AVVIA UNA MEDIAZIONE: PER AVVIARE UN PROCEDIMENTO OCCORRE PRESENTARE UNA SPECIFICA ISTANZA.

AVVIA UNA MEDIAZIONE

Riforma Cartabia

Le successioni ereditarie costituiscono, fin dall’entrata in vigore dell’originario testo del D.lgs 28/2010, una delle materie in cui la mediazione si pone quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale. In sostanza, dunque, prima di iniziare una causa in materia successoria, il legislatore ha previsto il necessario esperimento di un tentativo di conciliazione tra le parti, notevolmente meno oneroso oltre che più rapido ed informale rispetto al giudizio e che, come meglio si vedrà in seguito, sembra ben adattarsi alle controversie relative alle successioni ereditarie. Basti pensare alla durata di una causa civile in materia ereditaria ed ai costi della stessa, tra onorari dei legali, pagamento delle perizie e spese legali da sostenere, con la conseguenza che – ipotesi assai frequente – pendente la causa il compendio successorio non venga goduto dagli eredi né messo a frutto, potendo, quindi, subire diminuzioni di valore anche consistenti. Ora, come ben noto la materia successoria è caratterizzata da notevole complessità, ed è tutt’altro che raro che possano insorgere controversie tra coloro i quali ritengano di poter vantare diritti sui beni del de cuius. D’altra parte, l’importanza fondamentale del diritto successorio è di tutta evidenza, dal momento che si tratta del complesso di norme volte a determinare, al momento del decesso di un soggetto, chi siano i titolari del diritto di ereditarne i beni ed a quali condizioni. Come è noto, la struttura del diritto delle successioni si basa su due pilastri fondamentali: la successione legittima e la successione testamentaria. Nella prima ipotesi la vocazione ereditaria avviene senza che il defunto abbia lasciato testamento (ab intestato) e le relative disposizioni mirano a regolare la ripartizione dei beni. La successione testamentaria si fonda invece sulle volontà espresse dal de cuius nel testamento, che l’art. 587 c.c. definisce in termini di "…atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse. Le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale". La successione legittima, quindi, si verifica quando il de cuius non abbia lasciato un testamento. Secondo l’art. 565 c.c., infatti, “Nella successione legittima l'eredità si devolve al coniuge, ai discendenti, agli ascendenti, ai collaterali, agli altri parenti e allo Stato nell'ordine e secondo le regole stabilite nel presente titolo”: la legge stabilisce cioè chi siano gli eredi e in quale proporzione debbano ereditare (ad esempio, nel caso in cui al de cuius sopravvivano il coniuge ed un figlio, il patrimonio dovrà essere diviso a metà tra i due soggetti legittimati; nel caso in cui al medesimo sopravvivano il coniuge e due o più figli un terzo del patrimonio spetterà al coniuge e i due terzi ai figli, etc). Il testamento, invece, consente al soggetto che lo redige di poter disporre in autonomia dei propri beni post mortem, potendo dunque includere tra i beneficiari persone non rientranti nel novero degli eredi legittimi, tuttavia con il fondamentale limite rappresentato dal rispetto delle quote di legittima, ossia delle quote stabilite dalla legge per gli eredi legittimi. Ai sensi dell’art. 488 c.c. “Le disposizioni testamentarie, qualunque sia l'espressione o la denominazione usata dal testatore, sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede, se comprendono l'universalità o una quota dei beni del testatore. Le altre disposizioni sono a titolo particolare e attribuiscono la qualità di legatario”. La forma di testamento più semplice è il testamento olografo (art. 602 c.c.). Per redigerlo è infatti sufficiente scrivere di proprio pugno (a mano) le disposizioni di ultima volontà su qualunque foglio, datarle e sottoscriverle. Il testamento pubblico, invece, è quello ricevuto dal notaio in presenza di due testimoni. In questo caso “Il testatore, in presenza dei testimoni, dichiara al notaio la sua volontà, la quale è ridotta in iscritto a cura del notaio stesso. Questi dà lettura del testamento al testatore in presenza dei testimoni. Di ciascuna di tali formalità è fatta menzione nel testamento” (art 603 c.c.). Certamente, la redazione del testamento rappresenta un atto di grande responsabilità e previdenza, in quanto consente di gestire la propria eredità secondo le proprie volontà, tenendo ben presente che in assenza dello stesso troveranno applicazione le (necessariamente) rigide regole della successione legittima, che potrebbero non riflettere le effettive intenzioni personali del de cuius. In molti casi, inoltre, l’intento del testatore – speso disatteso – è proprio quello di prevenire l’insorgere di controversie tra i potenziali eredi. Se la funzione del testamento è quella di consentire al testatore di esprimere le proprie volontà in ordine all’eredità, le quote di legittima – vale a dire le parti dell’eredità che la legge riserva agli eredi legittimi, indipendentemente dalle disposizioni di un testamento – trovano la propria ragion d’essere nell’esigenza di protezione di congiunti stretti – come coniuge e figli o, il loro assenza, altri parenti prossimi come ad esempio i genitori del defunto – garantendo loro una porzione adeguata del patrimonio del de cuius. Naturalmente, come accennato in precedenza, la consistenza della quota di legittima varia in funzione della tipologia e del numero degli eredi. Ai sensi dell’art. 470 c.c. l'eredità può essere accettata puramente e semplicemente ovvero con beneficio d'inventario, anche nell’ipotesi in cui sussista, per questa seconda ipotesi, un qualunque divieto del testatore. Per converso, l’art. 519 c.c. prevede che “La rinunzia all'eredità deve farsi con dichiarazione, ricevuta da un notaio o dal cancelliere del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione, e inserita nel registro delle successioni”. La rinuncia all’eredità è una decisione formale attraverso cui un potenziale erede sceglie di non accettare la successione a cui sarebbe altrimenti destinato, opzione che può avvenire per diversi ordini di ragioni, come ad esempio l’esistenza di una situazione debitoria eccedente il valore dei beni, e quindi la necessità di evitare l’assunzione di responsabilità finanziarie ritenute eccessivamente onerose; o, ancora, l’esistenza di situazioni di conflittualità familiare, che potrebbero consigliare una scelta volta ad evitare procedure legali complesse e costose ovvero rapporti non graditi con altri membri della famiglia, etc. In ogni caso, una volta formalizzata, la rinuncia è irrevocabile, di talché il rinunziante non può, in un secondo tempo, mutare la propria decisione. La rinuncia all’eredità implica naturalmente diverse conseguenze, come il trasferimento della quota agli altri eredi: la quota di eredità del rinunziante viene generalmente distribuita tra gli altri eredi legittimi secondo le regole della successione legittima, salva l’ipotesi in cui sussista un testamento che diversamente disponga, in ogni caso nel rispetto delle quote dei legittimari; ovvero come l’esclusione da ulteriori diritti e obbligazioni: il rinunziante viene ad essere escluso da ogni diritto e da ogni obbligo connesso all’eredità compresi i debiti. In queste brevi note non può prescindersi da un cenno relativi alle tasse sulla successione (rectius: imposta sulle successioni e donazioni), dovuta dagli eredi per i beni e diritti ereditati. L’imposta si applica alla base imponibile dei beni, ovvero sul loro valore, eccedendo però la franchigia prevista in base al rapporto di parentela che intercorre tra il beneficiario e chi è venuto a mancare.
