Mediazione-obbligatoria

Tribunale di Nola, sentenza 24 febbraio 2015

Commento:

Ancora un provvedimento, nella fattispecie ad opera del Tribunale di Nola, con il quale si conferma l’orientamento “sistematico – evolutivo” in relazione alle conseguenze della mancata instaurazione del procedimento di mediazione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

Il Giudice, infatti, ritiene di aderire al “…non isolato orientamento (Cfr. Trib. Rimini, 05.8.2014) che, muovendo dalla necessità di fornire alla disciplina dettata dal d.lgs. 28/2010 una interpretazione sistematica, che sia coerente non solo con l’intero universo normativo in materia di giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ma, altresì, con la ratio che ha animato il legislatore dell’Istituto della mediazione obbligatoria, individuando nell’opponente il soggetto su cui graverebbe l’onere di coltivare il giudizio e, quindi, anche gli effetti pregiudizievoli di un’eventuale improcedibilità. Con la conseguenza che, una volta dichiarata l’improcedibilità dell’opposizione, il corollario giuridico di detta pronuncia non potrà che essere la conferma del decreto ingiuntivo opposto”.

Sembra opportuno ricostruire le posizioni successivamente emerse in giurisprudenza.

Come è noto, l’art. 5, co. 2 – bis, D. lgs 28/2010, prevede che “il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello”.

Va altresì rammentato che, a norma dell’art. 5, co. 4, i commi 1 – bis e 2 del medesimo articolo 5, vale a dire le disposizioni che prevedono la mediazione obbligatoria prima del giudizio, ovvero la mediazione delegata dal giudice per le cause già pendenti, non si applicano “ ...nei procedimenti di ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”.

Il legislatore ha evidentemente ritenuto che lo svolgimento della procedura di mediazione fosse sostanzialmente incompatibile con le peculiari caratteristiche del procedimento monitorio, caratterizzato dalla rapidità e assenza di previa attivazione del contraddittorio, e dell’opposizione, il cui termine di proponibilità risulta contingentato dall’art. 641 c.p.c.

In conseguenza di quanto premesso, in caso di pretesa azionata in via monitoria, l’esperimento della mediazione diviene possibile solo quando sia stata proposta opposizione, e comunque dopo l’adozione dei provvedimenti, considerati urgenti e latu sensu cautelari, sulla esecutività del provvedimento monitorio emesso.

Ora, fermo restando che ai sensi dell’art. 5, co. 2, citato, il mancato esperimento della mediazione delegata dal giudice, così come nel caso di mediazione ante causam, comporta la improcedibilità della domanda giudiziale, ha costituito oggetto di vivace dibattito, in dottrina e giurisprudenza, il punto relativo a chi abbia l’onere di promuovere la mediazione, e quindi abbia interesse ad evitare la declaratoria di improcedibilità, per l’appunto con riferimento all’ipotesi di mediazione in presenza di opposizione a decreto ingiuntivo.

In ordine alla problematica in esame, due diversi orientamenti si sono successivamente contrapposti.

Secondo un primo indirizzo, che valorizza la consolidata giurisprudenza circa l’oggetto del giudizio di opposizione, la declaratoria di improcedibilità avrebbe ad oggetto la domanda sostanziale proposta in via monitoria.

Il ricorrente opposto, formalmente convenuto nel relativo giudizio, è da considerarsi attore sotto il profilo sostanziale, mentre l’opponente, che formalmente ha agito, sempre sotto il profilo sostanziale deve ritenersi convenuto.

Pertanto l’opposto, titolare della pretesa sostanziale azionata, divenuta oggetto del giudizio di opposizione, avrà l’onere di promuovere il tentativo di mediazione, subendo, in mancanza, la declaratoria di improcedibilità della domanda, che implicherebbe il venir meno della pretesa sostanziale proposta in via monitoria.

Alla base di una siffatta ricostruzione si pone la ricorrente considerazione secondo cui, diversamente opinando, si finirebbe con il produrre un irragionevole squilibrio ai danni del debitore che non solo subisce l’ingiunzione di pagamento a contraddittorio differito, ma nella procedura successiva alla fase sommaria, viene pure gravato di altro onere che, nel procedimento ordinario, non spetterebbe a lui. E ciò sulla base di una scelta discrezionale del creditore (cfr., ex multis, Trib. Varese, 18 maggio 2012, est. Buffone).

Secondo un diverso orientamento, invece, muovendo da una lato da una asserita scarsa chiarezza obbiettiva delle espressioni letterali utilizzate dal legislatore e dall’altro dall’intento di valorizzare la particolare disciplina giuridica del giudizio di opposizione, si è sostenuta, in caso di omessa mediazione, la improcedibilità della opposizione, con conseguente passaggio in giudicato del decreto opposto (cfr., ad es., Trib. Prato, 18 luglio 2011, est. Iannone; Trib. Rimini, 5 agosto 2014, est. Bernardi; e, più recentemente, Trib. Firenze, 30 ottobre 2014, est. Ghelardini).

Tale opzione ermeneutica è quella che appare più in armonia con il contesto normativo in cui si inserisce il giudizio di opposizione e, in particolare, con il sistema di sanzioni previste dall’ordinamento a fronte dell’inattività del debitore ingiunto.

Occorre innanzitutto fare riferimento alla disciplina di cui al combinato disposto degli artt. 647 e 650 c.p.c. in virtù del quale, dichiarata l’inammissibilità dell’opposizione tardiva, il decreto acquista esecutività.

La medesima sanzione è prevista, poi, dal richiamato art. 647 c.p.c. per l’ipotesi di costituzione tardiva dell’opponente.

Viene in rilievo, infine, il dettato dell’art. 653 c.p.c. che, per il caso di dichiarazione dell’estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 307 c.p.c. , stabilisce che “il decreto che non ne sia già munito acquista efficacia esecutiva”.

D’altro canto, ritenere che la mancata instaurazione del procedimento di mediazione conduca alla revoca del decreto ingiuntivo comporterebbe che, in contrasto con le regole processuali proprie del rito, si porrebbe in capo all’originario ingiungente l’onere di coltivare il giudizio di opposizione per garantirsi la salvaguardia del decreto opposto, con ciò contraddicendo la ratio propria del giudizio di opposizione, che ha la propria peculiarità nel rimettere l’instaurazione del giudizio – e, quindi, la sottoposizione al vaglio del giudice della fondatezza del credito oggetto d’ingiunzione  – alla libera scelta del debitore.

Del resto, se solo si considera che l’opposto è già munito di un titolo che, come detto, è destinato a consolidarsi nel caso di mancata opposizione, appare evidente che è proprio l’opponente la parte più interessata all’esito del giudizio di opposizione.

D’altra parte, con riferimento a quanto previsto dall’art. 653 c.p.c., è opportuno sottolineare che secondo la costante interpretazione della giurisprudenza di legittimità, concorde la dottrina, tale disposizione va intesa nel senso che l’estinzione del giudizio di opposizione produce gli stessi effetti dell’estinzione del giudizio di impugnazione: il decreto ingiuntivo opposto diviene definitivo ed acquista l’incontrovertibilità propria del giudicato (cfr. Corte Cassaz,. n. 4294/2004). Non sarà pertanto possibile riproporre l’opposizione e resteranno coperti da giudicato implicito tutte le questioni costituenti antecedente logico necessario della decisione monitoria (cfr. Corte Cassaz. 15178/2000).

Evidente l’analogia di ratio e di disciplina tra l’estinzione dell’opposizione a decreto ingiuntivo e quella del processo di appello (art. 338 c.p.c. secondo cui “l’estinzione del giudizio di appello… fa passare in giudicato la sentenza impugnata…”).

Inoltre, la soluzione interpretativa in parola appare maggiormente coerente anche con la finalità deflattiva che ha accompagnato l’introduzione da parte del legislatore dell’istituto della mediazione: il formarsi del giudicato sul decreto ingiuntivo opposto, infatti, esclude che possa mettersi nuovamente in discussione tra le parti il rapporto controverso mediante la riproposizione della medesima domanda.

Pertanto, sulla base del complesso di considerazioni finora svolte, il Tribunale di Nola ha ritenuto di dichiarare improcedibile l’opposizione e, per l’effetto, esecutivo il decreto ingiuntivo opposto, con spese del giudizio che, ovviamente, seguono la soccombenza.

 

Testo integrale:

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI NOLA
II SEZIONE CIVILE
IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA, IN PERSONA DELLA DOTT.SSA
MARIA GABRIELLA FRALLICCIARDI

 

Ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Ai sensi dell’art.281 sexies c.p.c.

Nella causa iscritta al nrg_____/2014

TRA

Ditta X, in persona del rappresentante p.t.____ rappresentato e difeso dall’avv._____

Opponente

NEI CONFRONTI DI

Banco ____ in persona del legale rappresentante p.t., con l’avv._______

Opposta

Oggetto: opposizione a decreto ingiuntivo n.___/2013 emesso dal Tribunale di Nola in data_____.

