale. Per quanto concerne i primi, va rilevato come nella pratica risultino senza alcun dubbio più difficilmente dimostrabili, occorrendo – ai sensi dell’art. 1223 c.c. – la prova del danno emergente e del lucro cessante. Con riferimento invece alle voci di danno non patrimoniale, occorre rifarsi al concetto di danno morale, parametrato alla sofferenza interiore, al disagio e a tutte quelle forme di condizionamento personale e sociale, anche di carattere transitorio, la cui dimostrazione ben potrà consistere nella prova del fatto che lo ha prodotto e nella idoneità dello stesso ad indurre effetti oggettivamente pregiudizievoli in capo al soggetto che lo ha subito. Ora, come già affermato in apertura, stante l’elevata conflittualità che caratterizza la materia del risarcimento del danno derivante da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, il legislatore ha inserito la stessa – fin dal testo originario del D.lgs 28/2010 – nel novero di quelle relativamente alle quali la mediazione si pone quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Il che, invero, non deve sorprendere: una procedura che, a differenza della causa, sia tale da prevedere la necessaria partecipazione e collaborazione delle parti nella ricerca di una soluzione in grado di soddisfare le istanze dei soggetti coinvolti, sembra essere la più idonea a ripristinare una qualche modalità comunicativa tra diffamatore e diffamato (si pensi, ad es. al caso, tutt’altro che infrequente, in cui il soggetto originariamente diffamato finisca con il diventare a sua volta diffamatore per ragioni puramente istintive ed emotive, vale a dire per reazione al disagio causato dall’offesa pubblica arrecata alla propria reputazione). Il tavolo della mediazione, dunque, appare il più idoneo, stante la presenza di un soggetto per definizione terzo e imparziale, ad indicare alle parti un possibile punto di caduta, che rappresenti il giusto mezzo tra posizioni ed interessi divergenti. In sede di mediazione, alle parti certamente sarà concessa la possibilità di vagliare adeguatamente aspetti che in controversie di siffatta tipologia spesso assumono una importanza fondamentale, quali ad esempio l’opportunità della pubblicazione di una sentenza a conclusione del giudizio, per non parlare dei tempi e dei costi preventivabili per l’ottenimento della stessa, nonché dell’alea, facilment preventivabile, in ordine al riconoscimento, in sede giudiziale, di una effettiva responsabilità in capo al presunto diffamante e, quindi, della conseguente condanna dello stesso al risarcimento dal danno come richiesto dall’attore.