La tassa di successione è dovuta dagli eredi e dai legatari. La dichiarazione di successione deve essere presentata entro dodici mesi dalla data del decesso, che coincide con l’apertura della successione. Dette imposte incidono significativamente sulla trasmissione del patrimonio agli eredi. Come accennato, sono calcolate in base al valore dei beni ereditati e sono caratterizzate da aliquote e franchigie che differiscono in base al legame di parentela: ad esempio, per il coniuge e i figli l’imposta prevede un’aliquota favorevole, con una franchigia, vale a dire con un importo esente da tassazione, tale da ridurre considerevolmente l’onere fiscale, mentre per i fratelli e le sorelle o addirittura per soggetti terzi le aliquote sono maggiorie e le franchigie progressivamente più limitate. Peraltro, l’ordinamento prevede anche riduzioni ed esenzioni fiscali, vale a dire misure che permettono di ridurre o eliminare l’imposta di successione in relazione a determinati beneficiari o a determinate categorie di beni. Ad esempio, le esenzioni per il coniuge e per i figli minorenni: si tratta di eredi che beneficiano di franchigie particolarmente rilevanti, tali da ridurre l’imposta dovuta o, in funzione del valore dell’eredità ricevuta, addirittura da annullarla completamente; ovvero, le esenzioni previste con riferimento a beni che rivestano particolare interesse storico o culturale, i quali, data per l’appunto la loro rilevanza storica o culturale, possono essere esentati dall’imposta di successione al fine di incentivarne la conservazione. Ora, all’esito delle brevi note che precedono, occorre rilevare come, naturalmente, sia tutt’altro che infrequente l’insorgere di controversie tra coloro che ritengono di poter vantare dei diritti sui beni del de cuius. Sembra pertanto opportuno un cenno alle principali azioni previste dall’ordinamento, considerando che in relazioni alle stesse la mediazione si pone come condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Innanzitutto, l’azione di petizione di eredità. L’art. 533 c.c. prevede che “L'erede può chiedere il riconoscimento della sua qualità ereditaria contro chiunque possiede tutti o parte dei beni ereditari a titolo di erede o senza titolo alcuno, allo scopo di ottenere la restituzione dei beni medesimi. L'azione è imprescrittibile, salvi gli effetti dell'usucapione rispetto ai singoli beni”. In sostanza, dunque, l’erede può chiedere il riconoscimento della propria qualità nei confronti di coloro che posseggono i beni ereditari a titolo di erede o sine titulo, per il tramite di un’azione non soggetta a termine, fermo restando che, in carenza di fatti interruttivi, il possessore potrà comunque chiedere, in presenza dei requisiti di legge, l’acquisizione del bene per usucapione. Occorre poi considerare l’azione di reintegrazione della quota riservata ai legittimari. Come si è già avuto modo di accennare in precedenza, i legittimari sono quei soggetti che hanno diritto ad una determinata quota del patrimonio ereditario, che non può essere lesa dalla volontà del testatore, in quanto legati in modo particolarmente stretto con il de cuius: il coniuge, i figli, etc. Di conseguenza l’ordinamento riconosce il diritto di avviare un’azione che consenta ai soggetti di cui sopra di reintegrare la loro quota mediante la riduzione delle quote degli eredi legittimi, ovvero di coloro ai quali il testatore abbia fatto delle donazioni e, ancora, di coloro ai quali il testatore abbia lasciato più di quanto consentito dalla legge. Si tratta, peraltro, di azione soggetta a termine di prescrizione di 10 anni, decorrenti dall’apertura della successione. Assai frequente, poi, è il ricorso all’azione di impugnazione del testamento. Come già visto, qualora le disposizioni testamentarie abbiano leso i diritti riconosciuti dalla legge ai legittimari, gli stessi potranno impugnarle al fine di far valere le proprie ragioni. Naturalmente, tuttavia, al di là dei casi da ultimo evidenziati, occorre considerare come il testamento, stanti le precise regole in materia previste dall’ordinamento, variabili in funzione della tipologia del medesimo, sia un atto impugnabile da coloro i quali intendano farne valere la nullità ovvero richiederne l’annullamento. Si pensi alle ipotesi di falsità del testamento, che si verifica quando il documento non è redatto dal testatore effettivo, ovvero all’ipotesi di testamento redatto in presenza di un vizio della volontà del testatore, riscontrabile ad esempio quando lo stesso sia stato indotto a redigerlo in presenza di dolo o violenza. Si consideri, peraltro, che i termini per l’impugnazione del testamento sono variabili. Nelle ipotesi più gravi di nullità, ad esempio allorché lo stesso sia redatto in violazione del divieto di patti successori (art. 458 c.c.), non sussiste un termine di prescrizione da rispettare. Laddove invece il testamento risulti affetto da vizi di minor gravità rispetto a quelli tali da determinarne la nullità, l’azione è assoggettata a termine quinquennale, decorrente dal giorno in cui è stata data esecuzione elle disposizioni testamentarie. Infine, un cenno all’azione di divisione ereditaria. Si tratta dell’azione, diffusissima nella pratica, funzionale allo scioglimento della comunione ereditaria, situazione che si realizza allorquando l’eredità venga acquisita da una pluralità di soggetti. L’importanza di detta azione è evidente: con essa ciascun erede acquista la proprietà esclusiva del bene con efficacia retroattiva, venendo a cessare, al contempo, i suoi diritti sugli altri beni. Ora, posto che in tutte le situazioni considerate, in presenza di contenzioso insorto o insorgendo, la mediazione deve comunque essere esperita, in quanto condizione di procedibilità della domanda giudiziale (art. 5, co. 1, D.lgs 28/2010), occorre sottolineare come l’istituto in parola possa effettivamente rappresentare la modalità più utile e vantaggiosa, soprattutto sotto il profilo economico, come si vedrà tra breve, per addivenire allo scioglimento di una comunione di beni. Innanzitutto, ad avviso di chi scrive, va considerato un aspetto preliminare: trattandosi di controversie relative a beni, tanto mobili che immobili, in cui le parti sono di regola in rapporti di parentela, o comunque hanno avuto in passato relazioni caratterizzati da una forte componente afferente il piano dell’affettività, con conseguente complessità soprattutto sotto il profilo psicologico, la mediazione, con l’informalità che la caratterizza e con il contributo del terzo neutrale, potrà realmente rappresentare la sede più idonea a consentire l’emersione degli interessi più reconditi delle parti. Si tratta di mediazioni nelle quali, fermo il valore venale dei beni ed il conseguente interesse economico, molto spesso acquisisce una valenza preponderante il valore affettivo dei beni medesimi, derivante dal rapporto esistenziale intercorso o intercorrente tra gli stessi e le parti. D’altra parte, il fine della mediazione in materia di successioni ereditarie è precipuamente quello dell’attribuzione a ciascun soggetto della propria quota di diritti, il che non significa necessariamente che venuto meno il legame giuridicamente rilevante non persistano rapporti parentali e affettivi. Si consideri inoltre che per il tramite della mediazione è possibile pervenire ai medesimi risultati attingibili con il giudizio, ma beneficiando di alcuni fondamentali vantaggi: tempi ristretti e costi limitati, partecipazione effettiva sotto il profilo personale e quindi anche emozionale, possibilità di risoluzione, nell’ambito del singolo procedimento, di questioni controverse non facenti tecnicamente parte della vicenda successoria stricto sensu intesa, ma ad essa strettamente collegate, possibilità, in sintesi, di addivenire ad una soluzione condivisa elaborata dalle parti stesse (e, naturalmente, dai propri consulenti tecnici di fiducia). Il tutto, naturalmente, rammentando che l’accordo ha efficacia di titolo esecutivo, allo stesso modo della sentenza, e potrà essere trascritto nei pubblici registri mobiliari o immobiliari, con il considerevole – e spesso determinante – vantaggio economico derivante dal regime fiscale di cui all’art. 17, D.lgs 28/2010, che prevede l’esenzione dall’imposta di bollo e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura ivi comprese le imposte ipotecarie e catastali e, soprattutto, l’esenzione dall’imposta di registro entro il limite di valore di 100.000 euro, altrimenti l'imposta è dovuta per la parte eccedente. Sulla base di quanto precede appare evidente come possa risultare conveniente l’utilizzo del procedimento di mediazione al fine di evitare l’insorgere di un conflitto, vale a dire in assenza di contenzioso già sussistente circa la successione ereditaria, mediante l’avvio congiunto della procedura. A conclusione delle presenti brevi note una ulteriore notazione. Laddove le parti raggiungano un accordo conciliativo in mediazione in materia di successioni ereditarie, esso può essere direttamente trascritto, previa autentica notarile. Prevede infatti l’art. 11, co. 7, D.lgs 28/2010, che “Se con l'accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall'articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione dell'accordo di conciliazione deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”.