 

Conclusioni: come da atti di causa e verbali di udienza del____

 

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO

Con atto di citazione notificato in data 25.02.2014, la Ditta X in qualità di debitore principale e_____ in qualità di fideiussore, proponevano opposizione avverso il d.i. n. ___/2013 con il quale, in data _____questo Tribunale aveva ingiunto loro di pagare alla Banco_____ l’importo di euro 63.901,59, oltre interessi, a titolo di saldo debitore relativo al conto corrente n.1611/9353 acceso dalla ____ presso l’Istituto di credito ricorrente.

Si costituiva l’opposta chiedendo il rigetto dell’opposizione perché infondata.

Alla prima udienza di comparizione della parti, questo giudice, ritenendo non sussistessero i presupposti di cui all’art. 648 c.p.c., rigettava la richiesta di sospensione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto e, rilevato che le parti non avevano provveduto ad esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione ex d.lgs. 28/2010, rinviava all’udienza del 05.02.2015, assegnando termine alle parti di quindi giorni per la presentazione della domanda di mediazione.

All’udienza del 05.02.2015 le parti dichiaravano di non aver esperito il tentativo di conciliazione e, pertanto, chiedevano fissarsi udienza di discussione ai sensi dell‘art. 281 sexies c.p.c. al fine di dichiarare la improcedibilità dell’opposizione.

All’udienza del 24.02.2015, all’esito della discussione delle parti, il giudice ha deciso la causa dando lettura della sentenza.

Si osserva in diritto.

L’opposizione è improcedibile.

Al riguardo viene in rilievo il d.lgs. 28/2010 che, all’art. 5 ha introdotto, quale condizione di procedibilità per le controversie aventi ad oggetto, tra le parti, i contratti bancari, l’esperimento di un procedimento di mediazione ai sensi del medesimo decreto (…), prevedendo che altresì, qualora il mancato esperimento della mediazione venga eccepito dal convenuto o rilevato dal giudice entro la prima udienza, quest’ultimo assegni alle parti il termine di quindici giorni per l’avvio del procedimento in parola.

Ai sensi dell art. 5 cit., poi, il mancato esperimento della mediazione delegata dal giudice, così come nel caso di mediazione ante causam, comporta l’improcedibilità della domanda giudiziale.

Ciò premesso in ordine alla necessità di dichiarare l’improcedibilità dell’opposizione atteso che, come rilevato, le parti non hanno ottemperato all’invito del giudice di avviare il procedimento di mediazione, va ora stabilito quale sia la sorte del decreto ingiuntivo opposto per effetto di detta improcedibilità dell’opposizione.

Non ignora questo giudice che sul punto, all’indomani delle prime applicazioni interpretative della disciplina richiamata, si è formato nella giurisprudenza di merito (Trib. Varese, 18.05.2012) un orientamento secondo cui, vertendo il giudizio di opposizione sulla pretesa creditoria vantata dall’opposto e gravando su quest’ultimo attore in senso sostanziale, l’onere probatorio e le relative facoltà di domanda riconvenzionale, proponendo “domanda giudiziale” dovrebbe, conseguentemente subire gli effetti dell’eventuale declaratoria di improcedibilità e, in particolare di revoca del decreto opposto.

Ritiene questo giudice di aderire al diverso e non isolato orientamento (Cfr. Trib. Rimini, 05.8.2014) che, muovendo dalla necessità di fornire alla disciplina dettata dal d.lgs. 28/2010 una interpretazione sistematica, che sia coerente non solo con l’intero universo normativo in materia di giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ma, altresì, con la ratio che ha animato il legislatore dell’Istituto della mediazione obbligatoria, individuando nell’opponente il soggetto su cui graverebbe l’onere di coltivare il giudizio e, quindi, anche gli effetti pregiudizievoli di un’eventuale improcedibilità. Con la conseguenza che, una volta dichiarata l’improcedibilità dell’opposizione, il corollario giuridico di detta pronuncia non potrà che essere la conferma del decreto ingiuntivo opposto.

A ben vedere, infatti, tale opzione ermeneutica è quella che meglio si armonizza col contesto normativo in cui si inserisce il giudizio di opposizione e, in particolare, con il sistema di sanzioni previste dall’ordinamento a fronte dell’inattività del debitore ingiunto.

Si fa riferimento, in primo luogo, alla disciplina di cui al combinato disposto degli artt. 647 e 650 c.p.c. in virtù del quale, dichiarata l’inammissibilità dell’opposizione tardiva, il decreto acquista esecutività.

Medesima sanzione è prevista, poi, dal richiamato art. 647 c.p.c. per l’ipotesi di costituzione tardiva dell’opponente.

Viene in rilievo, infine, il dettato dell’art.653 c.p.c. che, per il caso di dichiarazione dell’estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 307 c.p.c. , stabilisce che “il decreto che non ne sia già munito acquista efficacia esecutiva”.

D’altro canto, come pure correttamente evidenziato dall’opposto, ritenere che la mancata instaurazione del procedimento di mediazione conduca alla revoca del decreto ingiuntivo in capo all’ingiungente comporterebbe che, in contrasto con le regole processuali proprie del rito si porrebbe in capo all’ingiungente opposto l’onere di coltivare il giudizio di opposizione per garantirsi la salvaguardia del decreto opposto, con ciò contraddicendo la ratio del giudizio di opposizione che ha la propria peculiarità nel rimettere l’instaurazione del giudizio – e, quindi, la sottoposizione al vaglio del giudice della fondatezza del credito ingiunti – alla libera scelta del debitore.

Del resto, se solo si considera che l’opposto è già munito di titolo che, come visto, è destinato a consolidarsi nel caso di mancata opposizione, appare evidente che è proprio l’opponente la parte più interessata all’esito del giudizio di opposizione.

Come anticipato in premessa, poi, una soluzione interpretativa appare maggiormente coerente anche con la finalità deflattiva che ha accompagnato l’introduzione da parte del legislatore dell’Istituto della mediazione: il formarsi del giudicato sul decreto ingiuntivo opposto, infatti, esclude che possa mettersi nuovamente in discussione tra le parti il rapporto controverso mediante la riproposizione della medesima domanda.

Pertanto, alla stregua di tutte le considerazioni esposte l’opposizione va dichiarata inprocedibile e, per l’effetto, dichiarato esecutivo il decreto ingiuntivo n.___2013 emesso dal Tribunale di Nola in data ____.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate da dispositivo (….)

 

P.Q.M.

 

Il Tribunale di Nola, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulla causa iscritta al nrg.____/2014, così provvede:

  1. Dichiara improcedibile l’opposizione e, per l’effetto, dichiara esecutivo il decreto ingiuntivo____/2013 emesso dal Tribunale di Nola in data_____;
  2. Condanna l’opponente al pagamento, in favore di parte opposta, delle spese del giudizio di opposizione che liquida in complessivi €.8.050,00 (di cui €.8.030,00 per compensi e €.30,00 per spese) oltre il rimborso forfettario pari al 15%, oltre Iva e CPA.

 

Nola, 24.02.2015

Il Giudice
dott.ssa Maria Gabriella Frallicciardi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

sentenze mediazione civile

Tribunale di Pavia, sez. III civile, ordinanza 9 marzo 2015.

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Commento:

Il Tribunale di Pavia, con l’ordinanza in commento, si allinea alla giurisprudenza ormai largamente prevalente in base alla quale il tentativo di mediazione non può considerarsi una mera formalità da assolversi con la partecipazione dei soli difensori all’incontro preliminare informativo, dal momento che i legali sono già a conoscenza del contenuto e delle finalità della procedura di mediazione, risultando viceversa necessaria la partecipazione delle parti personalmente – o dei rispettivi procuratori speciali a conoscenza dei fatti e muniti del potere di conciliare – che all’interpello del mediatore esprimano la loro volontà di proseguire nella procedura di mediazione oltre il primo incontro.

Ciò, in particolare, perché la valutazione circa la “mediabilità” della controversia risulta già effettuata dal giudice stesso con il provvedimento medesimo, nel quale, tra l’altro, viene articolata una proposta ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., disponendosi contestualmente la mediazione delegata ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, per l’ipotesi in cui le parti ritengano di non aderire alla soluzione prospettata dal Tribunale (ovvero di svilupparla autonomamente in mediazione).

L’ordinanza in parola, dunque, appare di notevole interesse in quanto tende a compendiare due distinti orientamenti, peraltro tra loro pienamente complementari, radicatisi in giurisprudenza all’indomani dell’entrata in vigore della legge 98/2013.

Innanzitutto, sotto un profilo di principio.

La mediazione disposta dal giudice ai sensi del novellato art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010 costituisce, come è noto, condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Ai fini dell’avverarsi di detta condizione, secondo la giurisprudenza sviluppatasi a seguito delle ordinanze 17 e 19 marzo 2014 del Tribunale di Firenze, al cui retroterra il presente provvedimento mostra di aderire pienamente, occorre che il tentativo di mediazione sia effettivo e che le parti partecipino personalmente allo stesso, salvo ipotesi eccezionali, non risultando in ogni caso sufficiente la presenza dinanzi al mediatore dei soli avvocati che le assistono.