Luigi Majoli

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Le successioni ereditarie costituiscono, fin dall’entrata in vigore dell’originario testo del D.lgs 28/2010, una delle materie in cui la mediazione si pone quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale. In sostanza, dunque, prima di iniziare una causa in materia successoria, il legislatore ha previsto il necessario esperimento di un tentativo di conciliazione tra le parti, notevolmente meno oneroso oltre che più rapido ed informale rispetto al giudizio e che, come meglio si vedrà in seguito, sembra ben adattarsi alle controversie relative alle successioni ereditarie. Basti pensare alla durata di una causa civile in materia ereditaria ed ai costi della stessa, tra onorari dei legali, pagamento delle perizie e spese legali da sostenere, con la conseguenza che – ipotesi assai frequente – pendente la causa il compendio successorio non venga goduto dagli eredi né messo a frutto, potendo, quindi, subire diminuzioni di valore anche consistenti. Ora, come ben noto la materia successoria è caratterizzata da notevole complessità, ed è tutt’altro che raro che possano insorgere controversie tra coloro i quali ritengano di poter vantare diritti sui beni del de cuius. D’altra parte, l’importanza fondamentale del diritto successorio è di tutta evidenza, dal momento che si tratta del complesso di norme volte a determinare, al momento del decesso di un soggetto, chi siano i titolari del diritto di ereditarne i beni ed a quali condizioni. Come è noto, la struttura del diritto delle successioni si basa su due pilastri fondamentali: la successione legittima e la successione testamentaria. Nella prima ipotesi la vocazione ereditaria avviene senza che il defunto abbia lasciato testamento (ab intestato) e le relative disposizioni mirano a regolare la ripartizione dei beni. La successione testamentaria si fonda invece sulle volontà espresse dal de cuius nel testamento, che l’art. 587 c.c. definisce in termini di "…atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse. Le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale". La successione legittima, quindi, si verifica quando il de cuius non abbia lasciato un testamento. Secondo l’art. 565 c.c., infatti, “Nella successione legittima l'eredità si devolve al coniuge, ai discendenti, agli ascendenti, ai collaterali, agli altri parenti e allo Stato nell'ordine e secondo le regole stabilite nel presente titolo”: la legge stabilisce cioè chi siano gli eredi e in quale proporzione debbano ereditare (ad esempio, nel caso in cui al de cuius sopravvivano il coniuge ed un figlio, il patrimonio dovrà essere diviso a metà tra i due soggetti legittimati; nel caso in cui al medesimo sopravvivano il coniuge e due o più figli un terzo del patrimonio spetterà al coniuge e i due terzi ai figli, etc). Il testamento, invece, consente al soggetto che lo redige di poter disporre in autonomia dei propri beni post mortem, potendo dunque includere tra i beneficiari persone non rientranti nel novero degli eredi legittimi, tuttavia con il fondamentale limite rappresentato dal rispetto delle quote di legittima, ossia delle quote stabilite dalla legge per gli eredi legittimi. Ai sensi dell’art. 488 c.c. “Le disposizioni testamentarie, qualunque sia l'espressione o la denominazione usata dal testatore, sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede, se comprendono l'universalità o una quota dei beni del testatore. Le altre disposizioni sono a titolo particolare e attribuiscono la qualità di legatario”. La forma di testamento più semplice è il testamento olografo (art. 602 c.c.). Per redigerlo è infatti sufficiente scrivere di proprio pugno (a mano) le disposizioni di ultima volontà su qualunque foglio, datarle e sottoscriverle. Il testamento pubblico, invece, è quello ricevuto dal notaio in presenza di due testimoni. In questo caso “Il testatore, in presenza dei testimoni, dichiara al notaio la sua volontà, la quale è ridotta in iscritto a cura del notaio stesso. Questi dà lettura del testamento al testatore in presenza dei testimoni. Di ciascuna di tali formalità è fatta menzione nel testamento” (art 603 c.c.). Certamente, la redazione del testamento rappresenta un atto di grande responsabilità e previdenza, in quanto consente di gestire la propria eredità secondo le proprie volontà, tenendo ben presente che in assenza dello stesso troveranno applicazione le (necessariamente) rigide regole della successione legittima, che potrebbero non riflettere le effettive intenzioni personali del de cuius. In molti casi, inoltre, l’intento del testatore – speso disatteso – è proprio quello di prevenire l’insorgere di controversie tra i potenziali eredi. Se la funzione del testamento è quella di consentire al testatore di esprimere le proprie volontà in ordine all’eredità, le quote di legittima – vale a dire le parti dell’eredità che la legge riserva agli eredi legittimi, indipendentemente dalle disposizioni di un testamento – trovano la propria ragion d’essere nell’esigenza di protezione di congiunti stretti – come coniuge e figli o, il loro assenza, altri parenti prossimi come ad esempio i genitori del defunto – garantendo loro una porzione adeguata del patrimonio del de cuius. Naturalmente, come accennato in precedenza, la consistenza della quota di legittima varia in funzione della tipologia e del numero degli eredi. Ai sensi dell’art. 470 c.c. l'eredità può essere accettata puramente e semplicemente ovvero con beneficio d'inventario, anche nell’ipotesi in cui sussista, per questa seconda ipotesi, un qualunque divieto del testatore. Per converso, l’art. 519 c.c. prevede che “La rinunzia all'eredità deve farsi con dichiarazione, ricevuta da un notaio o dal cancelliere del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione, e inserita nel registro delle successioni”. La rinuncia all’eredità è una decisione formale attraverso cui un potenziale erede sceglie di non accettare la successione a cui sarebbe altrimenti destinato, opzione che può avvenire per diversi ordini di ragioni, come ad esempio l’esistenza di una situazione debitoria eccedente il valore dei beni, e quindi la necessità di evitare l’assunzione di responsabilità finanziarie ritenute eccessivamente onerose; o, ancora, l’esistenza di situazioni di conflittualità familiare, che potrebbero consigliare una scelta volta ad evitare procedure legali complesse e costose ovvero rapporti non graditi con altri membri della famiglia, etc. In ogni caso, una volta formalizzata, la rinuncia è irrevocabile, di talché il rinunziante non può, in un secondo tempo, mutare la propria decisione. La rinuncia all’eredità implica naturalmente diverse conseguenze, come il trasferimento della quota agli altri eredi: la quota di eredità del rinunziante viene generalmente distribuita tra gli altri eredi legittimi secondo le regole della successione legittima, salva l’ipotesi in cui sussista un testamento che diversamente disponga, in ogni caso nel rispetto delle quote dei legittimari; ovvero come l’esclusione da ulteriori diritti e obbligazioni: il rinunziante viene ad essere escluso da ogni diritto e da ogni obbligo connesso all’eredità compresi i debiti. In queste brevi note non può prescindersi da un cenno relativi alle tasse sulla successione (rectius: imposta sulle successioni e donazioni), dovuta dagli eredi per i beni e diritti ereditati. L’imposta si applica alla base imponibile dei beni, ovvero sul loro valore, eccedendo però la franchigia prevista in base al rapporto di parentela che intercorre tra il beneficiario e chi è venuto a mancare.
La tassa di successione è dovuta dagli eredi e dai legatari. La dichiarazione di successione deve essere presentata entro dodici mesi dalla data del decesso, che coincide con l’apertura della successione. Dette imposte incidono significativamente sulla trasmissione del patrimonio agli eredi. Come accennato, sono calcolate in base al valore dei beni ereditati e sono caratterizzate da aliquote e franchigie che differiscono in base al legame di parentela: ad esempio, per il coniuge e i figli l’imposta prevede un’aliquota favorevole, con una franchigia, vale a dire con un importo esente da tassazione, tale da ridurre considerevolmente l’onere fiscale, mentre per i fratelli e le sorelle o addirittura per soggetti terzi le aliquote sono maggiorie e le franchigie progressivamente più limitate. Peraltro, l’ordinamento prevede anche riduzioni ed esenzioni fiscali, vale a dire misure che permettono di ridurre o eliminare l’imposta di successione in relazione a determinati beneficiari o a determinate categorie di beni. Ad esempio, le esenzioni per il coniuge e per i figli minorenni: si tratta di eredi che beneficiano di franchigie particolarmente rilevanti, tali da ridurre l’imposta dovuta o, in funzione del valore dell’eredità ricevuta, addirittura da annullarla completamente; ovvero, le esenzioni previste con riferimento a beni che rivestano particolare interesse storico o culturale, i quali, data per l’appunto la loro rilevanza storica o culturale, possono essere esentati dall’imposta di successione al fine di incentivarne la conservazione. Ora, all’esito delle brevi note che precedono, occorre rilevare come, naturalmente, sia tutt’altro che infrequente l’insorgere di controversie tra coloro che ritengono di poter vantare dei diritti sui beni del de cuius. Sembra pertanto opportuno un cenno alle principali azioni previste dall’ordinamento, considerando che in relazioni alle stesse la mediazione si pone come condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Innanzitutto, l’azione di petizione di eredità. L’art. 533 c.c. prevede che “L'erede può chiedere il riconoscimento della sua qualità ereditaria contro chiunque possiede tutti o parte dei beni ereditari a titolo di erede o senza titolo alcuno, allo scopo di ottenere la restituzione dei beni medesimi. L'azione è imprescrittibile, salvi gli effetti dell'usucapione rispetto ai singoli beni”. In sostanza, dunque, l’erede può chiedere il riconoscimento della propria qualità nei confronti di coloro che posseggono i beni ereditari a titolo di erede o sine titulo, per il tramite di un’azione non soggetta a termine, fermo restando che, in carenza di fatti interruttivi, il possessore potrà comunque chiedere, in presenza dei requisiti di legge, l’acquisizione del bene per usucapione. Occorre poi considerare l’azione di reintegrazione della quota riservata ai legittimari. Come si è già avuto modo di accennare in precedenza, i legittimari sono quei soggetti che hanno diritto ad una determinata quota del patrimonio ereditario, che non può essere lesa dalla volontà del testatore, in quanto legati in modo particolarmente stretto con il de cuius: il coniuge, i figli, etc. Di conseguenza l’ordinamento riconosce il diritto di avviare un’azione che consenta ai soggetti di cui sopra di reintegrare la loro quota mediante la riduzione delle quote degli eredi legittimi, ovvero di coloro ai quali il testatore abbia fatto delle donazioni e, ancora, di coloro ai quali il testatore abbia lasciato più di quanto consentito dalla legge. Si tratta, peraltro, di azione soggetta a termine di prescrizione di 10 anni, decorrenti dall’apertura della successione. Assai frequente, poi, è il ricorso all’azione di impugnazione del testamento. Come già visto, qualora le disposizioni testamentarie abbiano leso i diritti riconosciuti dalla legge ai legittimari, gli stessi potranno impugnarle al fine di far valere le proprie ragioni. Naturalmente, tuttavia, al di là dei casi da ultimo evidenziati, occorre considerare come il testamento, stanti le precise regole in materia previste dall’ordinamento, variabili in funzione della tipologia del medesimo, sia un atto impugnabile da coloro i quali intendano farne valere la nullità ovvero richiederne l’annullamento. Si pensi alle ipotesi di falsità del testamento, che si verifica quando il documento non è redatto dal testatore effettivo, ovvero all’ipotesi di testamento redatto in presenza di un vizio della volontà del testatore, riscontrabile ad esempio quando lo stesso sia stato indotto a redigerlo in presenza di dolo o violenza. Si consideri, peraltro, che i termini per l’impugnazione del testamento sono variabili. Nelle ipotesi più gravi di nullità, ad esempio allorché lo stesso sia redatto in violazione del divieto di patti successori (art. 458 c.c.), non sussiste un termine di prescrizione da rispettare. Laddove invece il testamento risulti affetto da vizi di minor gravità rispetto a quelli tali da determinarne la nullità, l’azione è assoggettata a termine quinquennale, decorrente dal giorno in cui è stata data esecuzione elle disposizioni testamentarie. Infine, un cenno all’azione di divisione ereditaria. Si tratta dell’azione, diffusissima nella pratica, funzionale allo scioglimento della comunione ereditaria, situazione che si realizza allorquando l’eredità venga acquisita da una pluralità di soggetti. L’importanza di detta azione è evidente: con essa ciascun erede acquista la proprietà esclusiva del bene con efficacia retroattiva, venendo a cessare, al contempo, i suoi diritti sugli altri beni. Ora, posto che in tutte le situazioni considerate, in presenza di contenzioso insorto o insorgendo, la mediazione deve comunque essere esperita, in quanto condizione di procedibilità della domanda giudiziale (art. 5, co. 1, D.lgs 28/2010), occorre sottolineare come l’istituto in parola possa effettivamente rappresentare la modalità più utile e vantaggiosa, soprattutto sotto il profilo economico, come si vedrà tra breve, per addivenire allo scioglimento di una comunione di beni. Innanzitutto, ad avviso di chi scrive, va considerato un aspetto preliminare: trattandosi di controversie relative a beni, tanto mobili che immobili, in cui le parti sono di regola in rapporti di parentela, o comunque hanno avuto in passato relazioni caratterizzati da una forte componente afferente il piano dell’affettività, con conseguente complessità soprattutto sotto il profilo psicologico, la mediazione, con l’informalità che la caratterizza e con il contributo del terzo neutrale, potrà realmente rappresentare la sede più idonea a consentire l’emersione degli interessi più reconditi delle parti. Si tratta di mediazioni nelle quali, fermo il valore venale dei beni ed il conseguente interesse economico, molto spesso acquisisce una valenza preponderante il valore affettivo dei beni medesimi, derivante dal rapporto esistenziale intercorso o intercorrente tra gli stessi e le parti. D’altra parte, il fine della mediazione in materia di successioni ereditarie è precipuamente quello dell’attribuzione a ciascun soggetto della propria quota di diritti, il che non significa necessariamente che venuto meno il legame giuridicamente rilevante non persistano rapporti parentali e affettivi. Si consideri inoltre che per il tramite della mediazione è possibile pervenire ai medesimi risultati attingibili con il giudizio, ma beneficiando di alcuni fondamentali vantaggi: tempi ristretti e costi limitati, partecipazione effettiva sotto il profilo personale e quindi anche emozionale, possibilità di risoluzione, nell’ambito del singolo procedimento, di questioni controverse non facenti tecnicamente parte della vicenda successoria stricto sensu intesa, ma ad essa strettamente collegate, possibilità, in sintesi, di addivenire ad una soluzione condivisa elaborata dalle parti stesse (e, naturalmente, dai propri consulenti tecnici di fiducia). Il tutto, naturalmente, rammentando che l’accordo ha efficacia di titolo esecutivo, allo stesso modo della sentenza, e potrà essere trascritto nei pubblici registri mobiliari o immobiliari, con il considerevole – e spesso determinante – vantaggio economico derivante dal regime fiscale di cui all’art. 17, D.lgs 28/2010, che prevede l’esenzione dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura ivi comprese le imposte ipotecarie e catastali e, soprattutto, l’esenzione dall’imposta di registro entro il limite di valore di 100.000 euro, altrimenti l'imposta è dovuta per la parte eccedente. Sulla base di quanto precede appare evidente come possa risultare conveniente l’utilizzo del procedimento di mediazione al fine di evitare l’insorgere di un conflitto, vale a dire in assenza di contenzioso già sussistente circa la successione ereditaria, mediante l’avvio congiunto della procedura. A conclusione delle presenti brevi note una ulteriore notazione. Laddove le parti raggiungano un accordo conciliativo in mediazione in materia di successioni ereditarie, esso può essere direttamente trascritto, previa autentica notarile. Prevede infatti l’art. 11, co. 7, D.lgs 28/2010, che “Se con l'accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall'articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione dell'accordo di conciliazione deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”.