MAGGIORI INFO? CONTATTACI

Leggi di più

Il Codice civile, come è noto, definisce l’azienda come il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per esercitare l’impresa (art. 2555), con il logico corollario che l'azienda rappresenta lo strumento principale per lo svolgimento dell'attività economica dell'imprenditore e che i beni sono aziendali in quanto funzionalmente collegati all'esercizio dell'impresa.

Naturalmente, il proprietario del complesso di beni costituente l’azienda può cederne l’uso ad un diverso soggetto verso il pagamento di un corrispettivo, detto canone. Peraltro, non è necessario che il trasferimento comprenda la totalità dei beni costituenti il complesso aziendale, risultando sufficiente che abbia ad oggetto un’articolazione funzionalmente autonoma che al predetto complesso sia riconducibile (il ramo d’azienda).

Il contratto di affitto di azienda può essere utilizzato con riferimento a qualsivoglia tipologia di impresa e di attività economica: esempi tipici sono rappresentati dal settore alberghiero e da quello della ristorazione.

Va rilevato come, spesso, il contratto in parola venga utilizzato quale fase anticipatoria rispetto alla cessione definitiva dell’azienda: in tal modo, evidentemente, il proprietario potrà garantirsi un rendimento costante per un determinato lasso temporale, mentre l’affittuario avrà la possibilità di valutare concretamente la redditività dell’azienda.

L’affitto di azienda non trova, all’interno del Codice civile, una disciplina organica. 

L’art. 2562 c.c. si limita, in effetti, a rinviare alle disposizioni di cui al precedente art. 2561 c.c., relative all’usufrutto di azienda. Pertanto, all’affitto di azienda potranno applicarsi le norme sull’affitto in generale e quelle sulla locazione, naturalmente laddove risultino compatibili con le poche disposizioni espressamente dedicate al contratto in oggetto. In presenza pertanto di una disciplina codicistica avente natura prevalentemente dispositiva, è di peculiare importanza che le parti predispongano clausole contrattuali particolarmente precise ed esaustive.

Ai sensi dell’art. 2557 c.c. “Chi aliena l'azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall'iniziare una nuova impresa che per l'oggetto, l'ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell'azienda ceduta”. I patti di astensione dalla concorrenza per lassi temporali più ampi sono validi”. Con riferimento, invece, all’usufrutto o all’affitto dell'azienda il divieto di concorrenza disposto dal primo comma vale nei confronti del proprietario o del locatore per la durata dell'usufrutto o dell'affitto (art. 2557, co. 4, c.c.). Peraltro, parte della giurisprudenza ha ritenuto la predetta disposizione applicabile in via estensiva anche all’affittuario; in altri termini, si è affermato che il divieto di concorrenza sussiste anche nei confronti dell’affittuario, successivamente alla scadenza del contratto di affitto.

L’affittuario dell’azienda, salvo che non sia diversamente stabilito dal contratto, a norma dell’art. 2558 c.c. subentra nei contratti già stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale e, ai sensi dell’art. 2561 c.c., è tenuto ad esercitare l’impresa sotto la ditta che la contraddistingue, al fine di dare continuità all’impresa e di evitare che l’affittuario svaluti o screditi il valore dell’impresa commerciale. L’affittuario pertanto, dovrà gestire l’azienda senza modificarne la destinazione e con modalità tali da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti, nonché le normali dotazioni di scorte, potendo incorrere, in caso contrario, nella condanna al risarcimento ovvero alla prestazione di garanzie (cfr. art. 1015 c.c.) o, infine, nella risoluzione del contratto per inadempimento.

Quanto alle forme, per il contratto di affitto dell’azienda non è prevista la forma scritta a pena di nullità, ma solo ai fini della prova, della pubblicità e della opponibilità ai terzi. 

A norma dell’art. 2556 c.c., infatti, il contratto di affitto di azienda deve essere iscritto nel Registro delle Imprese, di talché lo stesso dovrà essere redatto per iscritto, con la forma dell’atto pubblico o di scrittura privata autenticata, a cui dovrà seguire, entro 30 giorni, la pubblicità presso il Registro delle Imprese.

Nell’ipotesi di mancata iscrizione si determinerà un duplice ordine di conseguenze: da un lato, una sanzione amministrativa (ex art. 2914 c.c. con riferimento alle imprese individuali ed ex art. 2630 c.c. per le imprese esercitate in forma societaria); dall’altro, la mancata produzione degli effetti giuridici: il contratto non iscritto nel Registro delle Imprese risulterà bensì valido tra le parti, ma non potrà essere opposto ai terzi, salva la prova che gli stessi ne abbiano avuto conoscenza.

Tutto ciò premesso, e trasferendo ora la nostra attenzione al versante processuale, occorre rilevare come la legge delega n. 206 del 26 novembre 2021 (c.d. Riforma Cartabia) abbia previsto che la riforma del processo civile avrebbe dovuto estendere “…l’applicabilità della procedura di convalida, di licenza per scadenza del contratto e di sfratto per morosità anche ai contratti di comodato di beni immobili e di affitto d’azienda” (art. 1, co. 5, lett. r).

In effetti, il decreto legge n. 149 del 10 ottobre 2022 ha effettivamente modificato l’art. 657 c.p.c., relativo allo sfratto per finita locazione, prevedendo espressamente l’estensione della procedura di sfratto all’affitto d’azienda e al comodato di beni immobili; tuttavia, il successivo art. 658 c.p.c., relativo allo sfratto per morosità, è rimasto intatto: non si è prevista, in sostanza, l’estensione della procedura in parola all’affitto d’azienda e al comodato di beni immobili, il che ha comportato una situazione di contraddittorietà e di incertezza, tanto in dottrina quanto soprattutto in giurisprudenza, in ordine alla possibilità di applicazione in via interpretativa della procedura di sfratto per morosità all’affitto d’azienda.