L’assenza della parte determinerebbe conseguenze rilevanti sulla natura stessa del tentativo di mediazione che, in quanto tale, dovrebbe dipanarsi in modo tale da consentire agli interessati di assurgere quanto più possibile al ruolo di autentici protagonisti della vicenda (auspicabilmente) destinata a favorire il recupero del rapporto tra le parti, anticamera di ogni ipotesi di conciliazione. Una trattativa svolta dai soli avvocati potrebbe anche portare ad un esito fruttuoso, ma non rappresenterebbe una mediazione vera e propria, assumendo piuttosto le sembianze di una mera transazione, in quanto tale ispirata alla (diversa) logica delle reciproche rinunce.

D’altra parte, però, la presenza personale delle parti a nulla gioverebbe, se calata all’interno di una vuota formalità mirante unicamente all’ottenimento di un verbale negativo, senza alcun tentativo concreto di soluzione stragiudiziale.

Secondo la giurisprudenza citata, infatti, la mediazione disposta dal giudice deve  essere intesa alla stregua di un tentativo di mediazione effettivamente avviato, ossia di un tavolo nel quale le parti, anziché limitarsi ad incontrarsi ed informarsi, per poi non aderire alla proposta del mediatore di procedere, adempiano effettivamente all’ordine del giudice, partecipando alla vera e propria procedura propedeutica ad una eventuale conciliazione, salvo, naturalmente, l’emergere di questioni pregiudiziali (di natura – pertanto – oggettiva) ostative al suo svolgimento.

Nella mediazione delegata dal giudice non può che essere quest’ultimo a valutare, secondo i parametri legali, i margini di componibilità stragiudiziale della controversia, con conseguente ridimensionamento della funzione del primo incontro di mediazione di cui all’art. 8, co. 1, D.lgs 28/2010, tanto più in un’ottica quale quella post riforma per la quale la mediazione è “disposta” (rectius: ordinata) dal giudice,  il quale non si limita più, pertanto, a rivolgere un mero invito alle parti, ma esercita un potere affidatogli dalla legge la cui conseguenza immediata è di condizionare la procedibilità del giudizio pendente dinanzi a sé.

In secondo luogo, sotto un profilo attinente al modus operandi del giudice.

Nel provvedimento in esame, infatti, viene ribadita la cumulabilità tra proposta transattiva o conciliativa formulata dal giudice ex art. 185 – bis c.p.c. e mediazione disposta ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.

Si tratta di una tecnica inaugurata dal Tribunale di Roma, sez. XIII civile, con l’ordinanza 24 ottobre 2013 e che, come ormai ben noto, è divenuta in seguito di utilizzo comune.

In sostanza, formulata la proposta e assegnato un congruo termine per la valutazione della medesima, il giudice dispone che dalla eventuale infruttosa scadenza dello stesso decorrerà il termine ulteriore di 15 gg. per depositare presso un organismo di mediazione, a scelta delle parti congiuntamente o di quella che per prima vi proceda, l’istanza relativa alla mediazione disposta ex ante dal giudice stesso in previsione dell’eventualità di non adesione alla proposta.

Viene infine fissata un’udienza alla quale in caso di accordo  le parti potranno anche non comparire; viceversa, in caso di mancato accordo, potranno, volendo, in quella sede fissare a verbale quali siano state le loro posizioni a riguardo (naturalmente con riferimento alla sola proposta del giudice), anche al fine di consentire l’eventuale valutazione giudiziale della condotta processuale delle stesse, ai fini degli artt. 91 e 96, co. 3, c.p.c.

Si tratta di una tecnica che appare convincente, in quanto, nell’ipotesi in cui le parti (o una di esse) non ritenessero di aderire alla proposta giudiziale, quest’ultima potrebbe in ogni caso fungere da base di trattativa passibile di sviluppi autonomi, da verificarsi nel successivo (ma preventivato) tavolo di mediazione.

Ben potrà, infatti, il mediatore, anche sulla base dell’eventuale proposta formulata dal giudice e dei motivi per i quali una delle parti (o entrambe) non abbia ritenuto di accoglierla, estendere il tentativo conciliativo a profili emersi successivamente alla formulazione della proposta stessa o, comunque, se già esistenti, non entrati nel thema decidendum, superando così il vincolo rappresentato, nel giudizio, dalla corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

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Testo integrale:

 TRIBUNALE DI PAVIA

Sezione III Civile
Dott. Giorgio Marzocchi

Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo
promosso da
……..
attore-opponente
contro
……..
convenuto-opposto

Il giudice istruttore del Tribunale di Pavia, a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 4.03.2015,

Osserva

da una delibazione degli atti e dei documenti del fascicolo; dall’esito dell’interrogatorio libero esperito anche a fini conciliativi all’ultima udienza del 4.03.2015; dalla disponibilità delle parti manifestata in esito al fallimento del tentativo di conciliazione giudiziale, discende l’opportunità di disporre l’esperimento di una procedura di mediazione, previa proposta giudiziale di conciliazione della lite;

Visto l’art. 185 bis, cpc, considerata la natura della causa, il valore della lite e le questioni di diritto non particolarmente complesse che vengono in considerazione nel presente giudizio;

Si propone alle parti:

di definire amichevolmente la lite nel modo seguente: la società opponente s’impegni ad effettuare un pagamento, a saldo e stralcio in favore dell’opposto, per il titolo dedotto in giudizio, della somma di € 5.500,00 (cinquemilacinquecento/00), da intendersi onnicomprensive di capitale, interessi e concorso nelle spese legali (al lordo di tutti gli accessori). La somma potrà essere corrisposta in parte alla conclusione dell’accordo e in parte in rate mensili.

Si invitano i difensori, ove condividessero l’opportunità della proposta transattiva giudiziale, a prendere contatto tra loro per definire le concrete modalità del pagamento, invitandoli, ove preferissero formalizzare l’accordo in un verbale di conciliazione giudiziale, ad avanzare apposita istanza di anticipazione dell’udienza.
In caso di mancato accordo – da accertarsi a cura dei difensori entro il termine perentorio del 15.04.2015 – sulla sopra formulata proposta giudiziale o su altra liberamente determinabile nell’esercizio dell’autonomia negoziale delle parti

 Dispone come segue:

Considerato lo stato dell’istruzione, la natura della causa e il comportamento delle parti;
Ritenuto opportuno ordinare il tentativo di mediazione in vista di una possibile conciliazione della lite, alla luce degli elementi in fatto e di diritto già emersi;
Ritenuto che il tentativo di mediazione non possa considerarsi una mera formalità da assolversi con la partecipazione dei soli difensori all’incontro preliminare informativo, essendo evidente che i legali sono già a conoscenza del contenuto e delle finalità della procedura di mediazione ed essendo al contrario necessaria la partecipazione delle parti personalmente – o dei rispettivi procuratori speciali a conoscenza dei fatti e muniti del potere di conciliare – che all’interpello del mediatore esprimano la loro volontà di proseguire nella procedura di mediazione oltre l’incontro preliminare (ex multis, Trib. Palermo, Ord. 16.06.14; Trib. Roma, Ord. 30.06.14; Trib. Firenze, Ord. 26.11.2014; Trib. Siracusa, Ord. 17.01.15);

Viste le modifiche introdotte dal D.L. 69/2013, convertito con modificazioni dalla L. 98/2013;

 PQM

 Letto ed applicato l’art. 5, co. 2, D. Lgs. 4 marzo 2010 n. 28,

Ordina alle parti, in caso di mancato accordo entro il 15.04.2015 sulla proposta giudiziale sopra formulata, l’esperimento del procedimento di mediazione, ponendo l’onere dell’avvio della procedura a carico della parte più diligente e avvisando entrambe le parti che, per l’effetto, il tempestivo esperimento del tentativo di mediazione – presenti le parti o i loro procuratori speciali e i loro difensori – sarà condizione di procedibilità della domanda giudiziale e che, considerato che il giudizio sulla mediabilità della controversia è già dato con il presente provvedimento, la mediazione non potrà considerarsi esperita con un semplice incontro preliminare tra i soli legali delle parti;

Visti gli artt. 8, co. 4-bis, D.Lgs. 28/2010, 116, co. 2, 91 e 96 cpc, invita il mediatore a verbalizzare quale, tra le parti che partecipano all’incontro, dichiari di non voler proseguire nella mediazione oltre l’incontro preliminare;

Ordina alla parte più diligente di allegare la presente ordinanza anche in copia “libera” all’istanza di avvio della mediazione o all’adesione alla stessa, in modo che il mediatore possa averne compiuta conoscenza;

Rinvia la causa all’udienza del 23 settembre 2015, ore 10,30

1) per la verifica dell’esito della procedura di mediazione e, in caso suo esito negativo,
2) per la trattazione orale sulla sussistenza delle condizioni e sull’opportunità per le parti di presentazione dell’istanza congiunta, ex art. 1, co. 1, D.L. 132/14, convertito in L. 162/14, di trasferimento del giudizio alla sede arbitrale forense, ex art. 1, co. 4, L. cit., con invio del fascicolo al Presidente dell’Ordine Avvocati di Pavia;
3) in subordine, in caso di mancanza dell’istanza congiunta di cui sopra, per la precisazione delle conclusioni.

