adr intesa ente di formazione per mediatori civili riconosciuto dal ministero della giustizia

Tribunale di Roma, sez. XIII civile, sentenza 30 ottobre 2014 (RG. 20168-12)

Mancata partecipazione alla mediazione delegata da giudice. Limiti del “giustificato motivo”.

Commento:

Sentenza del Tribunale di Roma all’esito di un giudizio nel quale – come da ormai consolidata prassi della Sezione – la proposta transattiva o conciliativa formulata ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c. va a cumularsi con la mediazione disposta dal giudice ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.

Infatti, nell’ordinanza emanata l’11 novembre 2013, il dies ad quem entro il quale le parti avrebbero potuto far propria la proposta giudiziale fungeva automaticamente, per l’ipotesi opposta, quale dies a quo per il decorso del successivo termine di 15 gg. concesso per il deposito dell’istanza di mediazione presso un organismo territorialmente competente.

Il caso di specie riguarda la responsabilità professionale di un avvocato, peraltro costituitosi tardivamente nel giudizio intentatogli da un ex cliente per inesatta prestazione. In particolare, l’avvocato aveva tardivamente proposto appello avverso una sentenza del Pretore del Lavoro di Roma, che aveva rigettato le domande dell’attore, circostanza accertata in Appello e confermata in cassazione (e, naturalmente, la proposizione puntuale dell’appello non è collocabile su un piano di particolare difficoltà ai sensi dell’art. 2236 c.c., risultando quindi sufficiente la semplice colpa per radicare la responsabilità).

Trattandosi di controversia caratterizzata da valore certamente cospicuo, ma che non aveva fatto emergere questioni di diritto di particolare complessità e dubbi tali da richiedere approfondite analisi e difficili interpretazioni di norme, il Giudice formulava una proposta ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., stabilendo ex ante, come in precedenza accennato, che in caso di mancato accoglimento della stessa le parti avrebbero dovuto rivolgersi ad un organismo di mediazione e fissando la successiva udienza per la (eventuale) prosecuzione del processo, nella quale, limitatamente alla proposta giudiziale, le parti avrebbero potuto esplicitare le ragioni della mancata adesione alla stessa.

L’attore accettava la proposta e, in mancanza di adesione da parte dell’avvocato convenuto, attivava ritualmente la mediazione demandata dal giudice, presentandosi presso l’organismo per il primo incontro, a differenza della parte chiamata, che decideva di non presenziarvi, concludendosi dunque il procedimento con verbale negativo senza approdo al merito delle questioni controverse.

Ora, si rileva in sentenza, “…non avendo l’avvocato (…) fornito alcuna motivazione della sua mancata comparizione davanti al mediatore (atteggiamento confermato processualmente dai suoi difensori) devesi affermare l’assenza di un giustificato motivo.

D’altra parte, non può essere sottovalutato il fatto che, a monte dell’ordinanza, vi è la valutazione del giudice (esame degli atti, studio della posizione delle parti, formulazione della proposta) circa l’utilità di un percorso di mediazione finalizzato, auspicabilmente, al raggiungimento di un accordo vantaggioso, per cui risulta comprovato “…che nel caso di specie non solo non sussiste un giustificato motivo per la mancata comparizione della parte convenuta nel procedimento di mediazione, ma che tale rifiuto è del tutto irragionevole, illogico in concreto ma anche dal punto di vista astratto ed inescusabile”.

Come è noto, l’art. 8, ult. co., D.lgs 28/2010 ricollega alla circostanza in oggetto (mancata partecipazione alla mediazione senza giustificato motivo) da un lato il fatto che il giudice possa trarne argomento di prova ai sensi dell’art. 116, co. 2, c.p.c., e, dall’altro, ma solo nel caso in cui la parte risulti costituita in giudizio, la condanna al versamento di una somma pari al contributo unificato.

Nella motivazione in esame, quanto alla possibilità di valorizzare nel processo, quale argomento di prova a sfavore di un parte, determinate condotte della stessa, si muove dal presupposto dell’esistenza, in giurisprudenza, di due diverse opinioni.

Secondo una prima impostazione, “…la decisione del giudice non può essere fondata esclusivamente sull’art. 116 c.p.c., cioè su circostanze alle quali la legge non assegna il valore di piena prova, potendo tali circostanze valere in funzione integrativa e rafforzativa di altre acquisizioni probatorie”.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, si è più volte espressa nel senso che “…la norma dettata dall’art. 116 comma 2 c.p.c., nell’abilitare il giudice a desumere argomenti di prova dalle risposte date dalle parti nell’interrogatorio non formale, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni da esso ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo, non istituisce un nesso di conseguenzialità necessaria tra eventuali omissioni e soccombenza della parte ritenuta negligente, ma si limita a stabilire che dal comportamento della parte il giudice possa trarre argomenti di prova, e non basare in via esclusiva la decisione, che va comunque adottata e motivata tenendo conto di tutte le altre risultanze (ex multis, Cassazione civile, sez. trib., 17 gennaio 2002, n. 443)”.

La seconda tesi, invece, opina nel senso che non vi sarebbe alcun divieto nella legge a che il giudice possa fondare solo su dette circostanze la decisione, valendo quale unico limite quello di una coerenza e logica motivazionale in relazione al caso concreto.

Anche in ordine a quest’ultimo orientamento, innumerevoli sono i precedenti di legittimità rintracciabili: ad esempio, secondo Cassazione civile, sez. III, 16 luglio 2002, la norma di cui all’art. 116, co. 2, c.p.c. “…attribuisce certo al giudice il potere di trarre argomento di prova dal comportamento processuale delle parti, e però, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ciò non significa solo che il comportamento processuale della parte può orientare la valutazione del risultato di altri procedimenti probatori, ma anche che esso può da solo somministrare la prova dei fatti”.

Il Giudice, nella pronuncia in esame, ritiene in generale che “…secondo le circostanze del caso concreto gli argomenti di prova che possono essere desunti dalla mancata comparizione della parte chiamata in mediazione ed a carico della stessa nella causa alla quale la mediazione, obbligatoria o demandata, pertiene, possano costituire integrazione di prove già acquisite, ovvero anche unica e sufficiente fonte di prova”.

In particolare, nel caso di specie, sussistendo ad avviso del Tribunale robusti elementi di carattere documentale, i comportamenti di parte (mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione delegata ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010) sono ritenuti idonei ad apportare un valore aggiunto “…probatorio, decisivo e preminente” relativamente alla sussistenza di un danno risarcibile, concorrendo, dunque, “alla valutazione del materiale probatorio raccolto nel senso di ritenere raggiunta la piena prova della infondatezza della resistenza ad oltranza”.

Ciò premesso, avendo l’avvocato convenuto disertato senza giustificato motivo il procedimento di mediazione nel quale era stato regolarmente chiamato, il Tribunale lo condanna al versamento a favore dell’erario di euro 660,00, a quanto ammonta, cioè, il contributo unificato dovuto per il giudizio.

Per quanto riguarda la quantificazione dei danni al risarcimento dei quali il convenuto soccombente è tenuto, il Giudice afferma la necessità di “…dichiarare con chiarezza quella che è la regola d’oro della mediazione demandata e della proposta del giudice.

Tanto più elevate saranno le probabilità di raggiungimento di un accordo fra le parti, in particolare ciò valendo per quella fra di esse onerata con la proposta del giudice di prestazioni da compiere a favore della controparte, quanto più ciascuna di esse possa intravvedere delle utilità, dei vantaggi, dei benefici scaturenti dall’accordo conseguente alla proposta del giudice o alla mediazione o, che è lo stesso, un contenimento degli svantaggi e delle disutilità che potrebbero derivargli dalla sentenza.

In altre parole, mettere una parte con le spalle al muro, con una proposta che si intraveda di contenuto in tutto e per tutto uguale al contenuto della sentenza seguente al mancato accordo è controproducente.

La parte onerata deve poter contare su un qualche benefit derivante dall’accordo rispetto al contenuto della sentenza, in caso contrario, si porrà l’obiettivo del massimo differimento possibile del redde rationem rappresentato dalla sentenza.