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La divisione rappresenta, fin dall’originaria versione del D.lgs 28/2010, una delle materie in cui la mediazione si pone quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, tanto con riferimento ai casi di scioglimento di una comunione ordinaria (art. 713 e ss. c.c.) quanto in relazione alle ipotesi di comunione ereditaria (art. 1111 e ss. c.c.). Il giudizio di divisione, disciplinato dagli artt. 784 e ss. c.p.c. nell’ambito dei procedimenti di volontaria giurisdizione, è finalizzato da un lato all’accertamento del diritto potestativo a chiedere la divisione e, dall’altro, alla determinazione delle modalità di attuazione della divisione medesima. Il procedimento in parola, pur mantenendo natura unitaria, può essere distinto in tre fasi, vale a dire la fase concernente la formazione dell’asse patrimoniale, quella relativa alla formazione delle quote e, infine, la fase conclusiva, ossia quella consistente nell’attribuzione delle stesse agli aventi diritto. Le domande di scioglimento di qualsivoglia comunione devono necessariamente essere proposte nei confronti di tutti gli eredi o condomini e, nel caso in cui vi siano, dei creditori opponenti. In tali ipotesi si instaura un giudizio inscindibile in quanto sussiste la necessaria partecipazione ad esso di tutti i condividenti. Di conseguenza, il difetto di instaurazione del contraddittorio può essere rilevato in qualunque stato e grado del processo, anche d'ufficio. L’eventuale mancata integrazione del contraddittorio nel termine perentorio assegnato dal giudice produce l'estinzione immediata del processo ai sensi del combinato disposto degli artt. 102 e 307 c.p.c. Di qui la necessità, sotto il profilo soggettivo, di estendere la necessaria mediazione ante causam a tutte le parti che dovranno essere coinvolte, in caso di esito negativo, nell’eventuale successiva fase di divisione giudiziale. Eguale corrispondenza, naturalmente, è richiesta sotto il profilo oggettivo: qualora infatti la domanda di mediazione sia stata caratterizzata dal fatto di avere ad oggetto un compendio diverso da quello costituente il petitum della domanda di divisione giudiziale, la condizione di procedibilità della domanda non potrà considerarsi avverata ed il giudice, sospeso il giudizio, fisserà un termine per il deposito di una nuova domanda di mediazione presso un organismo territorialmente competente Trattandosi, come in precedenza accennato, di un procedimento di volontaria giurisdizione, lo stesso, ove non vengano sollevate contestazioni, si conclude con ordinanza non impugnabile. Laddove invece insorgano questioni controverse, tanto concernenti in diritto alla divisione, quanto relative ai criteri e alle modalità di attuazione della stessa, il giudizio di divisione si trasforma in un normale processo ordinario di cognizione a carattere contenzioso. In ogni caso, all’esito del procedimento in esame verranno a determinarsi due effetti: la cessazione dello stato di comunione e, correlativamente, l’attribuzione a ciascun compartecipante del diritto di proprietà esclusiva sulla propria quota. Analizziamo ora più da vicino le diverse tipologie di controversie che possono insorgere in materia di divisione. Si tratta di conflitti la cui origine può essere rintracciata nelle più disparate situazioni che possono contraddistinguere la vita di un soggetto, come, ad esempio, l’acquisto di un bene da parte di due o più persone dal quale insorge una situazione di comproprietà, ovvero il matrimonio, dal quale può derivare un regime di comunione legale dei beni o, ancora, la successione ereditaria, allorché, a seguito della stessa, una pluralità di eredi subentri nella titolarità dei diritti del de cuius. Le questioni oggetto di mediazione (e, in caso di esito negativo, del successivo giudizio), possono dunque vertere, ad esempio, sulla soluzione da adottare qualora non sussista accordo sulle modalità di divisione o di liquidazione, ovvero sui rapporti tra comunione legale e diritti successori o sui diritti spettanti al coniuge separato o divorziato, o ancora, con riferimento alla comunione ereditaria, ad eventuali lesioni della quota di legittima etc. I soggetti coinvolti sono dunque i comproprietari (comunisti), da considerarsi quali centri d’interesse autonomi, dal momento che ciascuno può vantare diritti ed interessi confliggenti con quelli vantati dagli altri. Di qui, come sopra già rilevato, la situazione di litisconsorzio necessario e la conseguente necessità, ai fini del corretto perfezionarsi della condizione di procedibilità della domanda, di coinvolgere tutti i comunisti. Va peraltro osservato come, tuttavia, possano verificarsi anche situazioni di divisione riguardanti solo alcuni soggetti comproprietari: ad esempio, nell’ipotesi in cui solo alcune parti vogliano procedere alla divisione rispetto ad altri comproprietari il cui diritto trae origine da contratti o titoli diversi (come nell’ipotesi di una comproprietà in cui una quota cada in successione e venga, in conseguenza di ciò, attribuita a due eredi), laddove, in caso di divisione giudiziale, potrà essere assegnata la quota indivisa di un bene, senza che sia necessario chiamare in giudizio il terzo comproprietario. (Cfr. Corte di Cassazione, sez. II civ., ordinanza n. 27377/2021, in cui si afferma che “La divisione giudiziale di una comunione ereditaria, così come la divisione negoziale, può riguardare beni provenienti da titoli diversi, costituenti essi stessi distinte comunioni da considerare come entità patrimoniali a sé stanti, con la conseguenza che ben può essere assegnata ad uno dei condividenti la quota indivisa di un bene in comunione. Ne consegue che non è necessaria la partecipazione del terzo in giudizio qualora non sia stato chiesto lo scioglimento della diversa comunione relativa a quel singolo bene”. Con la conseguenza che soltanto laddove si richieda anche lo scioglimento della diversa comunione gravante sul medesimo bene, dovrà integrarsi il contraddittorio con il terzo comproprietario, sia nella fase di mediazione che nella successiva eventuale fase divisionale. Ciò premesso, occorre sottolineare come realmente la mediazione possa rappresentare la modalità più utile e vantaggiosa, soprattutto sotto il profilo economico, come si vedrà tra breve, per addivenire allo scioglimento di una comunione di beni. Innanzitutto, ad avviso di chi scrive, va considerato un aspetto preliminare: trattandosi di controversie relative ad una comunione riguardante tanto beni mobili che beni immobili le cui parti sono spesso in rapporti di parentela, o comunque hanno avuto in passato relazioni caratterizzati da una forte componente afferente il piano dell’affettività, con conseguente complessità, anche e – spesso – soprattutto sotto il profilo psicologico, la mediazione, con l’informalità che la caratterizza e con il contributo del terzo neutrale, potrà effettivamente rappresentare quella sede atta a consentire l’emersione degli interessi più reconditi delle parti. Si tratta di mediazioni nelle quali, fermo il valore venale dei beni ed il conseguente interesse economico, molto spesso acquisisce una valenza preponderante il valore affettivo dei beni medesimi, derivante dal rapporto esistenziale intercorso o intercorrente tra gli stessi e le parti. D’altra parte, il fine della mediazione in materia di divisione è lo scioglimento della comunione e l’attribuzione a ciascun soggetto della propria quota di diritti, il che non significa necessariamente che venuto meno il legame giuridicamente rilevante non persistano rapporti parentali e affettivi. Si consideri inoltre che per il tramite della mediazione è possibile pervenire ai medesimi risultati attingibili con il giudizio, ma beneficiando di alcuni fondamentali vantaggi: tempi ristretti e costi limitati, partecipazione effettiva sotto il profilo personale e quindi anche emozionale, possibilità di risoluzione, nell’ambito del singolo procedimento, di questioni controverse non facenti tecnicamente parte della comunione ma ad essa strettamente collegate, possibilità, in sintesi, di addivenire ad una soluzione condivisa elaborata dalle parti stesse (e, naturalmente, dai propri consulenti tecnici di fiducia). Il tutto, naturalmente, rammentando che l’accordo ha efficacia di titolo esecutivo, allo stesso modo della sentenza, e potrà essere trascritto nei pubblici registri mobiliari o immobiliari, con il considerevole – e spesso determinante – vantaggio economico derivante dal regime fiscale di cui all’art. 17, D.lgs 28/2010, che prevede l’esenzione dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura ivi comprese le imposte ipotecarie e catastali e, soprattutto, l’esenzione dall’imposta di registro entro il limite di valore di 100.000 euro, altrimenti l'imposta è dovuta per la parte eccedente. Sulla base di quanto precede appare evidente come possa risultare conveniente l’utilizzo del procedimento di mediazione al fine di evitare l’insorgere di un conflitto, quindi in assenza di contenzioso sulla divisione, mediante l’avvio congiunto della procedura. A conclusione delle presenti brevi note una ulteriore notazione. Laddove le parti raggiungano un accordo conciliativo in mediazione sulla suddivisione di diritti reali su beni immobili o quote di essi, esso può essere direttamente trascritto, previa autentica notarile. Prevede infatti l’art. 11, co.7, D.lgs 28/2010, che “Se con l'accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall'articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione dell'accordo di conciliazione deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”. Ora, l’art. 2643 c.c. non contempla le divisioni che sono invece disciplinate dal successivo art. 2646 c.c. (“Si devono trascrivere le divisioni che hanno per oggetto beni immobili, come pure i provvedimenti di aggiudicazione degli immobili divisi mediante incanto, i provvedimenti di attribuzione delle quote tra condividenti e i verbali di estrazione a sorte delle quote. Si devono pure trascrivere la domanda di divisione giudiziale e l'atto di opposizione indicato dall'articolo 1113, per gli effetti ivi enunciati”). Di qui l’aporia. L’art. 11, D.lgs 28/2010, senza dubbio si riferisce esclusivamente ai contenuti di cui all’art. 2643 c.c., ma appare evidente che se l’interpretazione fosse meramente letterale si dovrebbe escludere la trascrivibilità di accordi conclusi all’esito di un procedimento, quello di mediazione, svoltosi nell’ambito di una delle materie per le quali lo stesso è concepito dal legislatore in termini di condizione di procedibilità della domanda giudiziale, con conseguente ed intollerabile contraddizione. Si tratta di una evidente lacuna normativa, non avendo senso alcuno l’imposizione alle parti della mediazione nella materia delle divisioni al tempo stesso escludendo che l’eventuale accordo possa essere trascritto. La giurisprudenza ha da tempo risolto positivamente la questione, a partire da Tribunale di Roma, ord. 17 novembre 2015, che ha ritenuto trascrivibili tutti gli accordi contenenti atti o negozi per cui il codice civile prevede la trascrivibilità, sulla base della considerazione che “…l’interpretazione sistematica e teleologica della legge in materia di mediazione civile ha lo scopo di favorire la conciliazione prima del giudizio della controversia insorta, scopo la cui realizzazione presuppone il riconoscimento della piena validità ed efficacia dell’accordo concluso tra le parti, con la sola particolarità che ai fini della sua trascrizione è espressamente richiesta l’autenticazione delle sottoscrizioni da parte di un Notaio ai fini della verifica della conformità del contenuto dell’atto alle prescrizioni di legge”.