Assegna alle parti il termine perentorio del 30.04.2015 per la presentazione della domanda di avvio della procedura di mediazione da depositarsi presso un Organismo, regolarmente iscritto nel registro ministeriale, che svolga le sue funzioni nel circondario del Tribunale di Pavia, ex. art. 4, co. 1, D. Lgs. 28/2010;

Manda alla cancelleria per le comunicazioni alle parti costituite.

Pavia, 9 marzo 2015
Dott. Giorgio Marzocchi

Per depositare un’ istanza presso ADR Intesa, sede di Pavia: pavia@adrintesa.it e info@adrintesa.it – tel. 06.87463699

mediazione obbligatoria conciliazione

Tribunale di Vasto, sentenza 9 marzo 2015.

Commento:

Ancora una pronuncia nella quale si conferma l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale sviluppatosi all’interno del solco tracciato dalle ”celebri” ordinanze del Tribunale di Firenze del 17 e 19 marzo 2014.

In sostanza: il tentativo di mediazione, nella fattispecie disposto dal giudice ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, deve essere effettivamente avviato, ossia le parti, anziché limitarsi ad incontrarsi ed informarsi, per poi non aderire alla proposta del mediatore di procedere, sono tenute ad adempiere effettivamente all’ordine del giudice, partecipando alla vera e propria procedura (auspicabilmente) conciliativa, salvo, naturalmente, l’emergere di questioni pregiudiziali (di natura – pertanto – oggettiva) ostative al suo svolgimento.

Affinchè possa parlarsi di tentativo “effettivo”, però, occorre ovviamente la partecipazione personale delle parti, assistite dai propri avvocati e non “sostituite” da questi ultimi, salvo – beninteso – situazioni eccezionali, nelle quali, peraltro, occorrerà che i legali risultino dotati di idonei poteri di rappresentanza sostanziale.

L’assenza delle parti, infatti, determina conseguenze rilevanti sulla natura stessa del tentativo di mediazione che, in quanto tale, dovrebbe dipanarsi in modo tale da consentire agli interessati di assurgere quanto più possibile al ruolo di autentici protagonisti di una vicenda destinata a favorire il recupero del rapporto tra le parti, anticamera di ogni ipotesi di conciliazione. Una trattativa svolta dai soli avvocati potrebbe anche portare ad un esito fruttuoso, ma non rappresenterebbe una mediazione vera e propria, assumendo piuttosto le sembianze di una mera transazione, in quanto tale ispirata alla (diversa) logica delle reciproche rinunce.

I principi appena riassunti sono stati configurati con riferimento alla mediazione delegata di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, ma da più parti si è osservato, come gli stessi possano a buon diritto essere estesi anche  alla mediazione ante causam di cui all’art. 5, co. 1 – bis, del medesimo decreto legislativo 28/2010, dato che in entrambe le ipotesi il tentativo costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Nel caso di specie, il giudice istruttore, ritenuto che il comportamento delle parti, apparentemente disponibili all’individuazione di una soluzione conciliativa della controversia, fosse tale da consigliare il ricorso a soluzioni amichevoli, disponeva, ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, l’esperimento della mediazione.

Il relativo procedimento, però, veniva chiuso dal mediatore in quanto la parte chiamata non riteneva sussistenti i presupposti per l’inizio di un confronto nel merito, peraltro all’esito di un primo incontro nel quale le parti non risultavano comparse personalmente.

Il Giudice rileva innanzitutto come la natura stessa della mediazione richieda che all’incontro con il mediatore siano presenti (anche e soprattutto) le parti di persona.

L’istituto, infatti, “…mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto; questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. Nella mediazione è fondamentale, infatti, la percezione delle emozioni nei conflitti e lo sviluppo di rapporti empatici ed è, pertanto, indispensabile un contatto diretto tra il mediatore e le persone parti del conflitto. Il mediatore deve comprendere quali siano i bisogni, gli interessi, i sentimenti dei soggetti coinvolti e questi sono profili che le parti possono e debbono mostrare con immediatezza, senza il filtro dei difensori (che comunque assistono la parte). D’altronde, il principale significato della mediazione è proprio il riconoscimento della capacità delle persone di diventare autrici del percorso di soluzione dei conflitti che le coinvolgono e la restituzione della parola alle parti per una nuova centratura della giustizia, rispetto ad una cultura che le considera ‘poco  pensabile applicare analogicamente alla mediazione le norme che, ‘nel processo’, consentono alla parte di farsi rappresentare dal difensore o le norme sulla rappresentanza negli atti negoziali. La mediazione può dar luogo ad un negozio o ad una transazione, ma l’attività che porta all’accordo ha natura personalissima e non è delegabile. 

In secondo luogo, occorre considerare che gli avvocati delle parti (mediatori di diritto secondo la stessa legge) sono senza dubbio già a conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità (come, peraltro, si desume dal fatto che essi, prima della causa, devono fornire al cliente l’informativa di cui all’art. 4, co. 3, D.lgs 28/2010), di talché non avrebbe senso imporre l’incontro tra i soli difensori e il mediatore in vista di una inutile informativa.” Pertanto, osserva il Giudice, “…ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro, in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione, vuol dire in realtà ridurre ad un’inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori. L’ipotesi che la condizione si verifichi con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore per le informazioni appare particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare “la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”).

Si perviene, quindi, al passaggio che – ad avviso di chi scrive – risulta rivestito della massima importanza.

Alla luce delle considerazioni che precedono, infatti, il giudice ritiene che “…sia per la mediazione obbligatoria da svolgersi prima del giudizio ex art. 5, comma 1 bis, D. Lgs. n. 28/2010, sia per la mediazione demandata dal giudice, ex art. 5, comma 2, è necessario – ai fini del rispetto della condizione di procedibilità della domanda – che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori, come previsto dal successivo art. 8) all’incontro con il mediatore”.

Graverà quindi sul mediatore stesso, in quanto soggetto istituzionalmente preposto ad esercitare funzioni di verifica e di garanzia della puntuale osservanza delle condizioni di regolare espletamento della procedura, l’onere di adottare ogni opportuno provvedimento finalizzato ad assicurare la presenza personale delle parti “…ad esempio disponendo – se necessario – un rinvio del primo incontro, sollecitando anche informalmente il difensore della parte assente a stimolarne la comparizione, ovvero dando atto a verbale che, nonostante le iniziative adottate, la parte a ciò invitata non ha inteso partecipare personalmente agli incontri, né si è determinata a nominare un suo delegato (diverso dal difensore), per il caso di assoluto impedimento a comparire”.

La parte interessata in senso contrario alla declaratoria di improcedibilità della domanda avrà pertanto “…l’onere di partecipare personalmente a tutti gli incontri di mediazione, chiedendo al mediatore di attivarsi al fine di procurare l’incontro personale tra i litiganti; potrà, altresì, pretendere che nel verbale d’incontro il mediatore dia atto della concreta impossibilità di procedere all’espletamento del tentativo di mediazione, a causa del rifiuto della controparte di presenziare personalmente agli incontri”. Soltanto una volta accertato che la procedura non si è potuta svolgere a causa dell’indisponibilità della parte invitata la condizione di procedibilità potrà considerarsi verificata, per l’ovvia ragione che altrimenti lo stesso chiamato potrebbe, con la propria volontaria (o comunque colpevole) inerzia, addirittura “…beneficiare delle conseguenze favorevoli di una declaratoria di improcedibilità della domanda, che paralizzerebbe la disamina nel merito delle pretese avanzate contro di sé”.

Nel caso di specie, come evidenziato in precedenza, nella mediazione demandata dal giudice non sono comparse personalmente né la parte attrice, né la parte convenuta, mentre in loro rappresentanza “…sono intervenuti soltanto i difensori, i quali non hanno, peraltro, esposto al mediatore alcun giustificato motivo dell’assenza dei rispettivi assistiti. Il mediatore ha dichiarato chiuso il procedimento, senza dare atto a verbale delle ragioni della assenza delle parti e delle eventuali iniziative adottate al fine di procurare la comparizione personale delle stesse. La procedura non si è, pertanto, svolta correttamente, in particolar modo a causa della ingiustificata assenza della parte che ha presentato (su disposizione del giudice) la domanda di mediazione…”.

Su queste basi, dunque, la declaratoria di improcedibilità della domanda.

In conclusione, dunque, va sottolineato il fatto che se è vero, da un lato, che nella mediazione delegata è il giudice a valutare nel caso concreto i margini di “mediabilità” della controversia, è anche vero, dall’altro, che nelle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010, detta valutazione risulta già operata in astratto dal legislatore. Non si vede quindi perchè le stesse considerazioni in ordine alla partecipazione personale delle parti al procedimento ed alla effettività del tentativo non debbano valere anche (ed a maggior ragione) laddove l’esperimento della mediazione condiziona la procedibilità della domanda giudiziale ab inizio.

L’assimilazione in parola, come si evince anche dal caso sopra considerato, è stata già fatta più volte propria dalla giurisprudenza, a partire dalla ordinanza 17 marzo 2014 del Tribunale di Firenze.