D’altra parte, per la parte percipiente, deve valere il correlativo principio che un bene della vita non esattamente uguale a quello sperato ma in compenso conseguibile subito e con certezza a seguito dell’accordo è migliore e più tranquillizzante di un risultato pieno che, in futuro, potrebbe anche mancare in tutto o in parte (la condanna di una parte non equivale all’adempimento volontario di quella parte; in mancanza di volontario adempimento la parte vittoriosa è onerata di azioni esecutive dall’esito spesso incerto  e insoddisfacente; va ricordato che nel nostro ordinamento esiste appello e cassazione”.

In conseguenza di quanto precede, dunque, nel caso di specie il giudice ha emesso sentenza ai sensi dell’art. 281 – sexies c.p.c., definitivamente pronunziando, condannando il convenuto al risarcimento del danno, al pagamento delle spese, che seguono la soccombenza, e, infine, al versamento, a titolo di sanzione per la mancata ingiustificata partecipazione al procedimento di mediazione, di una somma di ammontare pari al contributo unificato dovuto per il giudizio

Tribunale di Roma, sez. XIII civile, sentenza 30 ottobre 2014 (RG. 20168-12)

mediazione obbligatoria conciliazione

Tribunale di Roma, sez. XIII civile, sentenza 30 ottobre 2014 (RG. 63204-11)

Proposta ex art. 185 bis c.p.c.: rifiuto ingiustificato e condanna ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c.

Commento:

Interessante pronuncia nella quale il Tribunale di Roma, nell’applicare ancora una volta l’art. 185 – bis c.p.c., ha modo di svolgere approfondite valutazioni circa la configurabilità o meno di un giustificato motivo al rifiuto della stessa. Il provvedimento, inoltre, opina per la configurabilità di una responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c.

Nella fattispecie, si trattava di responsabilità professionale di un notaio, nei cui confronti l’attore, suo ex cliente, aveva promosso la domanda giudiziale, infine accolta dal Tribunale, lamentando esborsi effettuati come diretta conseguenza delle erronee indicazione fornitegli dal professionista.

Istruita la causa, il Giudice riteneva di formulare con ordinanza la proposta transattiva o conciliativa di cui all’art. 185 – bis c.p.c. (versamento di 19.424,00 euro da corrispondersi in tre rate nell’arco di 18 mesi), che veniva accolta senza riserve dall’attore. Il notaio convenuto, pur dichiarandosi favorevolmente disposto, aveva avviato – fuori dalla causa – trattative con la sua assicurazione per essere sollevato dagli oneri conseguenti e aveva quindi chiesto, come si rileva nella pronuncia, “...tempo e rinvii, al fine precipuo di non gravarsi con suoi esborsi effettuando una sostanziale partita di giro, dall’assicurazione al cliente”.

L’attore più volte aveva aderito a tale invito, consentendo plurimi rinvii di udienze “...nella fiducia che al momento in cui l’assicurazione avesse  fatto pervenire al notaio le somme questi le avrebbe corrisposte per intero e senza rateizzazione al cliente”.

Successivamente, però, il notaio convenuto, pur avendo a disposizione la provvista fornita dall’assicurazione, “...ha dichiarato (in udienza) di voler pagare a rate come previsto dall’ordinanza del giudice. Il rifiuto dell’attore, che è seguito, è giustificato e comprensibile. Si tratta, quella del notaio, di una condotta capziosa che merita adeguata sanzione processuale (…) l’accordo non è stato raggiunto a causa dello scorretto comportamento processuale del notaio, che non aderiva esattamente alla proposta del giudice che prevedeva un termine dal notaio disatteso”.

In altri termini, il notaio convenuto malgrado “...l’assicurazione, non parte in causa, inviasse al medesimo le somme occorrenti per adempiere alla proposta, decideva, quando ricevutele, di trattenerle per sé, versandole (all’attore) nell’arco di diciotto mesi”.

Fin qui le vicende di causa.

Ora, la motivazione affronta due aspetti di estremo interesse.

Il primo, le parti di fronte alla proposta del giudice ex art. 185 bis.

Posto che il legislatore non ha inteso predisporre un sistema sanzionatorio (come nel  caso della mediazione delegata ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010), deve peraltro muoversi dal presupposto che lo studio richiesto al giudice per giungere alla formulazione di una proposta mirante ad un accordo che risulti in effetti per le parti più vantaggioso della sentenza, “…non sia stato previsto per essere destinato ad essere considerato un mero flatus vocis”.

La proposta non potrà certo produrre, come è ovvio, in capo alle parti una sorta di obbligo cogente in ordine al suo accoglimento, “…ma il fatto stesso che la legge preveda la possibilità che il giudice formuli la proposta implica che non è consentito alle parti di non prenderla in alcuna considerazione”. La proposta, di conseguenza, dovrà essere dai destinatari rispettata e considerata con serietà ed attenzione (la medesima, si intende dire, che è richiesta al giudice nel predisporla e formularla).

In motivazione si rileva come proprio per “…l’importanza e delicatezza della proposta che, impegnando non poco la sensibilità oltre che l’arte del giudice, assolve, nell’ottica del legislatore, ad un importante compito deflattivo e di A.D.R., impedendo che ogni controversia debba necessariamente concludersi con una sentenza, non può ammettersi che le parti possano assumere senza conseguenze, contro di essa, un atteggiamento anodino, di totale disinteresse, deresponsabilizzato, solo ostinatamente ed immotivatamente diretto a coltivare la permanenza e protrazione della controversia.

Le parti hanno invece l’obbligo, derivante sia dalla norma di cui all’art. 88 cpc secondo cui le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, e sia in base al precetto di cui all’art. 116 cpc, norma di carattere generale, di prendere in esame con attenzione e diligenza la proposta del giudice di cui all’art. 185 bis cpc, e di fare quanto in loro potere per aprire ed intraprendere su di essa un dialogo, una discussione fruttuosa e, in caso di non raggiunto accordo, di fare emergere a verbale dell’udienza di verifica, lealmente, la rispettiva posizione al riguardo. Le parti hanno quindi un’alternativa all’accettazione della proposta”. Potranno infatti “…disarticolarne il contenuto, trasformandola secondo i loro più veritieri e non rinunciabili interessi primari. Non è invece ammesso l’accesso alla superficialità, ad un rifiuto preconcetto, ad un pregiudizio astratto, al proposito e all’interesse, non tutelati dalle norme, a protrarre a lungo la durata e la decisione della causa”.

In sostanza, dunque, “…il merito ragionato deve diventare la stella polare della adesione o meno (se del caso con i concordati adattamenti) alla proposta. E correlativamente, ad opera del giudice, misura e metro della valutazione della condotta di chi si è sottratto al dovere di lealtà processuale che la proposta ex art. 185 bis esalta e richiama”.

In secondo luogo, la condanna per responsabilità ex art. 96, co. 3, c.p.c.

Posto che nel caso di specie le spese seguono la soccombenza, il notaio convenuto è altresì condannato nei confronti dell’attore ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c., che, come è noto, dispone che “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Nella causa in oggetto la somma è stata quantificata nel doppio del compenso di causa liquidato a carico del soccombente (per un totale di euro 9.600,00).

Ora, posto che non si tratta di un risarcimento ma di un indennizzo, con riferimento alla parte a favore della quale viene concesso, o di una punizione, con riguardo allo Stato, per aver inutilmente appesantito il corso della giustizia, posta inoltre la discrezionalità del giudice nella determinazione dell’ammontare della somma e  considerato altresì che detta sanzione a carico di parte soccombente non consegue necessariamente ad istanza di parte ma può essere irrogata anche d’ufficio, nella pronuncia in esame si osserva come “…la possibilità di attivazione della norma non è necessariamente correlata alla sussistenza delle fattispecie del primo e secondo comma. Come rivela in modo inequivoco la locuzione in ogni caso la condanna di cui al terzo comma può essere emessa sia nelle situazioni di cui ai primi due commi dell’art. 96 e sia in ogni altro caso. E quindi in tutti i casi in cui tale condanna, anche al di fuori dei primi due commi, appaia ragionevole. Volendo concretizzare il precetto, vengono in mente i casi in cui la condotta della parte soccombente sia caratterizzata da colpa semplice (ovvero non grave, che è l’unica fattispecie di colpa presa in esame dal primo comma), ovvero laddove una parte abbia agito o resistito senza la normale prudenza (fattispecie diversa da quelle previste dal primo e secondo comma)”.