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L’associazione in partecipazione è il contratto con cui una parte associante attribuisce a un’altra parte (associata) la partecipazione agli utili della propria impresa o di uno o più affari, in cambio di un corrispettivo determinato (CC art. 2549). Un po’ di matematica aiuta a capire il contratto: considerati l’importo del contributo economico pagato dall’associato (C) e l’investimento sostenuto dall’associante (I), si calcola il margine dell’associato (m = C/I), che rappresenta la percentuale da applicare al profitto dell’associante (P), cosicché si calcoli il risultato dell’associato (R = mP). Perciò, il contratto di associazione in partecipazione deve precisare a quanto ammontano il contributo pagato dall’associato (C) e l’investimento sopportato dall’associante (I), per evitare conflitti futuri. L’art. 2553 del CC precisa che, salvo patto contrario, l’associato partecipa anche alle perdite nella stessa misura percentuale in cui partecipa agli utili (–mP anziché +mP), ma le perdite a carico dell’associato non possono superare il valore del suo apporto (–mP < C). Infatti, «i terzi acquistano diritti e assumono obbligazioni soltanto verso l’associante» (CC, art. 2552). Qualora l’associato contribuisca anche con una prestazione di lavoro, il numero degli associati che svolgono la stessa attività non può essere superiore a 3, altrimenti la prestazione di lavoro si qualifica come lavoro subordinato a tempo indeterminato (CC, art. 2549), con l’unica eccezione per i rapporti coniugali, di parentela o di affinità. Salvo patto contrario, l’associante non può attribuire partecipazioni per la stessa impresa o per lo stesso affare ad altri senza il consenso degli associati precedenti (CC, art. 2550). La gestione dell’impresa o dell’affare spetta all’associante, ma le parti possono stabilire quale controllo l’associato possa esercitare sugli affari. Comunque, l’associato ha diritto al rendiconto dell’affare o al rendiconto annuale, se l’attività si protrae per più di un anno (CC, art. 2552).

Perché usare la mediazione per le liti tra associati?

Di solito il contratto di associazione in partecipazione coinvolge due o più imprenditori, motivati a collaborare (finanziariamente o materialmente), per maturare un interesse commerciale (R = mP per l’associato; U = PR per l’associante): i problemi tra associati nascono quando la fiducia reciproca muore, per la delusione nelle capacità imprenditoriali o per l’insolvibilità di una parte o (più facilmente) per l’incapacità o l’impossibilità di calcolare il margine di rischio dell’associato (m = C/I). Perciò, si svolge una mediazione per liti di associazione in partecipazione con un approccio econometrico. E, comunque, è bene prevenire le liti, redigendo contratti efficienti. Inoltre, l’amministrazione svolta dall’associante potrebbe esporre l’impresa a rischi negativi nei confronti dei terzi, che potrebbero essere tentati di rivalersi sull’associato (magari più solvibile dell’associante): perciò, l’art. 2553 del CC limita il rischio dell’associato. Ciononostante, i soci potrebbero litigare sulle cause delle disfunzioni imprenditoriali: allora una mediazione serve a misurare i profili di rischio e le alternative economiche più efficienti. La mediazione civile e commerciale serve ad analizzare le partite economiche con un approccio tecnico, pur arginando l’aspetto “umano” del conflitto: le emozioni negative con cui i soci si affrontano in lite, le accuse e le colpevolizzazioni reciproche distolgono l’attenzione delle parti da ciò che conta davvero. Un mediatore serve per far sfogare gli aspetti umani velocemente e costruttivamente, utilizzandoli come “leve motivazionali”, che orientino le parti verso soluzioni soddisfacenti. Per tutti questi motivi, il D. lgs 28/2010 (art. 5) prescrive che le parti tentino una mediazione civile e commerciale prima di attivare un giudizio in tribunale in materia di associazione in partecipazione: la c.d. condizione di procedibilità dell’azione giudiziale.

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Il Codice civile, come è noto, definisce l’azienda come il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per esercitare l’impresa (art. 2555), con il logico corollario che l'azienda rappresenta lo strumento principale per lo svolgimento dell'attività economica dell'imprenditore e che i beni sono aziendali in quanto funzionalmente collegati all'esercizio dell'impresa.

Naturalmente, il proprietario del complesso di beni costituente l’azienda può cederne l’uso ad un diverso soggetto verso il pagamento di un corrispettivo, detto canone. Peraltro, non è necessario che il trasferimento comprenda la totalità dei beni costituenti il complesso aziendale, risultando sufficiente che abbia ad oggetto un’articolazione funzionalmente autonoma che al predetto complesso sia riconducibile (il ramo d’azienda).

Il contratto di affitto di azienda può essere utilizzato con riferimento a qualsivoglia tipologia di impresa e di attività economica: esempi tipici sono rappresentati dal settore alberghiero e da quello della ristorazione.

Va rilevato come, spesso, il contratto in parola venga utilizzato quale fase anticipatoria rispetto alla cessione definitiva dell’azienda: in tal modo, evidentemente, il proprietario potrà garantirsi un rendimento costante per un determinato lasso temporale, mentre l’affittuario avrà la possibilità di valutare concretamente la redditività dell’azienda.

L’affitto di azienda non trova, all’interno del Codice civile, una disciplina organica. 

L’art. 2562 c.c. si limita, in effetti, a rinviare alle disposizioni di cui al precedente art. 2561 c.c., relative all’usufrutto di azienda. Pertanto, all’affitto di azienda potranno applicarsi le norme sull’affitto in generale e quelle sulla locazione, naturalmente laddove risultino compatibili con le poche disposizioni espressamente dedicate al contratto in oggetto. In presenza pertanto di una disciplina codicistica avente natura prevalentemente dispositiva, è di peculiare importanza che le parti predispongano clausole contrattuali particolarmente precise ed esaustive.