 

Testo integrale:

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI VASTO

 

in composizione monocratica, nella persona del dott. Fabrizio Pasquale, alla pubblica udienza del 09.03.2015, al termine della discussione orale disposta ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., ha pronunciato la seguente

 SENTENZA

dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, nel procedimento civile iscritto al n. 1221/12 del Ruolo Generale Affari Civili, avente ad oggetto: VENDITA DI COSE MOBILI e promosso da La Nuova O.C.M. s.n.c., in persona del legale rappresentante pro tempore, nei confronti di Rei Residence s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, entrambi rappresentati e difesi come in atti.

LETTI gli atti e la documentazione di causa;

ASCOLTATE le conclusioni rassegnate dai difensori delle parti;

PREMESSO IN FATTO CHE

La Nuova O.C.M. s.n.c., assumendo di avere stipulato con la società convenuta un contratto di fornitura e posa in opera di serramenti in alluminio per un fabbricato in corso di costruzione di proprietà della Rei Residence s.r.l. per un corrispettivo di € 140.000,00, ha convenuto in giudizio, innanzi a questo Tribunale, la società committente per ivi sentirla condannare al versamento della somma di € 96.221,35, a titolo di saldo asseritamente dovuto per tutte le forniture pattuite ed eseguite, ma non ancora pagate dalla convenuta.

La Rei Residence s.r.l., costituitasi in giudizio, si è opposta all’accoglimento della domanda, sull’assunto che la fornitura dei materiali non sarebbe stata ultimata e che i manufatti consegnati presenterebbero vizi e difetti; ha, pertanto, concluso per il rigetto della domanda, a motivo della sua infondatezza, chiedendo in via riconvenzionale la condanna di controparte al pagamento della somma di € 163.250,35 a titolo di risarcimento danni.

In corso di causa, il giudice istruttore, ritenuto che il comportamento delle parti (resesi disponibili alla individuazione di una soluzione conciliativa della controversia) suggeriva il ricorso a soluzioni amichevoli della lite, disponeva – ai sensi dell’art. 5, secondo comma, del D. Lgs. n. 28/10 – l’esperimento del procedimento di mediazione, il quale veniva dichiarato chiuso dal mediatore per mancata prestazione del consenso da parte della società convenuta.

RITENUTO IN DIRITTO CHE

Lo scrutinio nel merito delle rispettive domande delle parti deve essere anticipato dalla trattazione di una questione pregiudiziale, relativa alla procedibilità della domanda, che assume carattere dirimente. Da quanto risulta dal verbale del procedimento di mediazione n. 25/14, instaurato innanzi all’organismo di mediazione istituito presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Vasto, in sede di primo incontro svoltosi davanti al mediatore, le parti non sono comparse personalmente e la procedura si è chiusa poiché la società convenuta non ha prestato il proprio consenso al relativo espletamento. Orbene, a tal proposito, è appena il caso di evidenziare che le disposizioni di cui all’art. 8 del D.Lgs. n. 28/2010 (come modificato dalla legge n. 98/2013), lette alla luce del contesto europeo nel quale si collocano (cfr. in particolare, direttiva comunitaria 2008/52/CE) impongono di ritenere che l’ordine del giudice è da ritenersi osservato soltanto in caso di presenza della parte (o di un di lei delegato), accompagnata dal difensore e non anche in caso di comparsa del solo difensore, anche quale delegato della parte. Molteplici sono le argomentazioni che consentono di giungere a tale conclusione. a) Innanzitutto, la natura della mediazione di per sé richiede che all’incontro con il mediatore siano presenti (anche e soprattutto) le parti di persona. L’istituto, infatti, mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto; questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. Nella mediazione è fondamentale, infatti, la percezione delle emozioni nei conflitti e lo sviluppo di rapporti empatici ed è, pertanto, indispensabile un contatto diretto tra il mediatore e le persone parti del conflitto. Il mediatore deve comprendere quali siano i bisogni, gli interessi, i sentimenti dei soggetti coinvolti e questi sono profili che le parti possono e debbono mostrare con immediatezza, senza il filtro dei difensori (che comunque assistono la parte). D’altronde, il principale significato della mediazione è proprio il riconoscimento della capacità delle persone di diventare autrici del percorso di soluzione dei conflitti che le coinvolgono e la restituzione della parola alle parti per una nuova centratura della giustizia, rispetto ad una cultura che le considera ‘poco capaci’ e, magari a fini protettivi, le pone ai margini. Non è, dunque, pensabile applicare analogicamente alla mediazione le norme che, ‘nel processo’, consentono alla parte di farsi rappresentare dal difensore o le norme sulla rappresentanza negli atti negoziali. La mediazione può dar luogo ad un negozio o ad una transazione, ma l’attività che porta all’accordo ha natura personalissima e non è delegabile. b) In secondo luogo, i difensori (definiti mediatori di diritto dalla stessa legge) sono senza dubbio già a conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità (come, peraltro, si desume dal fatto che essi, prima della causa, devono fornire al cliente l’informazione prescritta dall’art. 4, comma 3 del D. Lgs n. 28/2010), di talché non avrebbe senso imporre l’incontro tra i soli difensori e il mediatore in vista di una inutile informativa. Ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro, in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione, vuol dire in realtà ridurre ad un’inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori. L’ipotesi che la condizione si verifichi con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore per le informazioni appare particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare “la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”). Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione. Come si vede, dunque, sono previsti plurimi livelli informativi e non è pensabile che il processo venga momentaneamente interrotto per un’ulteriore informazione anziché per un serio tentativo di risolvere il conflitto.

Alla luce delle considerazioni che precedono, il giudice ritiene che, sia per la mediazione obbligatoria da svolgersi prima del giudizio ex art. 5, comma 1 bis, D. Lgs. n. 28/2010, sia per la mediazione demandata dal giudice, ex art. 5, comma 2, è necessario – ai fini del rispetto della condizione di procedibilità della domanda – che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori, come previsto dal successivo art. 8) all’incontro con il mediatore. Graverà su quest’ultimo, in qualità di soggetto istituzionalmente preposto ad esercitare funzioni di verifica e di garanzia della puntuale osservanza delle condizioni di regolare espletamento della procedura, l’onere di adottare ogni opportuno provvedimento finalizzato ad assicurare la presenza personale delle parti, ad esempio disponendo – se necessario – un rinvio del primo incontro, sollecitando anche informalmente il difensore della parte assente a stimolarne la comparizione, ovvero dando atto a verbale che, nonostante le iniziative adottate, la parte a ciò invitata non ha inteso partecipare personalmente agli incontri, né si è determinata a nominare un suo delegato (diverso dal difensore), per il caso di assoluto impedimento a comparire. La parte che avrà interesse contrario alla declaratoria di improcedibilità della domanda avrà l’onere di partecipare personalmente a tutti gli incontri di mediazione, chiedendo al mediatore di attivarsi al fine di procurare l’incontro personale tra i litiganti; potrà, altresì, pretendere che nel verbale d’incontro il mediatore dia atto della concreta impossibilità di procedere all’espletamento del tentativo di mediazione, a causa del rifiuto della controparte di presenziare personalmente agli incontri. Solo una volta acclarato che la procedura non si è potuta svolgere per indisponibilità della parte che ha ricevuto l’invito a presentarsi in mediazione, la condizione di procedibilità può considerarsi avverata, essendo in questo caso impensabile che il convenuto possa, con la propria colpevole o volontaria inerzia, addirittura beneficiare delle conseguenze favorevoli di una declaratoria di improcedibilità della domanda, che paralizzerebbe la disamina nel merito delle pretese avanzate contro di sè. Negli altri casi e, segnatamente, quando è la stessa parte che ha agito (o che intende agire) in giudizio a non presentarsi personalmente in una procedura di mediazione da lei stessa attivata (anche su ordine del giudice), la domanda si espone al rischio di essere dichiarata improcedibile, per incompiuta osservanza delle disposizioni normative che impongono il previo corretto esperimento del procedimento di mediazione.

Nel caso in esame, nella procedura di mediazione demandata dal giudice non sono comparse personalmente né la parte attrice, né la parte convenuta, mentre in loro rappresentanza sono intervenuti soltanto i difensori, i quali non hanno, peraltro, esposto al mediatore alcun giustificato motivo dell’assenza dei rispettivi assistiti. Il mediatore ha dichiarato chiuso il procedimento, senza dare atto a verbale delle ragioni della assenza delle parti e delle eventuali iniziative adottate al fine di procurare la comparizione personale delle stesse. La procedura non si è, pertanto, svolta correttamente, in particolar modo a causa della ingiustificata assenza della parte che ha presentato (su disposizione del giudice) la domanda di mediazione, vale a dire del legale rappresentante della società attrice La Nuova O.C.M. s.n.c., che aveva interesse contrario alla declaratoria di improcedibilità della domanda giudiziale. Occorre, pertanto, rilevare d’ufficio il mancato avveramento della condizione di procedibilità, ai sensi dell’art. 5, comma 2, D. Lgs. n. 28/10 e assumere le conseguenziali determinazioni decisorie. A tal riguardo, secondo questo giudicante, non vi è altra possibilità se non quella di dichiarare l’improcedibilità della domanda attorea. Non è praticabile, per converso, l’alternativa soluzione di assegnare alle parti un nuovo termine per la reiterazione della procedura di mediazione, essendo questa già stata definita. La norma dell’art. 5, comma 1-bis, D. Lgs. n. 28/10, che impone al giudice l’obbligo di assegnare alle parti il termine per la presentazione della domanda di mediazione e di fissare la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’art. 6, si applica soltanto al caso in cui la mediazione è già iniziata ma non si è ancora conclusa e al caso in cui essa non è stata affatto esperita, ma non anche alla diversa ipotesi (come quella in esame) in cui la mediazione è stata tempestivamente introdotta e definita, ma in violazione delle prescrizioni che regolano il suo corretto espletamento.