Nel caso di specie, alla luce di quanto precede, il Tribunale afferma che “…a. la responsabilità nel merito del notaio è conclamata, sicchè la resistenza in giudizio va qualificata già in limine un abuso del diritto (di difesa); b. la condotta processuale descritta (…) proviene da una persona istruita e assai qualificata anche in termini giuridici, e pertanto ancor più grave ed ingiustificata. L’ammontare della somma deve essere proporzionato, fra l’altro, allo stato soggettivo del soggetto che in questo caso è da qualificarsi doloso quanto alla lettera b) e colposo quanto alla lettera a)”.

Testo integrale sentenza 30 ottobre 2014 (RG. 63204-11), Tribunale di Roma, sez. XIII civile.

sentenze mediazione civile

Giudice di Pace di Lecce, sentenza 6 novembre 2014.

Ancora sul principio di effettività della mediazione obbligatoria. Il “rifiuto a prescindere” del tentativo non ha diritto di cittadinanza.

Commento:

Interessante pronuncia del Giudice di Pace di Lecce, in una vicenda che trae spunto da una istanza di mediazione avente ad oggetto un contratto bancario, materia, come è noto, in cui il procedimento ai sensi del D.lgs 28/2010 si pone come condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Nell’istanza si faceva riferimento al diritto del proponente ad un rimborso di somme, però non quantificate. Di conseguenza, lo stesso istante chiedeva, ai fini dell’accertamento dell’asserita debenza della Banca chiamata ed alla relativa quantificazione, la nomina di un consulente, richiesta che il mediatore era propenso ad accogliere, come consentitogli dall’art. 8, co. 4, D.lgs 28/2010.

La Banca chiamata, a quel punto, decideva di non proseguire oltre il primo incontro, non corrispondendo, dunque, le indennità di legge.

L’organismo presentava ricorso per decreto ingiuntivo, ottenendolo, avverso il quale veniva proposta opposizione ai sensi dell’art. 645 c.p.c.

L’opposizione non veniva accolta, in quanto il rifiuto da parte della Banca a proseguire nel tentativo di mediazione (peraltro manifestato mediante fax il giorno successivo a quello fissato per il primo incontro) non era fondato su una oggettiva impossibilità a procedere (arg. ex art. 8, co. 1, D.lgs 28/2010), ma veniva considerato dal Giudice un mero artificio, tendente a sfruttare le zone d’ombra indubbiamente esistenti nell’attuale tessuto normativo, compreso tra “…la partecipazione alla mediazione per evitare la dichiarazione di ingiustificato motivo a partecipare alla mediazione stessa” ed il rifiuto immotivato – in sostanza la volontà – di non procedere oltre il primo incontro “…per evitare il pagamento delle spese della mediazione”.

Un atteggiamento del genere, rileva il Giudice, non può ritenersi contemplato dalla normativa vigente: le spese sono dovute, perchè il tentativo di mediazione è stato effettivamente avviato e svolto nel corso del primo incontro, con ingiustificata e aprioristica interruzione ad opera della parte invitata.

Nella pronuncia si osserva – infine – e certamente si tratta di uno degli aspetti più interessanti in prospettiva, che da quanto precede “…vi sarebbero pure i presupposti per la lite temeraria intentata dall’opponente, tuttavia, attesa, come detto, la novità della questione e la zona d’ombra, in relazione alla questione trattata, del D. L.vo 28/2010, si ritiene di rigettare la domanda in tal senso formulata dall’opposta”.

 

Testo integrale:

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

UFFICIO DEL GIUDICE DI PACE DI LECCE

Il Giudice di Pace avv. Giuseppe Paparella

ha pronunciato la seguente sentenza

relativamente al giudizio n. 5555/2014 R.G. Promosso da

BANCA XXXXXX in persona dell’amministratore p.t.

Rappresentata e difesa dall’avv. XXXXXXX

contro

XXXXXXX in persona del l.r.p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati XXXXX, convenuta – opposta

 Oggetto: opposizione al decreto ingiuntivo n. 883/2014 emesso dal Giudice di Pace di Lecce.

Conclusioni delle parti. (…omissis…)

 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

(…omissis…)

MOTIVI DELLA DECISIONE

 La questione riveste particolare importanza attesa la novità della questione.

Va precisato, altresì, che la causa è stata introitata all’esito della prima udienza di comparizione in quanto la natura della controversia e la documentazione in atti impongono una disamina esclusivamente in punto di diritto.

Entrando nel merito della questione, le norme di riferimento sono costituite dall’art. 5, comma 2 – bis, del D. L.vo 28/2010, introdotto dal D.L. 69/2013, convertito con modifiche dalla Legge 98/2013, a mente del quale “Quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”, e dal successivo art. 17, comma 5 ter, a mente del quale “Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”.

La vicenda trae spunto dalla istanza di mediazione proposta da tale XXXXXX, avente ad oggetto un contratto bancario, in particolare un contratto di mutuo fondiario  (cfr. istanza di mediazione presente nel fascicolo del procedimento monitorio).

La materia, come noto, rientra tra le ipotesi di mediazione obbligatoria, a pena di improcedibilità dell’eventuale futura azione giudiziaria, individuate dall’art. 5 del D. L.vo 28/2010, così come modificato dal D.L. 69/2013 convertito con modificazioni dalla Legge 98/2013.

Nell’istanza di mediazione, inoltre, si legge che l’attore, posto quanto desumibile dalla sentenza n. 350/2013 emessa dalla Corte di Cassazione, avrebbe diritto al rimborso di somme che, però, non quantifica.

Ciò significa che XXXXXXX non avanza una istanza di mediazione immediata, quantificando l’importo di cui assume di aver diritto alla restituzione, bensì una istanza di mediazione volta all’accertamento del proprio diritto al fine di poter ottenere un risultato positivo dalla mediazione.

Nel verbale di mediazione di primo incontro del 20.9.2013, il mediatore non avanza una proposta di accordo ma, in aderenza alla richiesta dell’istante, avanza una proposta di accertamento dell’istanza mediante “…la nomina di un CTU finalizzata ad accertare con esattezza le richieste di parte istante”, così come gli è consentito dall’art. 8, comma 4, D. Lvo 28/2010.

Una proposta di tal fatta non può essere elevata a proposta di accordo non accettata da Banca XXXXXXX.

In altre parole, la proposta del mediatore, nel caso di specie, non costituisce proposta di accordo rifiutabile ex art. 17, comma 5 ter, D. L.vo 28/2010, ma proposta di accertamento della fondatezza della domanda ex art. 8, comma 4, stesso decreto, negata senza giustificato motivo da Banca XXXXXX, con conseguente danno a carico dell’istante, il quale ha agito in sede di mediazione ai sensi del citato art. 5, comma1, senza avere la possibilità di accertare, per volontà della parte convenuta, la fondatezza della propria pretesa, costringendolo, se ha inteso proseguire, ad esercitare identica azione in sede giudiziale col rischio di dover tornare in sede di mediazione se il giudice di primo grado dovesse ritenere che la mediazione di fatto, pur se formalmente esperita, non è stata compiuta (cfr, art. 5, comma 1 bis, D. Lvo 28/2010, come modificato dal D.L. 69/2013 convertito con modificazioni dalla Legge 98/2013, nella parte in cui recita che il Giudice “…allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione”) e che, dunque, la mediazione di fatto non vi è stata per mancata adesione all’accertamento della fondatezza della domanda (art. 8, comma 4) e non per mancato accordo (combinato disposto degli artt. 5, comma 2 bis e 17, comma 5 ter).

Peraltro se dovesse passare il principio del rifiuto “a prescindere” alla mediazione nelle materie per le quali è obbligatoria, verrebbe meno lo spirito della stessa legge della mediazione, nata per costituire un sistema di riduzione del contenzioso giudiziario in aderenza con quanto stabilito dalla direttiva 2008/52/CE recepita, appunto, dal D. Lvo 28/2010 e successive modifiche modificazioni ed integrazioni, modifiche ed integrazioni introdotte dal legislatore nazionale, che ha a sua volta recepito le direttive provenienti dalla famosa sentenza n. 272/2012 della Corte Costituzionale (cfr. in tal senso Trib. Firenze, II Sez. Civ., sentenza 19.3.2014, estensore dott. L. Breggia).