Ora, muovendo dal presupposto rappresentato dal fatto che i procedimenti speciali sommari, categoria alla quale va ascritto a pieno titolo quello di convalida di sfratto, sono applicabili unicamente alle fattispecie espressamente previste, non potendosi dunque ricorrere all’analogia, alcuni Tribunali hanno ritenuto i contratti di affitto di azienda (o di ramo di azienda) esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 658 c.p.c., non convalidando, pertanto, lo sfratto intimato per morosità (ad es. Tribunale di Foggia, sez. II, 16 ottobre 2023; ma si veda anche, per una rappresentazione organica della problematica in parola, ”Orientamenti e prassi della Sezione nei procedimenti per convalida di sfratto”, Tribunale di Roma, maggio 2023).

Secondo una diversa interpretazione, l’art. 658 c.p.c. si applicherebbe a tutti i rapporti contrattuali indicati nell’art. 657 c.p.c., ai quali la c.d. riforma Cartabia ha aggiunto i contratti di affitto d’azienda. Sulla base di detto assunto, pertanto, diversi Tribunali hanno operato la convalida anche in caso di contratti di affitto di azienda (o ramo d’azienda), ritenendo applicabile tale procedura anche a tali casi (ad es. Tribunale di Verona, 11 luglio 2023, n. 3884; Tribunale di Nola, 13 novembre 2023, Tribunale di Milano, 18 dicembre 2023). Detta interpretazione “estensiva” invero appare conseguente alle posizioni giurisprudenziali che da tempo hanno sostenuto l’applicabilità del procedimento speciale dello sfratto per morosità anche nei confronti dell’affittuario coltivatore diretto, del mezzadro e del colono (rispettivamente: Cass. civ., 20 agosto 2015 n. 17008; Cass. civ., 8 agosto 1984, n. 4638; Trib. Milano 23 maggio 2003). 

Si rammenta che l’art. 363 – bis c.p.c., anch’esso introdotto dalla Riforma Cartabia, rubricato "Rinvio pregiudiziale", al fine di assicurare la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione e di evitare la possibile insorgenza di liti, anche in ottica deflattiva del contenzioso, prevede che “Il giudice di merito può disporre con ordinanza, sentite le parti costituite, il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione per la risoluzione di una questione esclusivamente di diritto, quando concorrono le seguenti condizioni: 1) la questione è necessaria alla definizione anche parziale del giudizio e non è stata ancora risolta dalla Corte di cassazione; 2) la questione presenta gravi difficoltà interpretative; 3) la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi. L'ordinanza che dispone il rinvio pregiudiziale è motivata, e con riferimento alla condizione di cui al numero 2) del primo comma reca specifica indicazione delle diverse interpretazioni possibili. Essa è immediatamente trasmessa alla Corte di cassazione ed è comunicata alle parti. Il procedimento è sospeso dal giorno in cui è depositata l'ordinanza, salvo il compimento degli atti urgenti e delle attività istruttorie non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale. Il primo presidente, ricevuta l'ordinanza di rinvio pregiudiziale, entro novanta giorni assegna la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice per l'enunciazione del principio di diritto, o dichiara con decreto l'inammissibilità della questione per la mancanza di una o più delle condizioni di cui al primo comma. La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza, con la requisitoria scritta del pubblico ministero e con facoltà per le parti costituite di depositare brevi memorie, nei termini di cui all'articolo 378. Con il provvedimento che definisce la questione è disposta la restituzione degli atti al giudice. il principio di diritto enunciato dalla Corte è vincolante nel procedimento nell'ambito del quale è stata rimessa la questione e, se questo si estingue, anche nel nuovo processo in cui è proposta la medesima domanda tra le stesse parti”.

In questo stato di cose, il Tribunale di Napoli, in applicazione della disposizione che precede, con ordinanza del 20 dicembre 2023, ha chiesto alla Corte di Cassazione di risolvere in via pregiudiziale la questione di diritto in parola, ossia di stabilire se, nei confronti dell’affittuario d’azienda, possa essere emessa l’ordinanza di sfratto per morosità nel pagamento dei canoni d’affitto, ex art. 658 c.p.c.

Con provvedimento adottato in data 13 febbraio 2024, il Primo Presidente della Corte di Cassazione ha ravvisato la sussistenza dei presupposti per la risoluzione della questione da parte della Corte di Cassazione ai sensi del menzionato art. 363 – bis c.p.c., trattandosi di questione necessaria per la definizione del giudizio davanti al Tribunale, suscettibile di porsi in numerosi giudizi e tale da presentare gravi difficoltà interpretative.

Giova peraltro rammentare che, nelle more, il Governo ha approvato uno schema di decreto legislativo, nel quale si prevede la modifica del testo dell’art. 658 c.p.c. venga modificato, inserendo espressamente l’affittuario d’azienda tra i soggetti nei cui confronti può essere emessa l’ordinanza di sfratto per morosità.

Ora, chi intenda avviare un giudizio in materia di affitto di azienda (o di affitto di ramo di azienda) è preliminarmente tenuto ad esperire il tentativo di mediazione.

Infatti, l’affitto di azienda, ai sensi dell’art. 5, D.lgs 28/2010, rientra nel novero delle materie rispetto alle quali la mediazione si pone quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Il che rappresenta, al di là dell’intento deflattivo perseguito dal legislatore, una notevole opportunità per le parti che si trovino ad essere coinvolte in una controversia in materia di affitto di azienda o di ramo di azienda, quella, cioè, di poter negoziare un accordo attraverso il quale evitare i costi, in termini di tempo e denaro, che dovrebbero altrimenti affrontare intentando un giudizio, oltretutto inevitabilmente caratterizzato da una notevole aleatorietà.

Le ragioni per le quali il legislatore ha optato per l’inserimento dell’affitto di azienda tra le materie assoggettate all’obbligo di mediazione appaiono chiare: si pensi, innanzitutto, al fatto che le imprese, per propria natura, producono (o dovrebbero produrre) profitti mentre, per converso, l’affitto dell’azienda fa sì che parte degli stessi venga ad essere trasferita al locatore. Di qui, inevitabilmente, l’evenienza – frequente nella pratica, come l’esperienza di mediazione insegna – di comportamenti non improntati a correttezza ovvero di malintesi, comunque potenziali fonti di conflittualità.

Conflittualità certamente inerente agli interessi economici in gioco, ma non di rado tale da investire profili più squisitamente attinenti al rapporto di fiducia originariamente sussistente tra le parti e successivamente incrinatosi a seguito di un determinato comportamento o di una determinata scelta. Ciò che spesso provoca reazioni sproporzionate, dando vita a vicende giudiziali estremamente complesse, lunghe e costose, che giustamente il legislatore mira a ridurre attraverso il ricorso alla mediazione civile, istituto che per le sue proprie caratteristiche consente certamente agli imprenditori coinvolti di concentrare l’attenzione sulle conseguenze giuridiche ed economiche del conflitto, offrendo innumerevoli opzioni di fuoriuscita dalla crisi. Si pensi alle ipotesi, tutt’altro che infrequenti nella pratica, in cui la mediazione riesca a favorire il recupero del rapporto di fiducia con conseguente conclusione di un nuovo contratto o rivisitazione di quello già intercorrente tra le parti mediate l’apposizione di elementi novativi di interesse comune.