Quanto al regime delle spese processuali, l’assoluta novità della questione, l’assenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità sul punto e la natura meramente processuale delle ragioni di reiezione della domanda, costituiscono eccezionali motivi che giustificano l’integrale compensazione delle spese di lite fra le parti.

 Per Questi Motivi

 Il Tribunale di Vasto, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulla domanda promossa da La Nuova O.C.M. s.n.c., in persona del legale rappresentante pro tempore, nei confronti di Rei Residence s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, disattesa ogni diversa richiesta, eccezione o conclusione, così provvede:

DICHIARA improcedibile la domanda di cui in epigrafe;

DICHIARA interamente compensate tra le parti le spese di lite;

MANDA alla Cancelleria per gli adempimenti di competenza;

DISPONE che la presente sentenza sia allegata al verbale di udienza.

 

Così deciso in Vasto, il 09.03.2015.

IL GIUDICE dott. Fabrizio Pasquale

Convegno Saronno

LA MEDIAZIONE CIVILE SPIEGATA AI CITTADINI

Con il patrocinio del Comune di Saronno e accreditato dall’Ordine degli Avvocati di Busto Arsizio

 

RELATORI:

Dott. Salvatore Zambrino – Responsabile ADR Intesa

Dott.ssa Mariachiara Baldinucci – Responsabile ADR Intesa sede  di Saronno

Dott. Luigi Majoli – Formatore e Mediatore ADR Intesa

Dott. Salvatore Primiceri – Formatore e Mediatore ADR Intesa, Esperto in Tecniche di Comunicazione

AVV. Paola Conti  – Presidente dell’Associazione Forense Saronnese

 

 SARONNO – 30 MARZO 2015 h. 16.00

AUDITORIUM ALDO MORO – Viale Santuario n. 13

INFORMAZIONE E ADESIONI: formazione@adrintesa.it

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Proposta del giudice e invito al mediatore: tecniche a confronto

Nota introduttiva

La contestuale introduzione nell’ordinamento, da parte della L. 98/2013 (di conversione del c.d. “decreto del fare”) di una mediazione delegata potenziata, ossia disposta dal giudice e tale da condizionare la procedibilità della domanda giudiziale, e della previsione relativa alla formulazione, da parte del giudice, di una proposta transattiva o conciliativa, di cui al nuovo art. 185 – bis c.p.c., rappresenta un fatto chiaramente indicativo degli sforzi che il legislatore intende compiere in ordine ad un rafforzamento delle possibilità di “fuoriuscita” dal processo su iniziativa del giudice.

La giurisprudenza, dal canto suo, ha contribuito al complessivo disegno deflattivo con interpretazioni talvolta forse discutibili ma certamente tali da concorrere alla diffusione degli strumenti di cui sopra: ad esempio, l’utilizzo “cumulato” della mediazione delegata e di quella endoprocedimentale e l’invito al mediatore a formulare una proposta conciliativa anche in carenza dell’istanza congiunta delle parti.

Scopo delle presenti note è per l’appunto quello di fornire un’analisi integrata dell’evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali in materia, tenuto conto della dimensione che il fenomeno ha ormai assunto e del dibattito che, in dottrina, si è conseguentemente sviluppato.

 La proposta del giudice

L’art. 185 – bis c.p.c. prevede, come è noto, che “ Il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice”.

Come è agevole rivelare, si tratta di una proposta che prescinde dalla richiesta di una o più parti del processo, può essere avanzata alla prima udienza o sino alla chiusura dell’istruzione, presuppone l’esistenza di questioni di facile e pronta risoluzione. Non può, inoltre, costituire motivo di ricusazione o astensione del Giudice.

Soprattutto, è strutturata in modo da lasciare aperta al giudice una doppia possibilità di valutazione in ordine all’approccio da applicare al caso concreto: formulare una proposta di natura transattiva, ossia fondata sulla logica delle reciproche rinunce, ovvero più propriamente conciliativa, tale, cioè, da esaltare maggiormente i reali interessi delle parti che siano emersi nel corso della lite.

In ogni caso, la proposta in parola rappresenta un’opportunità per le parti del processo, che possono tener conto delle indicazioni del giudice, farle proprie ed abbandonare il giudizio; ma anche un rischio, in caso di rifiuto, dal momento che tale condotta sarà poi valutata, in sede di decisione, dal giudice stesso.

Non si intende, in questa sede, disquisire più di tanto sulle ombre, che certamente non possono essere aprioristicamente negate, che detta novella suscita.

Detto incidentalmente, infatti, un conto è una proposta formulata alla prima udienza, allo stato degli atti, una valutazione di “mediabilità” della causa, in altri termini, che emerga dal concreto atteggiarsi iniziale del caso di specie; altra cosa appare invece una proposta che tenga conto delle risultanze di una approfondita istruttoria, pur possibile sulla base della previsione normativa: in quest’ultima ipotesi, infatti, difficilmente la stessa potrebbe non assumere le sembianze di un’anticipazione della decisione.

Certamente, va salutata positivamente la formulazione “attenuata” che il legislatore ha (saggiamente) adottato in sede di conversione (“…formula alle parti ove possibile…”), rispetto all’imperatività – obiettivamente insostenibile – di quanto disposto dall’originario testo del c.d. “decreto del fare”. Come è noto, infatti, l’originario testo del D.L. 69/2013 prevedeva infatti cheIl giudice alla prima udienza ovvero fino a quando è esaurita l’istruzione, deve comunicare alle parti una proposta transattiva o conciliativa. Il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio”.

Ciò su cui, però, si intende porre l’accento è l’immediato favore mostrato dai Giudici nei confronti dell’istituto (nonché nei confronti del modificato art. 420 c.p.c., per ciò che concerne il rito del lavoro).

Va d’altra parte rilevato che la L. 98/2013, appunto di conversione del D.L. 69/2013, mentre disponeva l’entrata in vigore delle norme relative alla nuova mediazione obbligatoria ex lege e a quella delegata a partire dal 20 settembre 2013, stabiliva, come data di inizio della vigenza dell’art. 185 – bis (e 420 modificato, cui si è fatto cenno poc’anzi) il 21 giugno dello stesso 2013.

Ebbene, nell’anno e mezzo abbondante appena trascorso, la giurisprudenza ha fornito spunti davvero interessanti.

Immediatamente, infatti, il Tribunale di Milano, (sez. IX civ., decreto 26 giugno 2013), premesso che trattandosi di norma processuale risulta applicabile, in base al principio tempus regit actum, anche ai giudizi già pendenti alla data di entrata in vigore della stessa, ha inteso chiarire come si tratti della espressione “…di un principio generale (anche nell’art. 420 c.p.c. come riformato), anche per il fatto di distinguere espressamente tra proposta transattiva e conciliativa e per la difficoltà di ammettere settori o comparti divisi dell’ordinamento in cui il giudice possa o non possa aiutare i litiganti a pervenire ad un assetto condiviso per la soluzione pacifica della causa”, con conseguente applicabilità anche a controversie relative a materie non ricomprese nell’ambito di previsione dell’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010.

Sulla stessa linea il Tribunale di Nocera Inferiore, sez. I civ., ordinanza 27 agosto 2013, in cui, nell’ambito di una controversia in materia di anatocismo bancario, si sottolinea  che il giudice stesso “…se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92”.

Ma è successivamente all’entrata in vigore del riformato D.lgs 28/2010 che la situazione, dal punto di vista giurisprudenziale, ha iniziato ad evolversi verso scenari sempre più innovativi.

Infatti, con l’ordinanza del Tribunale di Roma, sez. XIII, 24 ottobre 2013, ha preso le mosse  l’orientamento per il quale la mediazione endoprocedimentale ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c. è cumulabile con la mediazione delegata ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.

Nel provvedimento in esame, infatti, il giudice capitolino, formulata la proposta e assegnato un congruo termine per la valutazione della medesima, dispone che…dalla eventuale infruttosa scadenza del suddetto termine, decorrerà quello ulteriore di gg. 15 per depositare presso un organismo di mediazione, a scelta delle parti congiuntamente o di quella che per prima vi proceda, la domanda di cui al secondo comma dell’art. 5 del decreto; con il vantaggio di poter pervenire rapidamente ad una conclusione, per tutte le parti vantaggiosa, anche dal punto di vista economico e fiscale (cfr. artt. 17 e 20 del decr. legisl. 4.3.2010 n. 28), della controversia in atto.

Viene infine fissata un’udienza alla quale in caso di accordo  le parti potranno anche non comparire; viceversa, in caso di mancato accordo, potranno, volendo, in quella sede fissare a verbale quali siano state le loro posizioni a riguardo (relativamente alla sola proposta del giudice), anche al fine di consentire l’eventuale valutazione giudiziale della condotta processuale delle parti ai fini degli artt. 91 e 96 III° cpc”.