In conclusione, se la mediazione in determinate materie è obbligatoria, deve essere esperita e definita o con l’accordo o con il mancato accordo anche al primo incontro, purchè, in tale ultimo caso, vi sia una proposta di accordo di una delle parti piuttosto che del mediatore, non accolta da una delle parti comparse.

Ciò posto, l’opposizione di Banca XXXXXX non può essere accolta giacchè il suo rifiuto a proseguire nella mediazione, peraltro non manifestato nel corso del primo incontro ma con un fax spedito il giorno successivo, non rientra nell’ipotesi di mancato accordo al primo incontro, rifiutabile ai sensi del combinato disposto degli artt. 5 comma 2 bis e 17 comma 5 ter, D. L.vo 28/2010, né rientra tra le ipotesi di ingiustificato motivo a partecipare alla mediazione, quanto, piuttosto, nel porre in atto un arzigogolato sistema che si colloca nella zona d’ombra del D. L.vo 28/2010, compresa tra la partecipazione alla mediazione per evitare la dichiarazione di “ingiustificato motivo a partecipare alla mediazione stessa” e la mancata accettazione della proposta di accordo al primo incontro per evitare il pagamento delle spese della mediazione.

Ebbene, poiché tale terza via non è contemplata dalla normativa della mediazione, l’opposizione va rigettata e confermato il decreto ingiuntivo opposto giacchè l’attività di mediazione è stata comunque avviata e svolta nel corso del primo incontro ed interrotta ingiustificatamente dall’opposta.

Da quanto precede vi sarebbero pure i presupposti per la lite temeraria intentata dall’opponente, tuttavia, attesa, come detto, la novità della questione e la zona d’ombra, in relazione alla questione trattata, del D. L.vo 28/2010, si ritiene di rigettare la domanda in tal senso formulata dall’opposta.

Le spese di lite seguono la soccombenza e liquidate come da dispositivo in aderenza a quanto previsto dal D.M. 55/2014.

P.Q.M.

Il Giudice di Pace di Lecce definitivamente pronunciando sull’opposizione formulata da Banca XXXXXXXX nei confronti di XXXXXXXX, così dispone:

rigetta l’opposizione in quanto infondata e conferma il decreto ingiuntivo n. 883/2014;

condanna l’opponente al pagamento delle spese e competenze del presente giudizio di opposizione che quantifica in euro 225,00 per la fase di studio, euro 240,00 per la fase introduttiva ed euro 350,00 per la fase decisionale svolta all’udienza del 6.11.2014, così per complessivi euro 815,00 oltre rimborso forfettario al 15% iva e cap come per legge.

Lecce, 6.11.2014

Il Giudice di Pace     Avv. Giuseppe Paparella

adr intesa ente di formazione per mediatori civili riconosciuto dal ministero della giustizia

Tribunale di Firenze, sentenza 30 ottobre 2014.

Opposizione a decreto ingiuntivo. Omessa mediazione. Improcedibilità/estinzione. Effetti di giudicato del decreto opposto

Commento:

Si riapre la querelle relativa alla vexata quaestio delle conseguenze della omessa mediazione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

Come è noto, l’art. 5, co. 2 bis, D. lgs 28/2010 prevede che “… il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello”.

Va altresì rammentato che, a norma del co. 4 del medesimo art. 5,  i commi 1 bis e 2, vale a dire quelli che prevedono la mediazione obbligatoria prima del giudizio, ovvero la mediazione delegata dal giudice per le cause già pendenti, non si applicano “ ...nei procedimenti di ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”.

Il legislatore ha evidentemente ritenuto che lo svolgimento della procedura di mediazione fosse sostanzialmente incompatibile con le peculiari caratteristiche del procedimento monitorio, caratterizzato dalla rapidità e assenza di previa attivazione del contraddittorio, e dell’opposizione, il cui termine di proponibilità  risulta contingentato dall’art. 641 c.p.c.

In conseguenza di quanto premesso, in caso di pretesa azionata in via monitoria, l’esperimento della mediazione diviene possibile solo quando sia stata proposta opposizione, e comunque dopo l’adozione dei provvedimenti, considerati urgenti e latu sensu cautelari, sulla esecutività del provvedimento monitorio emesso.

Ora, fermo restando che ai sensi dell’art. 5, co. 2, citato, il mancato esperimento della mediazione delegata dal giudice, così come nel caso di mediazione ante causam, comporta la improcedibilità della domanda giudiziale, è assai discusso in dottrina e giurisprudenza chi abbia l’onere di promuovere la mediazione, e quindi abbia interesse ad evitare la declaratoria di improcedibilità, in caso di mediazione nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo.

Nella giurisprudenza sul punto, due sono gli orientamenti che si contrappongono.

Secondo un primo indirizzo, che valorizza la consolidata giurisprudenza circa l’oggetto del giudizio di opposizione, la declaratoria di improcedibilità avrebbe ad oggetto la domanda sostanziale proposta in via monitoria.

Il ricorrente opposto, formalmente convenuto nel relativo giudizio, è da considerarsi attore sotto il profilo sostanziale, mentre l’opponente, che formalmente ha agito, sempre sotto il profilo sostanziale deve ritenersi convenuto.

Pertanto l’opposto, titolare della pretesa sostanziale azionata, divenuta oggetto del giudizio di opposizione, avrà l’onere di promuovere il tentativo di mediazione, subendo, in mancanza, la declaratoria di improcedibilità della domanda, che implicherebbe il venir meno della pretesa sostanziale proposta in via monitoria.

Alla base di una siffatta ricostruzione si pone la ricorrente considerazione secondo cui, diversamente opinando, si finirebbe con il produrre un irragionevole squilibrio ai danni del debitore che non solo subisce l’ingiunzione di pagamento a contraddittorio differito, ma nella procedura successiva alla fase sommaria, viene pure gravato di altro onere che, nel procedimento ordinario, non spetterebbe a lui. E ciò sulla base di una scelta discrezionale del creditore (cfr., ex multis, Trib. Varese, 18 maggio 2012, est. Buffone).

Secondo un diverso orientamento, invece, muovendo da una lato da una asserita scarsa chiarezza obbiettiva delle espressioni letterali utilizzate dal legislatore e dall’altro dall’intento di valorizzare la particolare disciplina giuridica del giudizio di opposizione, si è sostenuta, in caso di omessa mediazione, la improcedibilità della opposizione, con conseguente passaggio in giudicato del decreto opposto (cfr., ad es., Trib. Prato, 18 luglio 2011, est. Iannone; o, più recentemente, Trib. Rimini, 5 agosto 2014 est. Bernardi).

Nel caso di specie, secondo il Tribunale di Firenze, “...pur consapevole della obbiettiva controvertibilità della questione...”, va privilegiata la seconda tesi, in quanto unica tale da armonizzarsi con i principi generali in materia di inattività delle parti, dato che, in fondo, la mancata attivazione della mediazione altro non sarebbe che una forma qualificata di inattività delle parti, avendo le stesse omesso di dare attuazione ad un ordine del giudice.

Ciò premesso, il Giudice osserva che l’inattività delle parti di regola produce l’estinzione del processo e che, se è vero che l’art. 310 c.p.c. prevede che “l’estinzione del processo non estingue l’azione”, è anche vero che detta regola non può valere con riferimento all’estinzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

L’art. 653, co. 1, c.p.c., dispone infatti che, nella ipotesi in esame, “Il decreto, che non ne sia già munito, acquista efficacia esecutiva”.

Secondo la costante interpretazione della giurisprudenza di legittimità, concorde la dottrina, tale disposizione va intesa nel senso che l’estinzione del giudizio di opposizione produce gli stessi effetti dell’estinzione del giudizio di impugnazione: il decreto ingiuntivo opposto diviene definitivo ed acquista l’incontrovertibilità propria del giudicato (cfr. Corte Cassaz,. n. 4294/2004). Non sarà pertanto possibile riproporre l’opposizione e resteranno coperti da giudicato implicito tutte le questioni costituenti antecedente logico necessario della decisione monitoria (cfr. Corte Cassaz. 15178/2000).