Ai sensi dell’art. 2557 c.c. “Chi aliena l'azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall'iniziare una nuova impresa che per l'oggetto, l'ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell'azienda ceduta”. I patti di astensione dalla concorrenza per lassi temporali più ampi sono validi”. Con riferimento, invece, all’usufrutto o all’affitto dell'azienda il divieto di concorrenza disposto dal primo comma vale nei confronti del proprietario o del locatore per la durata dell'usufrutto o dell'affitto (art. 2557, co. 4, c.c.). Peraltro, parte della giurisprudenza ha ritenuto la predetta disposizione applicabile in via estensiva anche all’affittuario; in altri termini, si è affermato che il divieto di concorrenza sussiste anche nei confronti dell’affittuario, successivamente alla scadenza del contratto di affitto.

L’affittuario dell’azienda, salvo che non sia diversamente stabilito dal contratto, a norma dell’art. 2558 c.c. subentra nei contratti già stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale e, ai sensi dell’art. 2561 c.c., è tenuto ad esercitare l’impresa sotto la ditta che la contraddistingue, al fine di dare continuità all’impresa e di evitare che l’affittuario svaluti o screditi il valore dell’impresa commerciale. L’affittuario pertanto, dovrà gestire l’azienda senza modificarne la destinazione e con modalità tali da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti, nonché le normali dotazioni di scorte, potendo incorrere, in caso contrario, nella condanna al risarcimento ovvero alla prestazione di garanzie (cfr. art. 1015 c.c.) o, infine, nella risoluzione del contratto per inadempimento.

Quanto alle forme, per il contratto di affitto dell’azienda non è prevista la forma scritta a pena di nullità, ma solo ai fini della prova, della pubblicità e della opponibilità ai terzi. 

A norma dell’art. 2556 c.c., infatti, il contratto di affitto di azienda deve essere iscritto nel Registro delle Imprese, di talché lo stesso dovrà essere redatto per iscritto, con la forma dell’atto pubblico o di scrittura privata autenticata, a cui dovrà seguire, entro 30 giorni, la pubblicità presso il Registro delle Imprese.

Nell’ipotesi di mancata iscrizione si determinerà un duplice ordine di conseguenze: da un lato, una sanzione amministrativa (ex art. 2914 c.c. con riferimento alle imprese individuali ed ex art. 2630 c.c. per le imprese esercitate in forma societaria); dall’altro, la mancata produzione degli effetti giuridici: il contratto non iscritto nel Registro delle Imprese risulterà bensì valido tra le parti, ma non potrà essere opposto ai terzi, salva la prova che gli stessi ne abbiano avuto conoscenza.

Tutto ciò premesso, e trasferendo ora la nostra attenzione al versante processuale, occorre rilevare come la legge delega n. 206 del 26 novembre 2021 (c.d. Riforma Cartabia) abbia previsto che la riforma del processo civile avrebbe dovuto estendere “…l’applicabilità della procedura di convalida, di licenza per scadenza del contratto e di sfratto per morosità anche ai contratti di comodato di beni immobili e di affitto d’azienda” (art. 1, co. 5, lett. r).

In effetti, il decreto legge n. 149 del 10 ottobre 2022 ha effettivamente modificato l’art. 657 c.p.c., relativo allo sfratto per finita locazione, prevedendo espressamente l’estensione della procedura di sfratto all’affitto d’azienda e al comodato di beni immobili; tuttavia, il successivo art. 658 c.p.c., relativo allo sfratto per morosità, è rimasto intatto: non si è prevista, in sostanza, l’estensione della procedura in parola all’affitto d’azienda e al comodato di beni immobili, il che ha comportato una situazione di contraddittorietà e di incertezza, tanto in dottrina quanto soprattutto in giurisprudenza, in ordine alla possibilità di applicazione in via interpretativa della procedura di sfratto per morosità all’affitto d’azienda.

Ora, muovendo dal presupposto rappresentato dal fatto che i procedimenti speciali sommari, categoria alla quale va ascritto a pieno titolo quello di convalida di sfratto, sono applicabili unicamente alle fattispecie espressamente previste, non potendosi dunque ricorrere all’analogia, alcuni Tribunali hanno ritenuto i contratti di affitto di azienda (o di ramo di azienda) esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 658 c.p.c., non convalidando, pertanto, lo sfratto intimato per morosità (ad es. Tribunale di Foggia, sez. II, 16 ottobre 2023; ma si veda anche, per una rappresentazione organica della problematica in parola, ”Orientamenti e prassi della Sezione nei procedimenti per convalida di sfratto”, Tribunale di Roma, maggio 2023).

Secondo una diversa interpretazione, l’art. 658 c.p.c. si applicherebbe a tutti i rapporti contrattuali indicati nell’art. 657 c.p.c., ai quali la c.d. riforma Cartabia ha aggiunto i contratti di affitto d’azienda. Sulla base di detto assunto, pertanto, diversi Tribunali hanno operato la convalida anche in caso di contratti di affitto di azienda (o ramo d’azienda), ritenendo applicabile tale procedura anche a tali casi (ad es. Tribunale di Verona, 11 luglio 2023, n. 3884; Tribunale di Nola, 13 novembre 2023, Tribunale di Milano, 18 dicembre 2023). Detta interpretazione “estensiva” invero appare conseguente alle posizioni giurisprudenziali che da tempo hanno sostenuto l’applicabilità del procedimento speciale dello sfratto per morosità anche nei confronti dell’affittuario coltivatore diretto, del mezzadro e del colono (rispettivamente: Cass. civ., 20 agosto 2015 n. 17008; Cass. civ., 8 agosto 1984, n. 4638; Trib. Milano 23 maggio 2003). 

Si rammenta che l’art. 363 – bis c.p.c., anch’esso introdotto dalla Riforma Cartabia, rubricato "Rinvio pregiudiziale", al fine di assicurare la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione e di evitare la possibile insorgenza di liti, anche in ottica deflattiva del contenzioso, prevede che “Il giudice di merito può disporre con ordinanza, sentite le parti costituite, il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione per la risoluzione di una questione esclusivamente di diritto, quando concorrono le seguenti condizioni: 1) la questione è necessaria alla definizione anche parziale del giudizio e non è stata ancora risolta dalla Corte di cassazione; 2) la questione presenta gravi difficoltà interpretative; 3) la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi. L'ordinanza che dispone il rinvio pregiudiziale è motivata, e con riferimento alla condizione di cui al numero 2) del primo comma reca specifica indicazione delle diverse interpretazioni possibili. Essa è immediatamente trasmessa alla Corte di cassazione ed è comunicata alle parti. Il procedimento è sospeso dal giorno in cui è depositata l'ordinanza, salvo il compimento degli atti urgenti e delle attività istruttorie non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale. Il primo presidente, ricevuta l'ordinanza di rinvio pregiudiziale, entro novanta giorni assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice per l'enunciazione del principio di diritto, o dichiara con decreto l'inammissibilità della questione per la mancanza di una o più delle condizioni di cui al primo comma. La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza, con la requisitoria scritta del pubblico ministero e con facoltà per le parti costituite di depositare brevi memorie, nei termini di cui all'articolo 378. Con il provvedimento che definisce la questione è disposta la restituzione degli atti al giudice. il principio di diritto enunciato dalla Corte è vincolante nel procedimento nell'ambito del quale è stata rimessa la questione e, se questo si estingue, anche nel nuovo processo in cui è proposta la medesima domanda tra le stesse parti”.

In questo stato di cose, il Tribunale di Napoli, in applicazione della disposizione che precede, con ordinanza del 20 dicembre 2023, ha chiesto alla Corte di Cassazione di risolvere in via pregiudiziale la questione di diritto in parola, ossia di stabilire se, nei confronti dell’affittuario d’azienda, possa essere emessa l’ordinanza di sfratto per morosità nel pagamento dei canoni d’affitto, ex art. 658 c.p.c.

Con provvedimento adottato in data 13 febbraio 2024, il Primo Presidente della Corte di Cassazione ha ravvisato la sussistenza dei presupposti per la risoluzione della questione da parte della Corte di Cassazione ai sensi del menzionato art. 363 – bis c.p.c., trattandosi di questione necessaria per la definizione del giudizio davanti al Tribunale, suscettibile di porsi in numerosi giudizi e tale da presentare gravi difficoltà interpretative.

Giova peraltro rammentare che, nelle more, il Governo ha approvato uno schema di decreto legislativo, nel quale si prevede la modifica del testo dell’art. 658 c.p.c. venga modificato, inserendo espressamente l’affittuario d’azienda tra i soggetti nei cui confronti può essere emessa l’ordinanza di sfratto per morosità.