Sotto quest’ultimo profilo, il giudice ha valutato la condotta processuale delle parti in relazione alla propria proposta, delineando i parametri legali (art. 88 c.p.c. – dovere di lealtà e probità nel processo delle parti e dei difensori – e art. 116, co. 2, c.p.c. – valutazione in termini di argomento di prova del comportamento della parte in giudizio) sulla base dei quali ritenere giustificato o meno il rifiuto della proposta. Applicando tali parametri al caso di specie il giudice ha ritenuto ingiustificato il rifiuto di aderire alla proposta di una parte, la quale, soccombente in sentenza, è stata condannata oltre che alle spese di giudizio, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., anche al versamento in favore della parte vittoriosa di una somma determinata in via equitativa ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c.

In altri casi, la cumulabilità tra i due istituti è stata affermata “in due tempi”, disponendo cioè la mediazione ex art. 5, co. 2, a seguito della mancata accettazione di una delle parti della proposta transattiva o conciliativa previamente formulata dal giudice.

Ad esempio, il Tribunale di Milano (sez. spec. in materia di impresa, ordinanza 11 novembre 2013, Dott.ssa Crugnola), avendo formulato una proposta transattiva ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., a fronte della quale “...il convenuto dichiara di essere disponibile a chiudere la lite con tale versamento da parte sua. L’attore dichiara che tale soluzione non è per lui accettabile (…) visto l’art.5 secondo comma del d.lgs. n.28/2010 nell’attuale sopravvenuta formulazione; valutata la natura della lite, i rapporti familiari tra le parti e il comportamento delle stesse anche all’odierna udienza; ritenutane in base a tali elementi l’utilità;

dispone l’esperimento del procedimento di mediazione, assegnando alle parti il termine di quindici giorni per dare inizio alla mediazione e fissando per la prosecuzione del giudizio l’udienza del (…) riservato ogni altro provvedimento”.

Sequenza, quest’ultima, in seguito confermata sempre dal Tribunale di Milano, sez. specializzata in materia di impresa, Dott. Vannicelli, 21 marzo 2014, in cui il Giudice ha formulato la proposta di conciliazione, riservando in caso di rifiuto ingiustificato di essa di disporre ai sensi dell’art. 5, comma 2, D.Lgs. 28/2010 l’esperimento del procedimento di mediazione – condizione di procedibilita’ della domanda giudiziale.

In ogni caso, al di là della tecnica utilizzata nel singolo caso, appare chiaro come il cumulo dei due istituti possa schiudere scenari di notevole interesse in mediazione, dal momento che in quest’ultima sede le parti potrebbero sviluppare autonomamente la proposta formulata dal giudice, che, invece, promanando dal processo, deve necessariamente tener conto dei soli fatti ed interessi emersi in causa, in virtù del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

In altri termini, la proposta formulata dal giudice ex art. 185 – bis, ove non accolta dalle parti, potrà comunque rappresentare una valida base di partenza per il successivo tentativo presso l’organismo adito “d’ordine” del giudice stesso.

Ben potrà, infatti, il mediatore, anche sulla base dell’eventuale proposta formulata dal giudice e dei motivi per i quali una delle parti (o entrambe) non abbia ritenuto di accoglierla, estendere la mediazione a profili emersi successivamente alla formulazione della proposta stessa o, comunque, se già esistenti, non entrati nel thema decidendum, superando così il vincolo rappresentato, nel giudizio, dalla corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

D’altra parte, si tratta di aspetti che la giurisprudenza ha sottolineato già in sede di prime esperienze applicative.

Ad esempio, il Tribunale di Roma, sez. XIII civ., ordinanza 24 ottobre 2013, già precedentemente citata, afferma che “… la possibilità che le parti, assistite dai rispettivi difensori, possano trarre utilità dall’ausilio, nella ricerca di un accordo,  ed anche alla luce della proposta del Giudice, di un mediatore professionale di un organismo che dia garanzie di professionalità e di serietà”. Ancora, secondo il Tribunale di Milano, sez. IX civ., ordinanza 29 ottobre 2013, “… i mediatori ben potrebbero estendere la «trattativa (rectius: mediazione)» ai crediti maturati successivamente alla instaurazione dell’odierna lite e non fatti valere in questo processo, così essendo evidente che l’eventuale soluzione conciliativa potrebbe definire il conflitto, nel suo complesso, mentre la sentenza di appello potrebbe definire, tout court, solo una lite, in modo parziale”.

Con la successiva ordinanza 5 dicembre 2013, il Tribunale di Roma,  sez. XIII civ., osserva come la circostanza “…che l’attore abbia proposto prima e fuori dalla causa una domanda di mediazione (non ha rilevanza – ai fini che qui interessano – la natura

volontaria o obbligatoria), non sia impeditiva all’esercizio ed all’attivazione da parte del Giudice della mediazione demandata di cui all’art. 5 co. II del decr. legisl. 28/2010 nella versione riformata dal D.L.69/13 cit.”.

Con la pronuncia in parola si afferma dunque non solo l’utilizzabilità della mediazione delegata, eventualmente preceduta da una proposta transattiva o conciliativa ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., laddove un tentativo di mediazione sia già stato infruttuosamente esperito ante causam, ma anche la medesima possibilità laddove si tratti di materia non assoggettata al regime di obbligatorietà del tentativo conciliativo (nella quale ipotesi – quindi – una fattispecie originariamente “a mediazione non obbligatoria” diviene condizionata all’esperimento del tentativo in via successiva, a seguito, cioè,  dell’ordine del giudice di cui all’art, 5, co. 2).

Nella medesima ordinanza può chiaramente denotarsi come il giudice si ponga il problema relativo ai tempi di formulazione della proposta.

Infatti, pur muovendo dalla premessa di una sostanziale libertà (nei limiti – ovviamente – della tempistica processuale fissata dal legislatore) in ordine alla scelta del momento più idoneo alla formulazione della proposta, il giudice sottolinea, altresì, l’importanza del ruolo rivestito dai difensori a fronte della proposta stessa. Si osserva, sul punto, che “…Il momento in cui il Giudice invia le parti in mediazione è svincolato da rigidità processuali se non quelle molto avanzate del giudizio (conclusioni/discussione), consentendogli di individuare e di scegliere il momento più propizio in relazione alle circostanze ed agli sviluppi della causa (e ciò anche in relazione alle difese articolate dalle parti).

La possibilità (…) di rappresentare pacatamente, con equidistanza ed imparzialità, i punti di debolezza e di forza delle rispettive posizioni, consente di esaltare la sensibilità culturale e giuridica dei difensori, che tanto ruolo hanno nella mediazione riformata. E, tramite essi, parlare alle parti che pertanto dovranno essere informate nel modo più ampio e sostanziale dai difensori circa il contenuto del provvedimento, al fine che esse possano, esattamente come in ambito sanitario, determinarsi verso la scelta migliore da assumere, in ordine alla quale è precondizione una adeguata consapevolezza.

Compito dei difensori è quello di evocare la possibilità per le parti, cogliendo le potenzialità del provvedimento del Giudice, di trovare ragionevoli soluzioni e punti di accordo, non celando, in mancanza, i possibili sviluppi negativi delle aspettative che l’inevitabile antagonismo insito nella avviata contesa giudiziaria tende, per ciascuna delle parti, a radicare ed esaltare.

Con la mediazione demandata si evita di intraprendere percorsi spesso già condannati in partenza (si pensi ad una mediazione obbligatoria prima della causa nella quale saranno protagonisti necessari soggetti terzi, come assicurazioni successivamente chiamate; ovvero a situazioni in ordine alle quali le risultanze della consulenza tecnica disposta dal giudice sono determinanti per meglio fissare l’ubi consistam della lite); e ciò perché è il Giudice che sceglie, con oculatezza, il momento migliore per disporne l’avvio”.

Un ulteriore passo avanti si registra con la sentenza 29 maggio 2014 del Tribunale di Roma, sez. XIII civile.

Nel caso di specie, il giudice aveva formulato a proposta di conciliazione, ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., disponendo contestualmente, per il caso di mancato raggiungimento dell’accordo, la mediazione ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.Lgs. 28/2010.

La Compagnia di Assicurazione convenuta in giudizio aveva dapprima rifiutato la proposta di conciliazione del giudice e, successivamente, non aveva partecipato al procedimento di mediazione, malgrado questo costituisse condizione di procedibilità della domanda.

Nella sentenza in parola, il Giudice non ha accolto le difese sviluppate dalla Compagnia, condannandola, inoltre, alle spese di giudizio; inoltre per la mancata partecipazione al procedimento di mediazione, ritenuta priva di giustificato motivo, ha condannato la convenuta al pagamento di una somma pari al contributo unificato a favore dell’Erario; infine, sia per tale comportamento sia per il rifiuto ritenuto ingiustificato della propria proposta conciliativa, ha ritenuto altresì di condannarla ex art. 96, co.3, c.p.c.