Evidente l’analogia di ratio e di disciplina tra l’estinzione dell’opposizione a decreto ingiuntivo e quella del processo di appello (art. 338 c.p.c. secondo cui “…l’estinzione del giudizio di appello… fa passare in giudicato la sentenza impugnata…”).

Conseguentemente, dall’omessa mediazione deriverà l’improcedibilità del giudizio di   opposizione, l’estinzione del medesimo ed il successivo passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo opposto.

Non sembra possano esservi dubbi sul fatto che la questione tornerà presto al centro del dibattito….attendiamo fiduciosi!

Testo integrale:

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE
Terza sezione CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Alessandro Ghelardini
pronuncia la seguente

 SENTENZA

 

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. (…omissis…)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

La A———— ha proposto opposizione avanti alla sezione distaccata di Empoli avverso il D.I., emesso in quella sede, n. —– R.I., con il quale le è stato ingiunto il pagamento in favore della B—— dell’importo di € 22.003,59, oltre interessi legali ex D. Lgs. 231/02 e spese, a titolo di corrispettivo per fornitura di merce (truciolo per cavalli).

A sostegno della opposizione la stessa ha eccepito, in rito, la incompetenza per territorio di questo Ufficio, per essere competente il Tribunale di Milano in applicazione degli artt. 19 e 20 c.p.c., e, nel merito, il grave inadempimento della parte opposta, per avere la medesima cessato arbitrariamente ogni fornitura dopo la prima consegna di materiale.
La A—–, pertanto, ha chiesto la revoca del D.I. nonché, in via riconvenzionale, disporsi la risoluzione del contratto di fornitura per inadempimento di B——; con il favore delle spese. Quest’ultima si costituita in giudizio, resistendo alla opposizione ed alla domanda riconvenzionale, evidenziandone l’infondatezza. Assumendo la temerarietà dell’opposizione, la stessa ha quindi chiesto la condanna di parte opponente per responsabilità processuale aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., oltre la condanna alle spese. Con ordinanza 13.7.10 l’ufficio ha concesso la provvisoria esecuzione del D.I..
La causa stata istruita su base documentale, con l’interrogatorio formale del legale rappresentante della convenuta opposta, cui lo stesso non si è presentato, con prova per testi e mediante ordine di esibizione documentale.
A seguito della soppressione della sede distaccata di Empoli il processo è stato trattato in sede centrale ed assegnato a questo giudice (cfr provv. Presidenziale 6.11.2013). Con decreto 13.1.2014, comunicato via PEC in pari data, questo Giudice ha fissato udienza all’8.7.2014 per la prosecuzione del processo avanti a s?? e la precisazione delle conclusioni, ed ha disposto la mediazione delegata ai sensi dell’art. 5, II co. D. Lgs. N. 28/10, così come novellato dal D.L. n. 69/13 conv. con modif. dalla L. n. 98/2013, assegnando all’uopo termine di gg 15 per la proposizione della relativa istanza.
All’udienza suddetta il difensore di parte opponente ha chiesto la remissione in termini per introdurre la mediazione, in quanto per un disguido, costituito dalla mancata lettura dell’allegato alla comunicazione di cancelleria contenente la copia del provvedimento 13.1.2014, la parte non aveva appreso della mediazione delegata. Respinta l’istanza di remissione in termini, stata quindi rilevata d’ufficio la improcedibilità della domanda e le parti, autorizzate, hanno depositato note difensive sul punto.
La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza 30.9.2014 sulle conclusioni precisate dalle parti come da rispettivi atti introduttivi.
Non sono stati concessi i termini di cui all’art. 190 c.p.c., per avervi le parti rinunciato.

 1.Questione di competenza.

 La questione è inammissibile.

Il Tribunale condivide quel consolidato orientamento della S.C. secondo cui “In tema di competenza territoriale derogabile, per la quale sussistano più criteri concorrenti (nella specie, quelli indicati negli artt. 18, 19 e 20 cod. proc. civ., trattandosi di causa relativa a diritti di obbligazione), grava sul convenuto che eccepisca l’ incompetenza del giudice adito (trattandosi di eccezione in senso proprio) l’onere di contestare specificamente l’applicabilità di ciascuno dei suddetti criteri e di fornire la prova delle circostanze di fatto dedotte a sostegno di tale contestazione, con la conseguenza che, in mancanza di tale contestazione e di detta prova, l’ eccezione deve essere rigettata, restando, per l’effetto, definitivamente fissato il collegamento indicato dall’attore, con correlativa competenza del giudice adito” (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 15996 del 21/07/2011; N. 14236 del 1999).

Nella fattispecie parte opponente, convenuta in senso sostanziale, ha eccepito la incompetenza per territorio esclusivamente con riferimento al foro generale del convenuto (art. 19 c.p.c) evidenziando di avere sede in Milano, ed al luogo ove l’obbligazione avrebbe dovuto essere eseguita (Milano, attuale sede della creditrice).

Nulla è invece detto circa il luogo in cui la pretesa di pagamento azionata è sorta.

Tale omissione rende pertanto irrituale l’eccezione, con conseguente conferma della competenza di questo giudice.
Ad abundantiam si osserva che la competenza si radicherebbe presso questo ufficio ai sensi degli artt. 1182, III co., c.c. e 20 c.p.c..
Il decreto ingiuntivo è infatti fondato su fatture relative a forniture eseguite sino al marzo 2009, epoca in cui la B——– ha trasferito la propria sede legale da STABBIA (FI), località rientrante nel territorio di questo Circondario, a Milano.
Poiché la stragrande maggioranza del credito era diventata esigibile prima del trasferimento della sede sociale, ne segue che correttamente il D.I. è stato richiesto presso questo Tribunale, posto che “l’obbligazione che ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro deve essere adempiuta al domicilio che il creditore ha al momento della scadenza”.
Il tutto senza considerare che non è mai stata contestata l’affermazione secondo cui il contratto di fornitura è stato concluso a Stabbia (FI).

 2) Il mancato esperimento della mediazione delegata

Premesso che è pacifico il mancato esperimento nel termine assegnato del procedimento di mediazione delegata ai sensi dell’art. 5, II co. D. Lgs 28/2010 e s.m.i., deve valutarsi in questa sede la conseguenza di tale omissione, avuto riguardo alla particolare natura del giudizio qui instaurato (opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 645 e ss c.p.c., con proposizione di domanda riconvenzionale e con riconventio riconventionis ai sensi dell’art. 96 c.p.c. della parte opposta).

La disposizione citata prevede che “… il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello”.
Il comma 4 della medesima disposizione prescrive inoltre che i commi 1 bis e 2, e cioè quelli che prevedono la mediazione obbligatoria prima del giudizio, ovvero la mediazione delegata dal giudice per le cause già pendenti, non si applicano “ nei procedimenti di ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione” (lett. a).

 Ad avviso del giudicante con tale disposizione si è inteso escludere sia che la proposizione del ricorso monitorio o della opposizione in materia rientrante tra quelle per le quali è prevista la necessaria mediazione ante causam, siano condizionate da tale incombente, sia che in tali procedimenti e nel susseguente giudizio di opposizione sino a quando siano stati adottati i provvedimenti, ritenuti evidentemente urgenti ed incompatibili con i tempi della mediazione, di cui agli artt. 648 e 649 c.p.c., possa essere disposta la mediazione delegata dal giudice.

La ratio di tale disciplina è evidente. Si è cioè ritenuto che lo svolgimento della procedura di mediazione fosse sostanzialmente incompatibile con le peculiari caratteristiche del procedimento monitorio, caratterizzato dalla rapidità e assenza di previa attivazione del contraddittorio, e dell’opposizione, il cui termine di proponibilità ?? contingentato dall’art. 641 c.p.c.