Ora, chi intenda avviare un giudizio in materia di affitto di azienda (o di affitto di ramo di azienda) è preliminarmente tenuto ad esperire il tentativo di mediazione.

Infatti, l’affitto di azienda, ai sensi dell’art. 5, D.lgs 28/2010, rientra nel novero delle materie rispetto alle quali la mediazione si pone quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Il che rappresenta, al di là dell’intento deflattivo perseguito dal legislatore, una notevole opportunità per le parti che si trovino ad essere coinvolte in una controversia in materia di affitto di azienda o di ramo di azienda, quella, cioè, di poter negoziare un accordo attraverso il quale evitare i costi, in termini di tempo e denaro, che dovrebbero altrimenti affrontare intentando un giudizio, oltretutto inevitabilmente caratterizzato da una notevole aleatorietà.

Le ragioni per le quali il legislatore ha optato per l’inserimento dell’affitto di azienda tra le materie assoggettate all’obbligo di mediazione appaiono chiare: si pensi, innanzitutto, al fatto che le imprese, per propria natura, producono (o dovrebbero produrre) profitti mentre, per converso, l’affitto dell’azienda fa sì che parte degli stessi venga ad essere trasferita al locatore. Di qui, inevitabilmente, l’evenienza – frequente nella pratica, come l’esperienza di mediazione insegna – di comportamenti non improntati a correttezza ovvero di malintesi, comunque potenziali fonti di conflittualità.

Conflittualità certamente inerente agli interessi economici in gioco, ma non di rado tale da investire profili più squisitamente attinenti al rapporto di fiducia originariamente sussistente tra le parti e successivamente incrinatosi a seguito di un determinato comportamento o di una determinata scelta. Ciò che spesso provoca reazioni sproporzionate, dando vita a vicende giudiziali estremamente complesse, lunghe e costose, che giustamente il legislatore mira a ridurre attraverso il ricorso alla mediazione civile, istituto che per le sue proprie caratteristiche consente certamente agli imprenditori coinvolti di concentrare l’attenzione sulle conseguenze giuridiche ed economiche del conflitto, offrendo innumerevoli opzioni di fuoriuscita dalla crisi. Si pensi alle ipotesi, tutt’altro che infrequenti nella pratica, in cui la mediazione riesca a favorire il recupero del rapporto di fiducia con conseguente conclusione di un nuovo contratto o rivisitazione di quello già intercorrente tra le parti mediate l’apposizione di elementi novativi di interesse comune.

Si consideri inoltre che per il tramite della mediazione è possibile pervenire ai medesimi risultati attingibili con il giudizio, ma beneficiando di alcuni fondamentali vantaggi: tempi ristretti e costi limitati, partecipazione effettiva sotto il profilo personale e quindi anche emozionale, possibilità di risoluzione, nell’ambito del singolo procedimento, di questioni controverse non facenti tecnicamente parte del contratto di affitto di azienda o di ramo di azienda ma allo stesso strettamente collegate, possibilità, in sintesi, di addivenire ad una soluzione condivisa elaborata dalle parti stesse e dai rispettivi legali (e, naturalmente, dai propri consulenti tecnici di fiducia).

Il tutto, naturalmente, rammentando che l’accordo ha efficacia di titolo esecutivo, allo stesso modo della sentenza, e rammentando altresì il considerevole – e spesso determinante – vantaggio economico derivante dal regime fiscale di cui all’art. 17, D.lgs 28/2010 e dai benefici – in termini di crediti d’imposta riconosciuti alle parti di una mediazione dall’art. 20 del medesimo decreto legislativo.