Si consideri inoltre che per il tramite della mediazione è possibile pervenire ai medesimi risultati attingibili con il giudizio, ma beneficiando di alcuni fondamentali vantaggi: tempi ristretti e costi limitati, partecipazione effettiva sotto il profilo personale e quindi anche emozionale, possibilità di risoluzione, nell’ambito del singolo procedimento, di questioni controverse non facenti tecnicamente parte del contratto di affitto di azienda o di ramo di azienda ma allo stesso strettamente collegate, possibilità, in sintesi, di addivenire ad una soluzione condivisa elaborata dalle parti stesse e dai rispettivi legali (e, naturalmente, dai propri consulenti tecnici di fiducia).

Il tutto, naturalmente, rammentando che l’accordo ha efficacia di titolo esecutivo, allo stesso modo della sentenza, e rammentando altresì il considerevole – e spesso determinante – vantaggio economico derivante dal regime fiscale di cui all’art. 17, D.lgs 28/2010 e dai benefici – in termini di crediti d’imposta riconosciuti alle parti di una mediazione dall’art. 20 del medesimo decreto legislativo.

MAGGIORI INFO? CONTATTACI

Leggi di più

Come è noto, già dal 28 febbraio 2023 sono state introdotte alcune importanti novità in materia di mediazione, tra cui, in particolare:

  • le nuove regole per la mediazione in modalità telematica ex art. 8 bis D.lgs 28/2010
  • le nuove regole in tema di accordo di conciliazione sottoscritto dalle pubbliche amministrazioni ex art. 11 bis D.lgs 28/2010
  • le nuove regole in tema di sanzioni a livello processuale per la mancata partecipazione al procedimento di mediazione ex art. 12 bis D,lgs 28/2010.

Ora, a partire dal 30 giugno 2023, entrano in vigore nuove regole relative, tra le altre, all’ampliamento delle materie per le quali è obbligatorio esperire il procedimento di mediazione, alle modalità procedimentali, all’istituzione del patrocinio a spese dello Stato, ed all’ampliamento degli incentivi fiscali.

(altro…)

Leggi di più
Il consorzio è disciplinato dagli art. 2602 e seguenti del Codice Civile. Ai sensi dell’art 2602 c.c., il consorzio è il contratto con il quale più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese. (altro…)
Leggi di più
Con il contratto di subfornitura, un imprenditore si impegna a compiere per conto di un’impresa committente (talvolta detta general contractor e contrapposta al subcontractor) lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dallo stesso committente, ovvero si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente. Nei rapporti di subfornitura tipicamente la progettazione del prodotto da realizzarsi e la definizione delle sue specifiche tecniche sono appannaggio esclusivo dell'impresa committente, alle cui indicazioni il subfornitore sottostà completamente. Soprattutto quando il prodotto è ad alto livello tecnico, il committente fornisce al subfornitore anche le materie prime o le attrezzature (ad esempio, gli stampi) necessarie per la sua realizzazione (fabbricazione e/o collaudo), o ne impone il processo produttivo. Esempio: il committente (ad es. una casa automobilistica) invece di provvedere in proprio a tutte le fasi di produzione, si avvale di altre imprese per la produzione di parti del prodotto finale (ad es. la parte elettrica dell'autovettura) impartendo istruzioni ed anche fornendo materiali al fornitore.

CONTRATTO DI SUBFORNITURA: FORMA E CONTENUTO

Il contratto di subfornitura è stato introdotto con Legge 18-6-1998, n. 192 (avente valore speciale e in grado di derogare la normativa generale relativa ai contratti e alle obbligazioni), in considerazione della posizione di debolezza economica e contrattuale nella quale può venirsi a trovare il subfornitore, e detta specifiche regole finalizzate alla tutela di quest’ultimo da possibili abusi del committente. La normativa non introduce una nuova forma contrattuale, bensì ne delinea i caratteri dei rapporti intercorrenti tra imprese. Si delinea così il decentramentro produttivo, ovverosia l’affidamento a imprese minori, da parte di imprese più gradi, di lavori lavori di predisposizione di un prodotto finale o dello svolgimento di talune fasi di un processo produttivo. Innanzitutto il contratto deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità. Costituiscono forma scritta le comunicazioni degli atti di consenso alla conclusione o alla modificazione dei contratti effettuate per telefax o altra via telematica. In caso di nullità il subfornitore ha comunque diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell’esecuzione del contratto. Nel caso di proposta inviata dal committente non seguita da accettazione scritta del subfornitore, il quale però abbia iniziato le lavorazioni o le forniture, il contratto si considera concluso. Nel contratto devono essere precisati:
  • i requisiti del bene o del servizio richiesti dal committente;
  • il prezzo pattuito;
  • i termini e le modalità di consegna, di collaudo, di pagamento.

TERMINI DI PAGAMENTO

  • Il prezzo pattuito deve essere corrisposto in un termine che non può eccedere i sessanta giorni dal momento della consegna del bene o della comunicazione dell’avvenuta esecuzione della prestazione; tale termine è derogabile dalle parti (nei limiti, comunque, dei novanta giorni);
  • in caso di mancato rispetto del termine di pagamento il committente deve al subfornitore, senza bisogno di costituzione in mora, un interesse determinato in misura pari al saggio d’interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca centrale europea;
  • nell’ipotesi in cui il ritardo nel pagamento superi i trenta giorni, il committente dovrà anche pagare una penale pari al 5% dell’importo pattuito;
  • in ogni caso, la mancata corresponsione del prezzo entro i termini pattuiti costituisce titolo per l’ottenimento di ingiunzione di pagamento provvisoriamente esecutiva ai sensi degli artt. 633 e ss. c.p.c.
  • significative modifiche e varianti apportate al progetto in corso d’opera, che producano comunque incrementi dei costi, su richiesta del committente, comportano per il subfornitore l’adeguamento del prezzo, anche se non previsto dal contratto.

DIVIETO DI INTERPOSIZIONE E OBBLIGHI DEL SUBFORNITORE

La fornitura non può, a sua volta, essere ulteriormente affidata in subfornitura senza l’autorizzazione del committente per una quota superiore al 50% del valore, salvo che le parti nel contratto non abbiano indicato una misura maggiore. Il subfornitore:
  • è responsabile del funzionamento e della qualità del prodotto o servizio fornito;
  • deve tempestivamente segnalare difetti di materiali o di attrezzi fornitigli dal committente.

ABUSO DI DIPEDENZA ECONOMICA

È vietato l’abuso, da parte di un’impresa, dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi riguardi, un’impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. L’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto. Il patto attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo; il giudice può inibire tale condotta e condannare l’impresa al risarcimento del danno; se l’abuso dà luogo a un comportamento anticoncorrenziale, possono scattare i rimedi della legge antitrust.