Alla luce di tale disposizione ne segue che, in caso di pretesa azionata in via monitoria, l’esperimento della mediazione possibile solo quando proposta opposizione, e comunque dopo l’adozione dei provvedimenti, considerati urgenti e latu sensu cautelari, sulla esecutività del provvedimento monitorio emesso.

Ciò posto, fermo restando che ai sensi dell’art. 5, co. II, citato, il mancato esperimento della mediazione delegata dal giudice, così come nel caso di mediazione ante causam, comporta la ”improcedibilità della domanda giudiziale”, è assai discusso in dottrina e giurisprudenza chi abbia l’onere di promuovere la mediazione, e quindi abbia interesse ad evitare la declaratoria di improcedibilità, in caso di mediazione nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo.
E’ evidente infatti che, in una causa ordinaria, l’interesse a promuovere la mediazione sarà sempre dell’attore, in quanto parte che mira ad ottenere sentenza di merito sulla domanda proposta.

Il convenuto potrà infatti avere interesse ad eseguire la mediazione solo laddove abbia proposto domanda riconvenzionale, ovvero comunque confidi nella probabile emissione di una pronuncia di merito favorevole, come tale idonea al giudicato sostanziale ai sensi dell’art. 2909 c.c.

Negli altri casi, l’eventuale declaratoria di improcedibilità non pregiudica direttamente il convenuto, che anzi vede allontanarsi il rischio di una pronuncia di merito sfavorevole.

Controversa è invece la questione, ove la mediazione omessa attenga ad un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
Secondo un primo indirizzo che, valorizza la consolidata giurisprudenza circa l’oggetto del giudizio di opposizione, la declaratoria di improcedibilità avrebbe ad oggetto la domanda sostanziale proposta in via monitoria.
Viene infatti richiamato in proposito il principio, peraltro condivisibile, secondo cui il processo di esecuzione verte sul rapporto dedotto in giudizio dal creditore e non esclusivamente sulla legittimità del D.I., e che l’onere probatorio e le relative facoltà processuali vanno valutate non avendo riguardo alla qualità formale di attore e convenuto in opposizione, bensì con riferimento alla rilevanza sostanziale della rispettiva posizione processuale (per cui il ricorrente in monitorio, formalmente convenuto in opposizione, è da considerarsi attore in senso sostanziale, mentre l’opponente è convenuto sostanziale).

Ne segue che il convenuto opposto, titolare delle pretesa creditoria azionata ed oggetto del giudizio di opposizione, sarebbe l’unico soggetto che, al di fuori dei casi di domanda riconvenzionale, propone la “domanda giudiziale” e che pertanto dovrebbe subire gli effetti della declaratoria di improcedibilità.

Tale soggetto, pertanto, concludono i fautori di tale tesi, avrà l’onere di promuovere la mediazione, subendo, in alternativa , gli effetti deteriori della relativa omissione.

Diversamente argomentando, si osserva, “vi sarebbe un irragionevole squilibrio ai danni del debitore che non solo subisce l’ingiunzione di pagamento a contraddittorio differito, ma nella procedura successiva alla fase sommaria, viene pure gravato di altro onere che, nel procedimento ordinario, non spetterebbe a lui. E ciò sulla base di una scelta discrezionale del creditore” (Trib. Varese sentenza 18.5.2012, est. Buffone, reperibile su siti internet specializzati; analoga opzione interpretativa è stata accolta anche da questa stessa sezione del Tribunale nell’ordinanza 17.3.2014, NRG 15408/13, est. Scionti, reperibile su internet, e nella Sent. 24.9.2014, NRG 16792/13, est. Guida, inedita).

Secondo invece un diverso orientamento, che muove della ritenuta scarsa chiarezza obbiettiva delle disposizioni letterali utilizzate e che valorizza la particolare disciplina giuridica del giudizio di opposizione, è stata sostenuta, in caso di omessa mediazione, la improcedibilità della opposizione, con conseguente passaggio in giudicato del D.I. opposto (Trib. Prato, sent. 18.7.2011, est. IANNONE; Trib. Rimini sent. 5.8.14 est. BERNARDI in sito MONDO ADR, Trib. Siena 25.6.2012, est. Caramellino).
Ad avviso di questo Giudice, pur consapevole della obbiettiva controvertibilità della questione, la tesi corretta la seconda. Essa, infatti, l’unica che si armonizza con i principi generali in materia di effetti della inattività delle parti nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e che valorizza la stessa ratio deflattiva del procedimento di mediazione.
Va premesso che la mancata attivazione della mediazione disposta dal giudice, al di là della terminologia utilizzata dal Legislatore e dalla sanzione prevista (improcedibilità della domanda giudiziale, anche in appello), altro non è che una forma qualificata di inattività delle parti, per avere le stesse omesso di dare esecuzione all’ordine del giudice.
E’ noto che secondo la legge processuale l’inattività delle parti rispetto a specifici adempimenti comporta, di regola, l’estinzione del processo (si pensi all’inosservanza all’ordine giudiziale di integrazione del contraddittorio nei confronti di litisconsorte necessario, alla mancata rinnovazione della citazione, alla omessa riassunzione del processo, alla mancata comparizione delle parti a due udienze consecutive – artt.102, 181, 307 e 309 c.p.c.).
L’estinzione non produce peraltro particolari effetti sotto il profilo sostanziale, salvo che nelle more della pendenza del giudizio estinto non sia maturata qualche decadenza o prescrizione di natura sostanziale.
Recita, infatti, l’art. 310, I co. c.p.c. che “l’estinzione del processo non estingue l’azione”.
In buona sostanza, la parte, che vede “cadere” il processo a seguito di declaratoria di estinzione, ben potrà avviare una nuova iniziativa processuale, riproponendo la medesima domanda di merito.

Tale regola, però, non vale in caso di estinzione riguardante il giudizio di opposizione a D.I..

E’ infatti previsto che, in tal caso, “il decreto, che non ne sia già munito, acquista efficacia esecutiva” giusto il disposto di cui all’art. 653, I co. c.p.c..

Secondo la costante interpretazione della giurisprudenza di legittimità, concorde la dottrina, tale disposizione va intesa nel senso che l’estinzione del giudizio di opposizione produce gli stessi effetti dell’estinzione del giudizio di impugnazione: il decreto ingiuntivo opposto diviene definitivo ed acquista l’incontrovertibilità tipica del giudicato. (CASS. N. 4294/2004; n. 849/00).
Non sarà pertanto possibile riproporre l’opposizione e resteranno coperti da giudicato implicito tutte le questioni costituenti antecedente logico necessario della decisione monitoria (cfr sul punto, tra le altre, Cass. 15178/00).
Evidente l’analogia di ratio e di disciplina tra l’estinzione dell’opposizione a D.I. e quella del
processo di appello (art. 338 c.p.c. secondo cui “l’estinzione del giudizio di appello… fa passare in giudicato la sentenza impugnata…”).
Si pensi, ancora, alla sanzione processuale prevista in caso di tardiva costituzione in giudizio dell’opponente.
Sul punto è consolidata la giurisprudenza di legittimità nel senso di ritenere che in tal caso l’opposizione improcedibile (tra le tante, CASS. N. 15727/06; nello stesso senso Cass. n. 25621/08), con passaggio in giudicato del D.I. (così come si evince dal combinato disposto di cui agli artt. 647 e 656 c.p.c.).

Trattasi di disposizione che trova il suo corrispondente in fase di appello nell’art. 348, I co. c.p.c., il quale espressamente prevede la sanzione dell’improcedibilità dell’appello, se l’appellante non si costituisce nei termini. E’ pacifico che anche in tal caso la sentenza di primo grado passa in giudicato.