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L’art. 5, co. 1, D.lgs 28/2010, ricomprende i contratti assicurativi nell’ambito delle materie in cui la mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale. In sostanza – dunque – come in tutte le materie tassativamente elencate dalla suddetta disposizione, anche con riferimento ai contratti in parola prima di adire il giudice è necessario esperire il tentativo di mediazione. La scelta operata dal legislatore non è di difficile lettura: basti pensare che il menzionato art. 5, co. 1, si esprime in termini di “…contratti assicurativi, bancari e finanziari”, formulazione certamente da non ritenersi casuale, dal momento che i contratti assicurativi hanno in comune con quelli bancari e finanziari due caratteristiche fondamentali, vale a dire, da un lato, il fatto di essere numerosissimi (il che di per sé implica un numero direttamente proporzionale di controversie) e, dall’altro, la circostanza che si tratta pur sempre di contratti di lunga durata, in cui molte situazioni, giuridiche, di rapporti tra le parti, etc., possono mutare nel tempo tanto da far insorgere una lite anche trascorso un notevole lasso temporale dalla stipula. Il legislatore, pertanto, ha certamente inteso includere le categorie in parola nel novero di quelle soggette alla c.d. “mediazione obbligatoria” mirando all’ottenimento di un rilevante effetto deflattivo. Il Codice civile disciplina i contratti assicurativi nel Libro Quarto, Titolo III, Capo XX, e precisamente negli artt. 1882 – 1933, definendo l’assicurazione come il contratto con il quale “…l'assicuratore, verso pagamento di un premio, si obbliga a rivalere l'assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro, ovvero a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana” (art. 1882 c.c.) e stabilendo, sotto il profilo soggettivo, che “L'impresa di assicurazione non può essere esercitata che da un istituto di diritto pubblico o da una società per azioni e con l'osservanza delle norme stabilite dalle leggi speciali”. Come è ben noto, sussistono le più svariate tipologie di contratti assicurativi, aventi ciascuna l’obiettivo di coprire i più diversi ambiti della vita e delle attività professionali ed economiche. Si pensi, innanzitutto, all’assicurazione sulla vita, laddove, al fine di fornire tutela ai propri congiunti in caso di morte, si sottoscrive una polizza assicurativa, per l’appunto sulla vita, che garantirà ai familiari (o più in generale ai beneficiari), nell’ipotesi in cui l’evento si verifichi, quantomeno un ristoro economico. O all’assicurazione volta alla copertura delle spese di assistenza a lungo termine (c.d. long term care), come il ricovero in strutture sanitarie o l’assistenza domiciliare in caso di perdita dell’autosufficienza. Ma si pensi anche all’assicurazione sulla proprietà,ipotesi in cui, al fine di garantirsi il rimborso delle spese occorrenti per la ricostruzione o per le riparazioni della casa in caso di eventi disastrosi, il proprietario di un immobile sottoscrive un’assicurazione sullo stesso per le ipotesi di alluvione, incendio, terremoto o, ad esempio, danni provocati da atti vandalici. O, ancora, all’assicurazione per responsabilità civile generale,finalizzata a garantire una copertura per l’ipotesi di danni cagionati a terzi, ad esempio nel corso delle proprie normali attività commerciali. Ovvero alla RC professionale, vale adire l’assicurazione di responsabilità civile professionale sottoscritta da un professionista al fine di tutelarsi da eventuali richieste di risarcimento da parte dei propri clienti nel caso di danni causati da errori o negligenze professionali. Ma si pensi anche ad ipotesi come l’assicurazione credito commerciale, dove l’assicurazione è volta a proteggere l’azienda che la stipula nell’eventualità di mancato pagamento da parte dei clienti per le forniture di beni o servizi o come l’assicurazione di tutela legale, in cui l’azienda o il soggetto privato mirano a garantirsi in ordine ai costi derivanti dalle spese legali relative all’ipotesi di coinvolgimento in controversie giudiziali. Oppure al caso, assai frequente nella pratica, di assicurazione viaggi, in cui il viaggiatore sottoscrive una polizza assicurativa tale da garantirgli un ristoro nel caso di spese mediche durante il viaggio o addirittura di rientro obbligato in caso di emergenza, ma anche nelle ipotesi di smarrimento di bagagli, di cancellazione di un volo, etc. Quelli che precedono non sono che indicazioni esemplificative, ma valgono a fornire un’idea della vastità degli ambiti della vita in cui può risultare opportuna la scelta in favore della stipula di un contratto assicurativo. Ora, come in tutti rapporti contrattuali, stante il relativo insorgere di obblighi in capo alle parti, anche nel campo che ci occupa è frequente l’insorgere di controversie: ad esempio in materia di pagamento di un indennizzo (o di un premio) o di contestazione da parte del contraente del contenuto di una o più clausole ritenute sfavorevoli o addirittura vessatorie. Naturalmente, data l’estrema variabilità delle tipologie contrattuali, altrettanto variegato si presenta il novero delle controversie in materia e, quindi, stante la previsione di cui all’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010, dei relativi procedimenti di mediazione. Innanzitutto, data la frequenza che le caratterizza, occorre considerare le ipotesi di controversie inerenti al diniego della copertura assicurativa ovvero alla sottostima dei danni lamentati. Le prime insorgono allorché la compagnia assicurativa nega la copertura del danno derivante da un sinistro, ritenendo le circostanze dello stesso non riconducibili alle condizioni previste dalla polizza, mentre, nella seconda ipotesi, il conflitto è originato dalla valutazione dei danni da parte dell’assicuratore, ritenuta dall’assicurato incongrua. Altra fattispecie assai ricorrente nell’ambito del contenzioso in materia di contratti assicurativi e quella relativa ai danni cagionati al patrimonio dell’assicurato dal ritardato pagamento da parte dell’assicurazione dei risarcimenti dovuti. Assai spesso, poi, il contendere riguarda l’interpretazione delle clausole di esclusione che limitano la copertura in presenza di determinate circostanze, spesso correlate all’entità del danno o all’individuazione della responsabilità. Vanno poi considerate le controversie afferenti al mutamento delle condizioni della polizza, scaturenti dalla decisione dell’assicurazione di modificare le condizioni di polizza senza acquisire il consenso ovvero senza dare adeguato preavviso all’assicurato, con conseguente ricaduta, negativa per quest’ultimo, in termini di ampiezza della copertura o di entità dei premi, o relative, addirittura, all’annullamento della polizza, controversie, queste ultime, che spesso si verificano nell’ipotesi di scoperta, da parte della compagnia, di informazioni non comunicate o comunicate in modo falso nel corso della fase di stipula del contratto. Un cenno, infine, ai casi in cui le controversie sono originate dalla circostanza che più sinistri vengano a verificarsi in un lasso temporale ristretto, con conseguente contestazione, da parte dell’assicuratore, in ordine alla natura o alla frequenza di detti eventi. Ora rientrando tutte le controversie esemplificate nell’ambito dei contratti assicurativi, il primo passaggio che si renderà necessario, per la parte contrattuale che intenda ottenere tutela, è, come si è detto, rappresentato dalla necessità di depositare una domanda di mediazione presso un organismo territorialmente competente. Si tratta, al netto delle considerazioni che saranno svolte a breve, di un’opportunità da non sottovalutare, come inevitabilmente accadrebbe nel caso in cui si vedesse nella mediazione un mero passaggio necessario per approdare alla sede giudiziale (il che, per inciso, andrebbe in rotta di collisione frontale con gli obiettivi deflattivi perseguiti dal legislatore). In altri termini, non dovrebbe sottostimarsi il dato rappresentato dal fatto che per il tramite della mediazione è possibile pervenire ai medesimi risultati attingibili con il giudizio, ma beneficiando di alcuni fondamentali vantaggi: tempi ristretti e costi limitati, partecipazione effettiva sotto il profilo personale e, quindi, maggior “controllo” sul procedimento, possibilità di risoluzione, nell’ambito dello stesso, di questioni controverse non facenti tecnicamente parte della lite ma ad essa strettamente collegate, possibilità, in sintesi, di addivenire ad una soluzione condivisa elaborata dalle parti stesse. Ciò premesso, non può in queste brevi note sottacersi come l’esperienza ad oggi maturata mostri che l’intento deflattivo perseguito dal legislatore – con riferimento all’ambito dei contratti assicurativi – sia stato in notevole misura disatteso dalla scarsa propensione delle compagnie assicurative alla partecipazione alle procedure di mediazione. E’ infatti frequente la non adesione delle assicurazioni al procedimento, con conseguente conclusione negativa dello stesso, nell’ottica di rinviare ogni eventuale valutazione d’ordine transattivo alla futura fase giudiziale della controversia. In sostanza, spesso le assicurazioni evitano di concludere accordi conciliativi in mediazione quando ritengano di avere alternative migliori rispetto all’accordo medesimo, tenuto conto anche dei valori di resistenza, propri ed altrui, questi ultimi risultando, ove si tengano in adeguato conto i tempi e i costi del giudizio, ad esse il più delle volte favorevoli. Certamente tempi di giustizia considerevolmente più contenuti favorirebbero sensibilmente risoluzioni negoziate, vale a dire conciliative, delle controversie relative a settori così rilevanti e così caratterizzati da intrinseco “squilibrio” tra le parti in lite. A tale proposito, peraltro, giova ricordare che con la riforma c.d. Cartabia (D.lgs 149/2022 attuativo delle deleghe di cui alla L. 206/2021) è stato introdotto il nuovo art. 12 – bis, D.lgs 28/2010, che ha modificato l’impianto sanzionatorio precedentemente vigente in tema di mancata partecipazione al procedimento di mediazione. Come ben noto, già in forza dell’assetto consolidatosi in conseguenza della conversione del c.d. “decreto del fare”, si prefiguravano conseguenze rilevanti con riferimento all’ipotesi di mancata partecipazione al procedimento di mediazione ritenuta in sede giudiziale priva di giustificato motivo, vale a dire non solo la possibilità per il giudice di trarre, dal predetto comportamento omissivo, argomenti di prova ex art. 116, co. 2, c.p.c., ma anche e soprattutto la condanna della parte ritenuta ingiustificatamente renitente, nelle ipotesi di obbligatorietà del tentativo, al pagamento di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio. Il quadro normativo post-riforma, come poc’anzi accennato, è stato assoggettato a notevoli modifiche. L’attuale art. 12 – bis, D.lgs 28/2010, in vigore dal 28 febbraio 2023, prevede infatti che “1. Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al primo incontro del procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. 2. Quando la mediazione costituisce condizione di procedibilità, il giudice condanna la parte costituita che non ha partecipato al primo incontro senza giustificato motivo al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al doppio del contributo unificato dovuto per il giudizio. 3. Nei casi di cui al comma 2, con il provvedimento che definisce il giudizio, il giudice, se richiesto, può altresì condannare la parte soccombente che non ha partecipato alla mediazione al pagamento in favore della controparte di una somma equitativamente determinata in misura non superiore nel massimo alle spese del giudizio maturate dopo la conclusione del procedimento di mediazione. 4. Quando provvede ai sensi del comma 2, il giudice trasmette copia del provvedimento adottato nei confronti di una delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, al pubblico ministero presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti, e copia del provvedimento adottato nei confronti di uno dei soggetti vigilati all'autorità di vigilanza competente”. La situazione, come è agevole rilevare, è dunque radicalmente mutata, in particolare con riferimento alle sanzioni irrogabili dal giudice ed all’entità delle stesse. Innanzitutto, la mancata partecipazione al procedimento di mediazione che sia ritenuta priva di giustificato motivo può indurre il giudice a desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, co. 2, c.p.c. Si noti, data la portata generale del tenore del primo comma del predetto art. 12 – bis, che tale conseguenza potrà ben derivare anche dalla mancata partecipazione ad un procedimento avviato volontariamente. Con riferimento specifico alle ipotesi in cui la mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale (ratione materiae ovvero in quanto delegata dal giudice ai sensi dell’art. 5 –quater, D.lgs 28/2010 o ancora in quanto prevista come step necessario da una clausola contrattuale), e quindi anche nel caso della materia che ci occupa, ossia i contratti assicurativi, il legislatore ha aggravato le conseguenze della mancata partecipazione, raddoppiando l’entità della sanzione (doppio del valore del contributo unificato dovuto per il giudizio); va rilevata la chiarezza del dato testuale, secondo cui – laddove l’assenza in mediazione sia ritenuta non giustificata – il giudice “condanna la parte costituita”: il giudice non è dunque facoltizzato ad irrogare la sanzione, dovrà senz’altro irrogarla laddove, per l’appunto, ritenga la mancata partecipazione priva di giustificato motivo. Detta sanzione prescinde totalmente dalla soccombenza nel successivo giudizio, atteso che, in attuazione del principio di causalità, mira a sanzionare la parte che, sottraendosi alla procedura stragiudiziale, provoca il giudizio: di conseguenza ben potrà essere irrogata fin dalla prima udienza. Dovrà quindi considerarsi ingiustificata la mancata partecipazione di chi non motivi affatto tale proprio comportamento omissivo, mentre dovranno valutarsi caso per caso, da parte del giudice, le eventuali motivazioni addotte a giustificazione dell’assenza in mediazione. Secondo una ormai consolidata giurisprudenza, peraltro, la parte non può limitarsi ad opporre quale giustificato motivo della mancata partecipazione alla mediazione, l’asserzione aprioristica che la propria posizione sia fondata rispetto alle tesi della controparte, poiché ammettendo ciò sussisterebbe sempre e comunque in capo a chiunque un giustificato motivo per non comparire. Poiché, invece, la mediazione nasce da un contrasto tra le parti che il mediatore tenta di dirimere riallacciando canali di dialogo, non possono logicamente trovare diritto di cittadinanza prese di posizione preconcette fondate sulla giustezza delle proprie ragioni, occorrendo, invece, una partecipazione effettiva. Il tempo dirà se tanto varrà a modificare il diffuso atteggiamento “agnostico” tenuto dalle compagnie assicurative nei confronti dell’istituto della mediazione.