DIFFERENZA TRA SUBFORNITURA E SUBAPPALTO

Occorre evidenziare le differenze fra il contratto di subappalto, caratterizzato dal coinvolgimento dell’assetto imprenditoriale dell’impresa subappaltatrice nell’attività dell’impresa aggiudicataria dell’appalto dal contratto di subfornitura, il quale prevede l’inserimento del subfornitore in un determinato livello del processo produttivo, sotto le direttive del fornitore che determinano la dipendenza tecnica del subfornitore quanto a progetto, specifiche e know how di realizzazione della subfornitura. L’inserimento del subfornitore nel ciclo produttivo del fornitore risulta l’elemento distintivo, con cui è richiesto che la lavorazione da parte del primo avvenga secondo la progettualità e le direttive tecniche impartite dal secondo (rispondenti alle esigenze di mercato da quest’ultimo intercettate), per cui la cosiddetta dipendenza tecnica si pone come il risvolto operativo attraverso il quale normalmente si denota la dipendenza economica, di cui è elemento qualificante e sintomatico. Il negozio subfornitura commerciale si distingue dal sub-appalto d’opera o di servizi, nel quale il subappaltatore è chiamato, nel raggiungimento del risultato, ad una prestazione rispondente ad autonomia non solo organizzativa ed imprenditoriale, ma anche tecnico-esecutiva, con conseguente maggior ampiezza della sua responsabilità per i vizi della cosa e per la sua non perfetta rispondenza a quanto convenuto. Alla luce di quanto evidenziato è agevole prefigurare i principali scenari di lite in materia di subfornitura: ritardi o inadempimenti nei pagamenti dei corrispettivi per le forniture; richieste di sconti non pattuiti; imposizione di nuove specifiche tecniche, comportanti maggiori costi per il subfornitore; interruzioni del rapporto di subfornitura ovvero modificazione delle sue condizioni; responsabilità per i vizi, qualora il prodotto finale a manifesti il difetto e non risulta immediato stabilire se ciò dipende: da quanto realizzato dal subfornitore ovvero dal lavoro di assemblaggio eseguito dal committente ovvero dalla progettazione ovvero  da altri componenti riconducibili a soggetti terzi. È pertanto condivisibile l’opportunità colta dalla recente riforma Cartabia di estendere l’obbligatorietà della mediazione ai predetti rapporti di subfornitura.

MAGGIORI INFO? CONTATTACI

Leggi di più
Il DLgs 149/2022, art. 7 , riforma l’art. 5 del  DLgs 28/2010, incrementando le materie subordinate al tentativo obbligatorio di mediazione ed includendo fra queste le controversie relative ai contratti d’opera. (altro…)
Leggi di più
Un possibile terreno d’elezione per la pratica della mediazione può essere costituito oggi dalla materia dei contratti di rete d’impresa, argomento che risulta di particolare attualità. (altro…)
Leggi di più
Come è noto, il D.lgs 149/2022, ha profondamente innovato l’art. 5 del D.lgs 28/2010, ampliando il novero delle materie in cui la mediazione è condizione obbligatoria di procedibilità. (altro…)
Leggi di più
Secondo l’art. 1559 c.c., il contratto di somministrazione è il contratto con il quale una parte si obbliga, verso corrispettivo di un prezzo, a eseguire, a favore dell'altra, prestazioni periodiche o continuative di cose. (altro…)
Leggi di più
In questi giorni, l’ufficio legislativo del ministero della Giustizia sta scrivendo il Decreto Ministeriale di attuazione del D.Lgs 149/2022 (Riforma Cartabia) nell’ambito della Mediazione Civile. La legge Cartabia si è posta l’obiettivo di ridurre in maniera netta il contenzioso civile ed ha incentivato notevolmente l’istituto della mediazione sia aumentando le materie oggetto di mediazione civile che incentivando la definizione partecipata del contenzioso finanziando cospicui crediti di imposta. Il Decreto attuativo in corso di emanazione ha lo specifico compito, assegnatogli dalla legge di Riforma, di disciplinare tariffe, procedure e requisiti degli Organismi di Mediazione e degli Enti di Formazione per mediatori. (altro…)
Leggi di più
Corso di Alta Formazione: "la Riforma Cartabia in materia di mediazione e strumenti ADR". Valido quale aggiornamento dei mediatori civili ai sensi del D. Lgs 28/2010. Scopri il programma. (altro…)
Leggi di più
La mediazione civile di cui al D.lgs 28/2010 rappresenta uno strumento di composizione delle controversie alternativo rispetto al giudizio, con conseguente notevole vantaggio in termini di risparmio di tempo e – quindi – di costi. Se quanto precede è vero in generale, a maggior ragione sembra valere con riferimento alla materia condominiale, materia “particolare” sotto molteplici profili, tanto giuridici quanto umani, nella quale la mediazione veramente può costituire oltre che il luogo in cui dirimere le questioni tecniche e giuridiche anche il momento in cui confrontarsi per comprendere le esigenze delle persone e i risvolti emozionali delle singole situazioni. L’aspetto attinente ai rapporti interpersonali ed agli interessi comuni è fondamentale nelle controversie condominiali, in quanto riguardanti relazioni di durata, dal momento che di regola le parti continueranno a trovarsi in stretta vicinanza tra loro. Un’eventuale accordo raggiunto in mediazione – sede in cui le parti sono le reali protagoniste del procedimento – sarà senz’altro preferibile, sotto il profilo della ricostruzione dei rapporti e della condivisione di regole comportamentali – della decisione imposta dall’alto, all’esito di una vicenda lunga e costosa come quella processuale, che spesso lascerà comunque insoddisfazioni latenti e, quindi, strascichi tutt’altro che piacevoli nella quotidianità. Per queste ragioni si ritiene opportuno sintetizzare, sotto forma di quesiti e relative risposte, taluni aspetti inerenti alla mediazione nell’ambito condominiale.

Come si colloca l’istituto della mediazione civile nell’ambito delle controversie in materia condominiale?

Il D.lgs 28/2010 dispone, all’art. 5, co. 1, che chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio è tenuto, preliminarmente, ad intraprendere il procedimento di mediazione. Quindi, come in tutte le ipotesi contemplate dalla predetta disposizione, la mediazione anche in materia di condominio si pone come condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Cosa si deve intendere per “controversie in materia condominiale”?

L’art. 71 – quater disp. att. cod. civ. afferma che le controversie in materia di condominio, dunque sottoposte a mediazione obbligatoria ai sensi dell’art. 5, D.lgs 28/2010, sono quelle derivanti dalla violazione o dalla errata applicazione delle disposizioni riguardanti il condominio, vale a dire libro II, titolo VII, capo II del codice civile e degli articoli da 61 a 72 delle disp. att. cod. civ.

L’amministratore del condominio può partecipare ad un procedimento di mediazione di propria iniziativa?

L’amministratore di condominio, secondo l’art. 5 – ter, D.lgs 28/2010 (introdotto dalla c.d. “Riforma Cartabia” è legittimato ad attivare un procedimento di mediazione, ad aderirvi e a parteciparvi. Il verbale contenente l'accordo di conciliazione o la proposta conciliativa del mediatore sono sottoposti all'approvazione dell'assemblea condominiale, la quale delibera entro il termine fissato nell'accordo o nella proposta con le maggioranze previste dall'art. 1136 c.c. In caso di mancata approvazione entro tale termine la conciliazione si intende non conclusa.