Ancora, si pensi all’inammissibilità dell’opposizione, perch?? proposta dopo il termine di cui all’art. 641 c.p.c., ed alla analogia di trattamento rispetto al mancato rispetto in fase di impugnazione dei termini perentori di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c..
Tale disciplina risponde all’elementare esigenza di porre a carico della parte opponente/appellante, che si avvale dei rimedi previsti per evitare il consolidarsi di provvedimento giudiziale idoneo al giudicato e per ottenerne la revoca/riforma, l’onere di proporre e coltivare ritualmente il processo di opposizione/ di gravame, ponendo in essere ritualmente tutti gli atti di impulso necessari.
Alla luce di quanto sopra, si ritiene che la interpretazione delle disposizioni di cui al D. Lgs. N. 28/10 e s.m.i. in materia di conseguenze dell’omessa mediazione non possa prescindere dalla particolare natura dei giudizi cui essa si riferisce, e segnatamente dalle peculiarità del giudizio di opposizione a D.I., che presenta i suddetti aspetti di analogia con i giudizi impugnatori.
Al fine di non optare per una interpretazione dell’art. 5, II co. D. Lgs citato, incoerente e dissonante con le suddette peculiarità, deve pertanto ritenersi che nell’opposizione a D.I., così come per i procedimenti di appello, la locuzione “improcedibilità della domanda giudiziale” debba interpretarsi alla stregua di improcedibilità/estinzione dell’opposizione (o dell’impugnazione in caso di appello) e non come improcedibilità della domanda monitoria consacrata nel provvedimento ingiuntivo.
Invero, la tesi per prima indicata appare fondata essenzialmente, al di là delle suggestioni relative allo scollamento tra qualità formale e sostanziale delle parti, peraltro costituente anch’esso caratteristica di tale tipo di procedimento, su una mera interpretazione letterale della disciplina, secondo cui “l’improcedibilità della domanda giudiziale” sarebbe senz’altro da individuare, anche ai sensi dell’art. 39 ultimo comma c.p.c., nell’originario ricorso monitorio.
Peraltro, così argomentando, si verrebbe a configurare, come è stato evidenziato in dottrina, una singolare “improcedibilità postuma” che dovrebbe colpire un provvedimento giudiziario condannatorio idoneo al giudicato sostanziale, già definitivamente emesso, ancorché sub judice.
Si tratterebbe, in sostanza, di sanzione processuale che non consta abbia uguali nell’ordinamento processuale.
Il tutto senza considerare l’inopportunità di porre nel nulla una pretesa che già stata scrutinata positivamente dall’autorità giudiziaria, sia pure non nel contraddittorio delle parti, con provvedimento idoneo al giudicato sostanziale.
Si aggiunga che in tal caso, ove la domanda sia una pretesa creditoria di condanna, dovrebbe allora ritenersi, con riferimento al giudizio di appello, che la inosservanza della mediazione disposta dal giudice dovrebbe comportare, ove la sentenza di primo grado abbia interamente accolto la domanda ed il gravame sia stato proposto dal debitore condannato che non abbia avanzato alcuna riconvenzionale, l’integrale travolgimento non solo del giudizio di appello, ma anche di quello di primo grado e della sentenza impugnata.

Fare riferimento alla domanda sostanziale, ed alla nozione di attore in senso sostanziale, porterebbe ciò all’inevitabile conseguenza, sempreché nelle more non siano maturate decadenze o prescrizioni, che il processo potrebbe ricominciare da zero (nuovo ricorso monitorio, conseguente opposizione ecc.).

Dove sia la ratio deflattiva dell’istituto della mediazione delegata, così interpretata, resta incomprensibile.
In realtà in caso di omessa mediazione nell’opposizione a D.I. non si avrebbe alcun deflaziona mento effettivo, bensì il raddoppio dei processi e degli adempimenti. Il creditore che non ottiene soddisfazione dal processo “improcedibile” non esiterà, nella maggior parte dei casi, a riproporre in via giudiziale la medesima domanda.
Si aggiunga che la soluzione interpretativa proposta esalta la portata e l’efficacia deflattiva dell’istituto, essendo evidente che il formarsi del giudicato rende non più ulteriormente discutibile il rapporto controverso, con conseguente rigetto in rito dell’eventuale riproposizione della medesima domanda (o di altre con questa incompatibili).
Le questioni poste a base dell’opposizione a DI, come nel caso dell’appello, una volta dichiarate “improcedibili”, non potrebbero essere più utilmente riproposte.

Né d’altra parte può ritenersi, così come sostenuto nella citata pronuncia dal Tribunale di Varese, che tale soluzione circa l’opposizione a D.I., creerebbe “un irragionevole squilibrio ai danni del debitore che non solo subisce l’ingiunzione di pagamento a contraddittorio differito, ma nella procedura successiva alla fase sommaria, viene pure gravato di altro onere che, nel procedimento ordinario, non spetterebbe a lui. E ciò sulla base di una scelta discrezionale del creditore”.
Invero, non può ravvisarsi alcuna disparità irragionevole nella circostanza che la scelta tra i diversi strumenti processuali attivabili dall’attore sostanziale possa comportare oneri e costi diversi per la parte convenuta.
D’altra parte non seriamente contestabile la piena legittimità e compatibilità del rito monitorio e della disciplina codicistica dell’opposizione con i principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. e ciò anche se è indubbio che la scelta tra le diverse opzioni possibili di esercizio del diritto di azione, e segnatamente quella del rito monitorio, pone a carico della parte ingiunta oneri diversi ed ulteriori (si pensi solo al termine più breve per proporre l’opposizione, rispetto a quello di cui all’art. 163 bis c.p.c., e di costituzione in giudizio, ovvero ai costi di iscrizione a ruolo e di notifica della causa di opposizione) rispetto a quelli che la stessa deve assolvere, ove evocata in giudizio in via ordinaria.
Ciò che è certo è che i costi della promozione della mediazione, che consistono in sostanza nella mera redazione ed invio della richiesta all’organismo di mediazione con pagamento delle spese di segreteria per poche decine di euro, per la loro obbiettiva modestia, non possono certo considerarsi di per sé tali da far valutare irragionevole la scelta legislativa in questione.
D’altra parte va richiamato il combinato disposto di cui agli artt. 5 comma 2 bis e 17, comma 5 ter D. Lgs. N. 28/10, così come introdotti dal DL 69/13 conv. L. 98/13, da cui si evince, da un lato, che la condizione di procedibilità della domanda giudiziale “si considera avverata se il primo incontro avanti al mediatore si conclude senza l’accordo” e, dall’altro, che “nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”.
Non sembra pertanto che porre l’onere dell’avvio della mediazione a carico del debitore opponente comporti alcun sacrificio economicamente apprezzabile.

Si aggiunga che tale opzione interpretativa, che pone a carico della parte opponente l’onere della proposizione della mediazione, dovrà applicarsi, ovviamente, non solo nei giudizi ex art. 645 c.p.c., ma ogni qualvolta il processo abbia già prodotto un provvedimento idoneo al giudicato ex art. 2909 c.c.. (es. ordinanze ex art. 186 bis e ter c.p.c. ecc.).
Anche in tal caso la omessa mediazione comporterà la intangibilità del provvedimento adottato, con le inevitabili conseguenze circa gli antecedenti logici della decisione e l’oggetto del giudicato

 In tutti gli altri casi, ovviamente, non può che prendersi atto della scelta legislativa circa la sanzione processuale applicata, di mero rito, e della conseguente possibilità di riproposizione della domanda senza limiti, salva l’eventuale maturazione di decadenze o prescrizioni.

Conclusioni

Va pertanto dichiarata l’improcedibilità dell’opposizione e della domanda riconvenzionale proposta.

Analogamente va sanzionata la domanda ex art. 96 c.p.c. avanzata da parte opposta.

Resta assorbita ogni questione di merito.

Spese del giudizio Considerata la complessità della questione, la mancanza di precedenti di legittimità, e la presenza di orientamenti giurisprudenziali di merito e dottrinali difformi, anche di questo Ufficio, le spese di lite vanno interamente compensate.

P.Q.M.

Visto l’art. 281 quinquies c.p.c.
Il Tribunale di Firenze, III Sez. Civ., definitivamente decidendo, ogni altra e contraria istanza disattesa, così provvede:

1)DICHIARA improcedibile l’opposizione e la domanda riconvenzionale proposte dall’opponente e quella ex art. 96 c.p.c. avanzata da parte opposta;

2)DICHIARA la irrevocabilità del D.I. n.——— R.I., S. D. Empoli;

3)COMPENSA le spese di lite.

Mediazione-obbligatoria

Tribunale di Avezzano, ordinanza 29 ottobre 2014.