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Pubblichiamo qui di seguito l’ulteriore proposta di emendamento relativo al ripristino dell’obbligatorietà della mediazione presentata dagli on. Occhiuto (primo firmatario), Ciccanti e Calgaro. Testo depositato il 31 ottobre 2012 alla Commissione V, Camera dei Deputati, a firma Occhiuto, Ciccanti e Calgaro A.C. 5534-bis EMENDAMENTO ART. 3 Dopo il comma 20 aggiungere il seguente: 20-bis. Al Decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, sono apportate le seguenti modifiche: a) il comma 1, dell'articolo 5, è sostituito dal seguente: "1. Chi intende esercitare in tutti i gradi di giudizio un'azione relativa a una controversia vertente su diritti disponibili è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del Decreto Legislativo 4 marzo 2010, n. 28, ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell'articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L'esperimento del procedimento di mediazione e' condizione di procedibilita' della domanda giudiziale. L'improcedibilita' deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione e' gia' iniziata, ma non si e' conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all'articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non e' stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni. L'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all'articolo 6, D.Lgs. n. 28/2010. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione"; b) all'articolo 5 dopo il comma 6 è aggiunto il seguente: 6-bis. Le disposizioni di cui al comma 1 rimangono in vigore per cinque anni decorrenti dalla data di pubblicazione della presente legge sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana; c) il comma 5 dell'articolo 8 è sostituito dal seguente: "5. Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice puo' desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Con ordinanza non impugnabile pronunciata d'ufficio alla prima udienza di comparizione delle parti, ovvero all'udienza successiva di cui al comma 1, il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dal comma 1, non ha partecipato al procedimento di mediazione senza giustificato motivo, al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo pari al doppio del contributo unificato dovuto per il giudizio". Occhiuto Ciccanti Calgaro
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Con il contratto di subfornitura, un imprenditore si impegna a compiere per conto di un’impresa committente (talvolta detta general contractor e contrapposta al subcontractor) lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dallo stesso committente, ovvero si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente. Nei rapporti di subfornitura tipicamente la progettazione del prodotto da realizzarsi e la definizione delle sue specifiche tecniche sono appannaggio esclusivo dell'impresa committente, alle cui indicazioni il subfornitore sottostà completamente. Soprattutto quando il prodotto è ad alto livello tecnico, il committente fornisce al subfornitore anche le materie prime o le attrezzature (ad esempio, gli stampi) necessarie per la sua realizzazione (fabbricazione e/o collaudo), o ne impone il processo produttivo. Esempio: il committente (ad es. una casa automobilistica) invece di provvedere in proprio a tutte le fasi di produzione, si avvale di altre imprese per la produzione di parti del prodotto finale (ad es. la parte elettrica dell'autovettura) impartendo istruzioni ed anche fornendo materiali al fornitore.

CONTRATTO DI SUBFORNITURA: FORMA E CONTENUTO

Il contratto di subfornitura è stato introdotto con Legge 18-6-1998, n. 192 (avente valore speciale e in grado di derogare la normativa generale relativa ai contratti e alle obbligazioni), in considerazione della posizione di debolezza economica e contrattuale nella quale può venirsi a trovare il subfornitore, e detta specifiche regole finalizzate alla tutela di quest’ultimo da possibili abusi del committente. La normativa non introduce una nuova forma contrattuale, bensì ne delinea i caratteri dei rapporti intercorrenti tra imprese. Si delinea così il decentramentro produttivo, ovverosia l’affidamento a imprese minori, da parte di imprese più gradi, di lavori lavori di predisposizione di un prodotto finale o dello svolgimento di talune fasi di un processo produttivo. Innanzitutto il contratto deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità. Costituiscono forma scritta le comunicazioni degli atti di consenso alla conclusione o alla modificazione dei contratti effettuate per telefax o altra via telematica. In caso di nullità il subfornitore ha comunque diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell’esecuzione del contratto. Nel caso di proposta inviata dal committente non seguita da accettazione scritta del subfornitore, il quale però abbia iniziato le lavorazioni o le forniture, il contratto si considera concluso. Nel contratto devono essere precisati:
  • i requisiti del bene o del servizio richiesti dal committente;
  • il prezzo pattuito;
  • i termini e le modalità di consegna, di collaudo, di pagamento.

TERMINI DI PAGAMENTO

  • Il prezzo pattuito deve essere corrisposto in un termine che non può eccedere i sessanta giorni dal momento della consegna del bene o della comunicazione dell’avvenuta esecuzione della prestazione; tale termine è derogabile dalle parti (nei limiti, comunque, dei novanta giorni);
  • in caso di mancato rispetto del termine di pagamento il committente deve al subfornitore, senza bisogno di costituzione in mora, un interesse determinato in misura pari al saggio d’interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea;
  • nell’ipotesi in cui il ritardo nel pagamento superi i trenta giorni, il committente dovrà anche pagare una penale pari al 5% dell’importo pattuito;
  • in ogni caso, la mancata corresponsione del prezzo entro i termini pattuiti costituisce titolo per l’ottenimento di ingiunzione di pagamento provvisoriamente esecutiva ai sensi degli artt. 633 e ss. c.p.c.
  • significative modifiche e varianti apportate al progetto in corso d’opera, che producano comunque incrementi dei costi, su richiesta del committente, comportano per il subfornitore l’adeguamento del prezzo, anche se non previsto dal contratto.

DIVIETO DI INTERPOSIZIONE E OBBLIGHI DEL SUBFORNITORE

La fornitura non può, a sua volta, essere ulteriormente affidata in subfornitura senza l’autorizzazione del committente per una quota superiore al 50% del valore, salvo che le parti nel contratto non abbiano indicato una misura maggiore. Il subfornitore:
  • è responsabile del funzionamento e della qualità del prodotto o servizio fornito;
  • deve tempestivamente segnalare difetti di materiali o di attrezzi fornitigli dal committente.

ABUSO DI DIPEDENZA ECONOMICA

È vietato l’abuso, da parte di un’impresa, dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi riguardi, un’impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. L’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. Il patto attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo; il giudice può inibire tale condotta e condannare l’impresa al risarcimento del danno; se l’abuso dà luogo a un comportamento anticoncorrenziale, possono scattare i rimedi della legge antitrust.

DIFFERENZA TRA SUBFORNITURA E SUBAPPALTO

Occorre evidenziare le differenze fra il contratto di subappalto, caratterizzato dal coinvolgimento dell’assetto imprenditoriale dell’impresa subappaltatrice nell’attività dell’impresa aggiudicataria dell’appalto dal contratto di subfornitura, il quale prevede l’inserimento del subfornitore in un determinato livello del processo produttivo, sotto le direttive del fornitore che determinano la dipendenza tecnica del subfornitore quanto a progetto, specifiche e know how di realizzazione della subfornitura. L’inserimento del subfornitore nel ciclo produttivo del fornitore risulta l’elemento distintivo, con cui è richiesto che la lavorazione da parte del primo avvenga secondo la progettualità e le direttive tecniche impartite dal secondo (rispondenti alle esigenze di mercato da quest’ultimo intercettate), per cui la cosiddetta dipendenza tecnica si pone come il risvolto operativo attraverso il quale normalmente si denota la dipendenza economica, di cui è elemento qualificante e sintomatico. Il negozio subfornitura commerciale si distingue dal sub-appalto d’opera o di servizi, nel quale il subappaltatore è chiamato, nel raggiungimento del risultato, ad una prestazione rispondente ad autonomia non solo organizzativa ed imprenditoriale, ma anche tecnico-esecutiva, con conseguente maggior ampiezza della sua responsabilità per i vizi della cosa e per la sua non perfetta rispondenza a quanto convenuto. Alla luce di quanto evidenziato è agevole prefigurare i principali scenari di lite in materia di subfornitura: ritardi o inadempimenti nei pagamenti dei corrispettivi per le forniture; richieste di sconti non pattuiti; imposizione di nuove specifiche tecniche, comportanti maggiori costi per il subfornitore; interruzioni del rapporto di subfornitura ovvero modificazione delle sue condizioni; responsabilità per i vizi, qualora il prodotto finale a manifesti il difetto e non risulta immediato stabilire se ciò dipende: da quanto realizzato dal subfornitore ovvero dal lavoro di assemblaggio eseguito dal committente ovvero dalla progettazione ovvero  da altri componenti riconducibili a soggetti terzi. È pertanto condivisibile l’opportunità colta dalla recente riforma Cartabia di estendere l’obbligatorietà della mediazione ai predetti rapporti di subfornitura.

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Per avviare un procedimento di mediazione ai fini della composizione bonaria della controversia esistente, occorre presentare una specifica istanza ad ADR Intesa.