Che conseguenze deriverebbero da una domanda giudiziale proposta senza il previo ricorso alla mediazione?

Laddove la mediazione non sia stata esperita, l’improcedibilità può essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice non oltre la prima udienza. Il giudice, quando rileva che la mediazione non è stata esperita o è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all'art. 6 del medesimo D.lgs 28/2010. A tale udienza, il giudice accerta se la condizione di procedibilità è stata soddisfatta e, in mancanza, dichiara l'improcedibilità della domanda giudiziale.

Perché è necessario che l’amministratore sia munito di mandato assembleare?

L’amministratore non potrà assumere alcuna determinazione in ordine alla definizione conciliativa della controversia da mediare. L’amministratore è un mandatario, come tale sprovvisto del potere di disporre dei diritti sostanziali oggetto di controversia e quindi di mediazione e, di conseguenza, del potere necessario per addivenire alla soluzione della controversia. Il passaggio assembleare, pertanto, dovrà ritenersi necessario con riferimento a qualsiasi decisione da prendere in sede conciliativa.

Come deve essere individuato l’Organismo di mediazione?

L’istanza di mediazione deve essere depositata presso un Organismo di Mediazione che abbia una sede (principale o secondaria) nel circondario del Tribunale ove si trova il Condominio.

Da quando decorre il termine di 30 giorni che la legge assegna al condomino per impugnare la delibera assembleare ritenuta illegittima?

Decorre dalla data dell’assemblea, nell’ipotesi di condomino presente e, ovviamente, dissenziente, ovvero dalla data di ricezione di copia del verbale, nell’ipotesi di condomino assente.

In caso di proposta conciliativa formulata dalla controparte o dal mediatore, chi deve decidere in ordine all’accoglimento o al rigetto della stessa?

L’assemblea condominiale, la quale delibera entro il termine fissato nella proposta con le maggioranze previste dall'art. 1136 c.c., secondo cui. “L'assemblea in prima convocazione è regolarmente costituita con l'intervento di tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell'intero edificio e la maggioranza dei partecipanti al condominio. Sono valide le deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio. Se l'assemblea in prima convocazione non può deliberare per mancanza di numero legale, l'assemblea in seconda convocazione delibera in un giorno successivo a quello della prima e, in ogni caso, non oltre dieci giorni dalla medesima. L'assemblea in seconda convocazione è regolarmente costituita con l'intervento di tanti condomini che rappresentino almeno un terzo del valore dell'intero edificio e un terzo dei partecipanti al condominio. La deliberazione è valida se approvata dalla maggioranza degli intervenuti con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio”. Beninteso, nell’ipotesi di proposta formulata dal mediatore, il termine di cui all’art. 11, D.lgs 28/2010 (secondo cui “le parti fanno pervenire al mediatore, per iscritto ed entro sette giorni dalla comunicazione o nel maggior termine indicato dal mediatore, l'accettazione o il rifiuto della proposta. In mancanza di risposta nel termine, la proposta si ha per rifiutata”), decorrerà dalla data di celebrazione dell’assemblea volta alla discussione e deliberazione sulla stessa.

Quale rapporto intercorre tra la mediazione civile e le azioni del condominio nei confronti dell’amministratore?

Nelle ipotesi di controversia tra condominio e amministratore (eventuali negligenze del medesimo, gravi irregolarità, bilancio non veritiero, etc.) possono intraprendersi due percorsi alternativi. Innanzitutto il giudizio di revoca ex art. 64 disp. att. cod. civ., il quale costituisce un procedimento di volontaria giurisdizione, non avente natura contenziosa, che si svolge in camera di consiglio con le forme di cui agli artt. 737 e segg. c.p.c., e che quindi risulta escluso dall’obbligo di previo ricorso alla mediazione ai sensi di quanto previsto dall’art. 5, co. 6, lett. f), D.lgs 28/2010. Qualora invece il condominio ritenga di agire in ragione del rapporto contrattuale di mandato intercorrente con il proprio amministratore, la controversia dovrà essere preceduta dall’esperimento del tentativo di mediazione, versandosi a pieno titolo nell’ambito delle controversie in materia condominiale di cui all’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010.

Nell’ipotesi di mancato pagamento degli oneri condominiali l’istanza di mediazione rappresenta una necessità immediata?

No, in quanto l’amministratore, ottenuta la deliberazione di approvazione del preventivo o del consuntivo delle spese condominiali e del conseguente piano di riparto, è legittimato al ricorso per ingiunzione (provvisoriamente esecutivo ex lege, ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c.) nei confronti del condomino moroso. Giova a tale proposito ricordare che l’art. 5, co. 6, D.lgs. 28/​2010, prevede che “I commi 1 e l’art. 5 - quater (vale a dire, rispettivamente, la mediazione obbligatoria ante causam e quella delegata dal giudice) non si applicano: a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione, (…)”; Quindi nel procedimento monitorio la mediazione non è richiesta preventivamente, così come non è richiesta per l’ipotesi di opposizione al decreto da parte del condomino ingiunto, ma dovrà essere attivata solo a seguito della pronunzia da parte del giudice dell’opposizione in ordine alla provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo ottenuto. In tal caso, secondo quanto previsto dall’art. 5 – bis, D.lgs 28/2010 “…l'onere di presentare la domanda di mediazione grava sulla parte che ha proposto ricorso per decreto ingiuntivo (…)”. A titolo di esempio: l’amministratore del condominio, ai sensi dell’art. 1131 c.c., è il soggetto legittimato ad agire in giudizio, senza preventiva autorizzazione dell'assemblea condominiale, per riscuotere i contributi dovuti in base allo stato di riparto approvato dall'assemblea. Può, pertanto, ottenere dal giudice un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo ex lege, secondo il disposto dell’art. 63, co. 1, disp. att. c.c..). Incomberà dunque sul condominio l’onere di attivazione del tentativo di mediazione una volta che il giudice, nel giudizio di opposizione, abbia pronunciato sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione, ai sensi degli artt. 648 e 649 c.p.c.

L’Amministratore potrà comunque optare per la mediazione al fine del recupero dei crediti nei confronti del condomino moroso?

Sì, potrà depositare istanza di mediazione in tal senso e potrà addivenire ad una ipotesi di accordo conciliativo (ad es. pagamento della morosità in un certo numero di rate) che dovrà poi essere sottoposta all’assemblea, dal momento che spetta ovviamente alla stessa e non all’amministratore il potere di approvare una transazione, mentre viceversa non rientra tra le attribuzioni dell’amministratore il potere di pattuire con i condomini morosi dilazioni di pagamento o accordi conciliativi e/o transattivi senza apposita autorizzazione assembleare.

La mancata convocazione di un condomino vizia la delibera assunta dall’assemblea?