Commento

Il Tribunale di Avezzano, con l’ordinanza in commento, afferma che il decreto di omologa del verbale di conciliazione, titolo esecutivo alla stregua di quanto disposto dall’art. 12, D.lgs 28/2010, non richiede l’apposizione della formula esecutiva.

Nel caso di specie, l’istanza di sospensione del precetto formulata dalla parte opponente ai sensi dell’art. 615, co. 1, c.p.c., veniva a fondarsi, in buona sostanza, sull’asserita inidoneità del solo decreto presidenziale a costituire titolo sufficiente ai fini dell’avvio della procedura esecutiva, in carenza, per l’appunto, della formula esecutiva.

Il Tribunale, aderendo peraltro ad autorevole e consolidata dottrina, opina invece in senso contrario, muovendo dall’assunto secondo il quale la legge ha inteso indicare espressamente le ipotesi in cui detto ulteriore adempimento formale risulta rivestito dai crismi dell’indispensabilità, con la conseguenza che, nel silenzio del legislatore sul punto, il solo decreto di omologa del verbale di conciliazione deve considerarsi sufficiente per intraprendere la procedura di esecuzione.

In sintesi, il Giudice opera una ricostruzione basata sull’interpretazione sistematica degli artt. 474 e 475 c.p.c., da cui emerge come quest’ultima disposizione, in particolare, mira a disciplinare espressamente le ipotesi nelle quali è richiesta la specifica (e preventiva) apposizione della formula esecutiva.

In altri termini, l’art. 475 c.p.c non ha, come appare condivisibile a chi scrive, la funzione di richiamare integralmente l’ampio genus di atti (nel quale rientra senz’altro il decreto di omologa in parola) cui la legge attribuisce efficacia esecutiva, ma quella ben diversa di “isolare”, per così dire, all’interno della tipologia generale, quelle singole ipotesi per le quali l’adempimento in esame si pone come necessario.

Ne deriva, quindi, che, con riferimento specifico al decreto presidenziale di omologa del verbale di conciliazione, l’apposizione della formula esecutiva deve ritenersi adempimento non indispensabile.

Testo integrale

N. 904/2014 R.G.

Tribunale ordinario di Avezzano

Il Giudice;

Letti gli atti ed in particolare l’istanza di sospensione del precetto formulata ai sensi dell’art 615 comma 1° c.p.c. da parte attrice opponente; sentite le parti, a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 29 ottobre 2014;

Premesso che la controversia che ci occupa ha ad oggetto l’opposizione (da qualificarsi correttamente come opposizione all’esecuzione ex art 615 comma 1° c.p.c.) avverso l’atto di precetto notificato al xxxxxxx xxxxx e fondato sul decreto di omologa del verbale di conciliazione ai sensi dell’art 12 D.Lvo 28/2010; che a fondamento della domanda veniva dedotta in buona sostanza l’inidoneità del solo decreto presidenziale a costituire, in assenza della formula esecutiva, titolo sufficiente ai fini dell’inizio della procedura esecutiva; che, inoltre, parte attrice deduceva il difetto della procura alle liti in quanto apposta soltanto in calce all’istanza di omologa del verbale di conciliazione, mentre nel merito, venivano contestate alcune voci (ovvero nello specifico, “variazioni in aumento” o costo della mediazione corrisposta invece dal legale rappresentante della stessa ditta attrice);

Considerato che costituendosi in giudizio la convenuta eccepiva l’incompetenza per valore del giudice adito in favore dell’ufficio del Giudice di Pace di Avezzano;

Rilevato che la giurisprudenza di legittimità (cfr Cass Civ 1372/2000) e di merito, eccetto isolati casi, ha sostenuto che poiché l’inizio della procedura esecutiva si ha con il pignoramento, avendo il precetto la sola funzione di preannunciare il soddisfacimento coatto dell’azionata pretesa, è da considerarsi tamquam non esset il provvedimento di sospensione emanato prima dell’inizio dell’esecuzione;

Considerato che questa soluzione esegetica è stata avvalorata anche dalla giurisprudenza costituzionale avendo la Consulta dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt 615, 623, 624 cpc nella parte in cui, secondo l’interpretazione consolidata, non consentivano la sospensione dell’esecuzione sulla scorta del solo atto di precetto (cfr Corte Costa n. 234/92)

Rilevato tuttavia che con l’entrata in vigore della L. 80/2005 è stata espressamente prevista la possibilità di procedere alla sospensione del precetto ricorrendo gravi motivi;

Considerato che il decreto di omologa del verbale di conciliazione secondo il disposto di cui all’art 12 d.lvo 28/2010 deve intendersi alla stregua di titolo esecutivo; che non risulta pertanto a tal fine indispensabile l’apposizione della formula esecutiva e che tale interpretazione, peraltro suffragata da autorevole dottrina, trae convincimento dall’assunto secondo cui il legislatore ha espressamente indicato i casi in cui è indispensabile tale ulteriore adempimento formale; che, pertanto, va da sé come nel silenzio della legge il solo decreto di omologa possa essere sufficiente per intraprendere la procedura esecutiva; che tale soluzione risulta ulteriormente rafforzata dalla lettura sistematica degli artt 474 e 475 c.p.c.; che, in particolare, tale ultima norma espressamente disciplina le ipotesi residuali in presenza delle quali è richiesta la specifica e preventiva apposizione della formula esecutiva; che dalla circostanza che l’art 475 c.p.c. non richiami la categoria degli atti ai quali la legge attribuisce una specifica efficacia esecutiva deve ritenersi che per il provvedimento di omologa della conciliazione che rientra all’interno di tale ampio genus, non sia necessaria la formula esecutiva; che allo stesso tempo non soddisfano il requisito dei gravi motivi neppure gli altri profili di doglianza in quanto la procura ad litem risulta effettivamente e validamente apposta in calce dell’istanza di omologa ex art 12 e risulta conferita anche per la fase esecutiva e le argomentazioni in punto di merito appaiono, perlomeno allo stato, sfornite di adeguato riscontro probatorio; che, a titolo meramente esemplificativo, è sufficiente considerare che l’inserimento nell’atto di precetto della voce “compenso mediazione” vuole chiaramente alludere alle spettanze maturate dal procuratore della parte per l’attività di assistenza della stessa nella fase stragiudiziale e non di certo, e come di contro ha inteso significare l’attrice, ad un’indebita ripetizione di somme già corrisposte;

Considerato che, esaminando invece la posizione assunta in subiecta materia dalla dottrina, deve osservarsi che la natura cautelare di detta istanza di sospensione comporta che i “gravi motivi”, richiesti dall’art. 615 c.p.c. ai fini del relativo accoglimento, debbano essere individuati nei requisiti propri dell’azione cautelare (fumus boni juris e periculum in mora), con conseguente necessità, da parte del giudice, di valutare sia la presumibile fondatezza delle ragioni dell’opposizione e sia la irreparabilità del pregiudizio che potrebbe derivare all’opponente dal compimento degli atti esecutivi, e di privilegiare, nella comparazione dei contrapposti interessi delle parti, quello del creditore procedente, poiché questi, se dovesse essergli inibita l’esecuzione, “correrebbe il rischio che il soggetto intimato possa rendersi impossidente”

Rilevato che, come già anticipato, la convenuta all’atto della costituzione in giudizio ha tempestivamente sollevato il difetto di competenza per valore del Tribunale adito in favore dell’ufficio del Giudice di Pace; che tale circostanza non appare idonea a riverberare alcuna conseguenza significativa ai fini dell’accoglimento dell’istanza di sospensione posto che la pendenza di una questione in punto di competenza non consente di paralizzare l’esecuzione fondata su un titolo allo stato pienamente legittimo;

Visto l’art 615 comma 1 c.p.c.

P.Q.M

Rigetta l’istanza di sospensione;

Lette le richieste delle parti;

Ritenuto di dover comunque fissare la precisazione delle conclusioni sulla questione pregiudiziale dell’incompetenza per valore;

PQM

rinvia la causa all’udienza del 28 gennaio 2015 per la precisazione delle conclusioni sulla predetta eccezione;

Manda alla Cancelleria per le comunicazioni di rito.

Avezzano, 29 ottobre 2014

IL GIUDICE

(Andrea DELL’ORSO)

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