La mancata convocazione di uno dei proprietari costituisce vizio di annullabilità e non di nullità. Il concetto è stato chiarito dalla nota sentenza della Corte di Cassazione, SS. UU., n. 4806/2005 con cui i giudici di legittimità hanno segnato la differenza fra le due tipologie di vizi. Con la conseguenza che se nessuno impugna la delibera nei termini di cui all’art. 1137 c.c. (entro trenta giorni dall’assemblea per i presenti – astenuti o dissenzienti – ed entro trenta giorni dalla ricezione del verbale per gli assenti) i vizi della medesima vengono sanati e le decisioni assunte diventano definitive.

In caso di comproprietà di un’unità immobiliare posta nel condominio tutti i comproprietari devono necessariamente ricevere l’avviso di convocazione assembleare o è sufficiente la convocazione di solo uno di essi?

A norma dell’art. 1137 c.c., tutti i condomini, compresi i singoli comproprietari, devono essere individualmente convocati all’assemblea. La convocazione eseguita nei confronti di un comproprietario di unità immobiliare in condominio non vale anche per l’altro o gli altri. Questo perché tutti i condomini hanno il diritto di agire per tutelare il bene immobile di loro proprietà, anche attraverso l’impugnazione di una delibera condominiale che risulta dannosa per il condominio o per la proprietà singola. Si pensi al caso in cui il comproprietario sia stato del tutto estromesso, non avendo ricevuto l’avviso di convocazione: ben potrà impugnare la deliberazione adottata a seguito dell’assemblea a cui ha partecipato l’altro comproprietario (o gli altri comproprietari), laddove ritenga risultino lesi i propri diritti di proprietario.

Per la tutela dei beni condominiali la mediazione si pone come condizione di procedibilità della domanda?

Sul punto occorre operare un distinguo. Se si tratta di azione ordinaria sarà necessario procedere dapprima con l’istanza di mediazione cosicché, nel caso di esito negativo della fase stragiudiziale, la successiva domanda risulti procedibile. Qualora invece si tratti di azioni possessorie ex art. 1168 e 1170 cod. civ., data l’urgenza di un provvedimento giudiziario volto ad ottenere l’immediata tutela di una situazione di fatto relativa ai beni e servizi del condominio lesi dal condomino (o, in ipotesi, anche da un terzo), l’art. 5, co. 6, lett. d), D.lgs 28/2010, prevede che l’istanza di mediazione non debba essere depositata “…fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’articolo 703, terzo comma, del codice di procedura civile”.

L’obbligatorietà della mediazione riguarda anche le controversie tra Condominio e soggetti diversi dai condomini?

Certamente, in quanto ai sensi dell’art. 71 quater disp. att. cod. civ. tutte le liti interessanti il condominio devono necessariamente passare per l’esperimento del procedimento di mediazione di cui al D.lgs 28/2010 per poter avere accesso, eventualmente, alla fase giudiziale. Basti pensare alla frequenza delle controversie tra il condominio ed un fornitore, oppure a quelle relative ai contratti di appalto tra il condominio e l’impresa incaricata di lavori di manutenzione ordinaria o straordinaria relativi allo stabile o a parti di esso.

Chi è tenuto al pagamento delle spese di mediazione?

Le spese di mediazione vanno divise esattamente come ogni altra spesa condominiale: in maniera proporzionale al valore della proprietà di ciascuno.

Quali spese deve pagare il condominio?

Occorre distinguere due voci di spesa: in primo luogo, dovrà corrispondere all'organismo, al momento del deposito della domanda, nel caso di Condominio istante, ovvero all’adesione alla procedura, nel caso di Condominio chiamato, oltre alle spese documentate, un importo a titolo di indennità comprendente le spese di avvio e le spese di mediazione per lo svolgimento del primo incontro (art. 17, co. 3, D.lgs 28/2010). Se la mediazione si conclude senza l'accordo al primo incontro, il Condominio non sarà tenuto a corrispondere importi ulteriori. Se invece il procedimento proseguirà oltre il primo incontro, il regolamento dell'organismo di mediazione indica le ulteriori spese di mediazione dovute dalle parti per la conclusione dell'accordo di conciliazione e per gli incontri successivi al primo, nel rispetto di quanto previsto dal D.M. 150/2023. In secondo luogo, le spese legali, vale a dire, dal momento che in mediazione obbligatoria è prevista come necessaria l’assistenza obbligatoria di un avvocato, gli onorari da riconoscersi al professionista cui l’assemblea abbia conferito il mandato.

Vi sono casi in cui non tutti i condomini sono tenuti a concorrere alle spese di mediazione?

Occorre considerare due ipotesi: innanzitutto, quella in cui il procedimento di mediazione riguardi una controversia tra condominio e condomino (c.d. lite interna al condominio). In questa ipotesi la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cassazione, sentenza n. 11126/2006) ha precisato, sia pure con riferimento al giudizio, come la controparte del Condominio che tuttavia sia anche condomino debba considerarsi quale soggetto contrapposto alla compagine condominiale e quindi estraneo alle spese della stessa. Non si vede come la stessa regola non possa valere per il procedimento di mediazione, che, come noto, rappresenta in materia condominiale, condizione di procedibilità della domanda giudiziale. In termini esemplificativi: poniamo il caso di impugnazione di delibera assembleare da parte di un condomino. Le spese legali (somme dovute all’Organismo di mediazione ed onorari dell’avvocato) dovranno porsi a carico di tutti i condomini, secondo i millesimi di proprietà, tranne colui il quale abbia avviato la mediazione, il quale, ovviamente, essendo parte nel procedimento, sarà tenuto al pagamento delle proprie spese di mediazione e degli onorari del proprio legale; inoltre, il caso in cui sussista un diverso accordo tra tutti i condomini, preventivo rispetto al procedimento ovvero contenuto all’interno dell’accordo conciliativo raggiunto attraverso la procedura di mediazione. Con riferimento invece alle c.d. liti esterne, quelle cioè tra condominio e terzi (ad es. fornitori, imprese, ditte etc.), le spese di mediazione dovranno necessariamente essere ripartite tra tutti i condomini in base ai millesimi di proprietà.

Può essere sanzionato il condominio che, chiamato in mediazione, deliberi di non partecipare alla stessa?

Sì, nel successivo giudizio il giudice può desumere argomenti di prova a sfavore della parte che non abbia partecipato alla mediazione senza giustificato motivo. In secondo luogo – e soprattutto – il giudice potrebbe (rectius: dovrebbe) condannare il condominio renitente alla chiamata in mediazione al pagamento di una somma pari al contributo unificato dovuto per il giudizio. Infatti, l’art. 12– bis, D.lgs 28/2010 prevede che “Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al primo incontro del procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Quando la mediazione costituisce condizione di procedibilità, il giudice condanna la parte costituita che non ha partecipato al primo incontro senza giustificato motivo al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al doppio del contributo unificato dovuto per il giudizio. Nei casi di cui al comma 2, con il provvedimento che definisce il giudizio, il giudice, se richiesto, può altresì condannare la parte soccombente che non ha partecipato alla mediazione al pagamento in favore della controparte di una somma equitativamente determinata in misura non superiore nel massimo alle spese del giudizio maturate dopo la conclusione del procedimento di mediazione”.

MAGGIORI INFO? CONTATTACI

Leggi di più

AVVIA UNA MEDIAZIONE

Per avviare un procedimento di mediazione ai fini della composizione bonaria della controversia esistente, occorre presentare una specifica istanza ad ADR Intesa.