Nel provvedimento in esame, rilevato che l’Assicurazione ha rigettato la proposta del giudice e non si è presentata, benché ritualmente convocata dall’attore, in mediazione, il giudice osserva poi che “…quanto al giustificato motivo addotto dall’assicurazione per non aderire alla disposizione del giudice emessa ai sensi dell’art.5 co.II° (che per l’attore non è più un invito, per quanto autorevole, come previsto dalla previgente norma, ma un ordine, presidiato com’è dalla improcedibilità della domanda in caso di inottemperanza), l’affermazione avente ad oggetto la ritenuta congruità delle somme già versate, non può essere condivisa.

Traslando tale ragionamento in generale si potrebbe infatti affermare che ogni qualvolta la controparte ritenga erronea la tesi della parte che l’ha convocata in mediazione (come in questo caso), e pertanto inutile la sua partecipazione all’esperimento di mediazione, essa sia validamente dispensata dal comparirvi.

L’esponente non si avvede nell’aporia in cui incorre posto che così ragionando sussisterebbe sempre in ogni causa un giustificato motivo di non comparizione, se è vero com’è vero che se la controparte condividesse la tesi del suo avversario la lite non potrebbe neppure insorgere e se insorta verrebbe subito meno. La ragione d’essere della mediazione si fonda proprio sulla esistenza di un contrasto di opinioni, di vedute, di volontà, di intenti, di interpretazioni etc., che il mediatore esperto tenta di sciogliere favorendo l’avvicinamento delle posizioni delle parti fino al raggiungimento di un accordo amichevole”.

Tali orientamenti appaiono ormai largamente condivisi, come plasticamente sintetizzato dal Tribunale di Palermo, sez. I civ., nell’ordinanza 16 luglio 2014, in cui è ravvisabile una sorta di sintesi degli approdi cui la giurisprudenza sembra essere ormai pervenuta in tema di cumulabilità tra mediazione endoprocedimentale e mediazione delegata e, soprattutto, con riferimento ai temi della partecipazione personale delle parti al procedimento di mediazione dell’effettivo svolgimento del medesimo. (In ordine a questi ultimi aspetti cfr., ex multis, Tribunale di Firenze, ordinanze 17 e 19 marzo 2014; Tribunale di Bologna, ordinanza 5 giugno 2014; Tribunale di Roma, ordinanza 30 giugno 2014; Tribunale di Rimini, ordinanza 16 luglio 2014; Tribunale di Cassino, ordinanze 8 ottobre e 16 dicembre 2014; Tribunale di Monza, ordinanza 20 ottobre 2014; Tribunale di Siracusa, ordinanza 17 gennaio 2015).

Nel provvedimento in questione  il Giudice, premesso che sussistono nel caso di specie tutti i presupposti per la formulazione di una proposta ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c. (e con gli effetti, aspetto quest’ultimo di particolare rilevanza, di cui all’art. 91 c.p.c.), anticipa che “…comunque, in caso di mancata accettazione della proposta in questione, questo giudice disporrà la mediazione ex officio iudicis”, strumento quest’ultimo espressione del vero e proprio potere attribuito dalla legge al giudice di “…imporre alle parti di intraprendere un procedimento di mediazione nel corso del processo (in passato, invece, il giudice poteva solo invitarle a svolgere un tentativo stragiudiziale di mediazione, attendendo l’eventuale risposta positiva delle parti), in tal modo creando una nuova condizione di procedibilità (sopravvenuta) per ordine del giudice. Si tratta di una norma che rimette al giudice l’effettività di tale canale di accesso alla mediazione (che opera non quale filtro preventivo alle liti, ma successivo e non per questo meno utile ed efficace) e può operare in ogni lite, purché abbia ad oggetto diritti disponibili”.

Di particolare interesse appare, infine, la sentenza 30 ottobre 2014 del Tribunale di Roma, in special modo con riferimento al rifiuto ingiustificato di fronte alla proposta ex art. 185 – bis c.p.c. ed alle relative ricadute sul piano della responsabilità aggravata di cui all’art. 96, co. 3, c.p.c.

Nella pronuncia in esame si rileva innanzitutto come, posto che il legislatore non ha inteso predisporre un sistema sanzionatorio (come nel caso della mediazione delegata ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010), debba necessariamente  muoversi dal presupposto che lo studio richiesto al giudice per giungere alla formulazione di una proposta mirante ad un accordo che risulti in effetti per le parti più vantaggioso della sentenza, “…non sia stato previsto per essere destinato ad essere considerato un mero flatus vocis”.

La proposta non potrà certo produrre, come è ovvio, in capo alle parti una sorta di obbligo cogente in ordine al suo accoglimento, “…ma il fatto stesso che la legge preveda la possibilità che il giudice formuli la proposta implica che non è consentito alle parti di non prenderla in alcuna considerazione”.

La proposta, di conseguenza, dovrà essere dai destinatari rispettata e considerata con serietà ed attenzione (la medesima, si intende dire, che è richiesta al giudice nel predisporla e formularla).

In motivazione si rileva come proprio per “…l’importanza e delicatezza della proposta che, impegnando non poco la sensibilità oltre che l’arte del giudice, assolve, nell’ottica del legislatore, ad un importante compito deflattivo e di A.D.R., impedendo che ogni controversia debba necessariamente concludersi con una sentenza, non può ammettersi che le parti possano assumere senza conseguenze, contro di essa, un atteggiamento anodino, di totale disinteresse, deresponsabilizzato, solo ostinatamente ed immotivatamente diretto a coltivare la permanenza e protrazione della controversia.

Le parti hanno invece l’obbligo, derivante sia dalla norma di cui all’art. 88 cpc secondo cui le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, e sia in base al precetto di cui all’art. 116 cpc, norma di carattere generale, di prendere in esame con attenzione e diligenza la proposta del giudice di cui all’art. 185 bis cpc, e di fare quanto in loro potere per aprire ed intraprendere su di essa un dialogo, una discussione fruttuosa e, in caso di non raggiunto accordo, di fare emergere a verbale dell’udienza di verifica, lealmente, la rispettiva posizione al riguardo. Le parti hanno quindi un’alternativa all’accettazione della proposta”. Potranno infatti “disarticolarne il contenuto, trasformandola secondo i loro più veritieri e non rinunciabili interessi primari. Non è invece ammesso l’accesso alla superficialità, ad un rifiuto preconcetto, ad un pregiudizio astratto, al proposito e all’interesse, non tutelati dalle norme, a protrarre a lungo la durata e la decisione della causa”.

In sostanza, dunque, “…il merito ragionato deve diventare la stella polare della adesione o meno (se del caso con i concordati adattamenti) alla proposta. E correlativamente, ad opera del giudice, misura e metro della valutazione della condotta di chi si è sottratto al dovere di lealtà processuale che la proposta ex art. 185 bis esalta e richiama”.

Con la conseguenza di una possibile applicazione della condanna ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c.

A proposito di quest’ultimo aspetto, posto che non si tratta di un risarcimento ma di un indennizzo, con riferimento alla parte a favore della quale viene concesso, o di una punizione, con riguardo allo Stato, per aver inutilmente appesantito il corso della giustizia, considerata altresì la discrezionalità del giudice nella determinazione dell’ammontare della somma e tenuto conto inoltre del fatto che detta sanzione a carico di parte soccombente non consegue necessariamente ad istanza di parte ma può essere irrogata anche d’ufficio, nella pronuncia in esame si osserva come “…la possibilità di attivazione della norma non è necessariamente correlata alla sussistenza delle fattispecie del primo e secondo comma. Come rivela in modo inequivoco la locuzione in ogni caso la condanna di cui al terzo comma può essere emessa sia nelle situazioni di cui ai primi due commi dell’art. 96 e sia in ogni altro caso. E quindi in tutti i casi in cui tale condanna, anche al di fuori dei primi due commi, appaia ragionevole. Volendo concretizzare il precetto, vengono in mente i casi in cui la condotta della parte soccombente sia caratterizzata da colpa semplice (ovvero non grave, che è l’unica fattispecie di colpa presa in esame dal primo comma), ovvero laddove una parte abbia agito o resistito senza la normale prudenza (fattispecie diversa da quelle previste dal primo e secondo comma)”.

La proposta del mediatore

L’art. 11, co. 1, D.lgs 28/2010, prevede che “…Quando l’accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione. In ogni caso, il mediatore formula una proposta di conciliazione se le parti gliene fanno concorde richiesta in qualunque momento del procedimento. Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’articolo 13”.

Per ciò che concerne la comunicazione, l’eventuale accettazione e la verbalizzazione della proposta formulata dal mediatore, il medesimo art. 11, rispettivamente ai co. 2 e 3, prevede che “La proposta di conciliazione e’ comunicata alle parti per iscritto. Le parti fanno pervenire al mediatore, per iscritto ed entro sette giorni, l’accettazione o il rifiuto della proposta. In mancanza di risposta nel termine, la proposta si ha per rifiutata. Salvo diverso accordo delle parti, la proposta non può contenere alcun riferimento alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento” e che “Se e’ raggiunto l’accordo amichevole di cui al comma 1 ovvero se tutte le parti aderiscono alla proposta del mediatore, si forma processo verbale che deve essere sottoscritto dalle parti e dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilita’ di sottoscrivere. Se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. L’accordo raggiunto, anche a seguito della proposta, può prevedere il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza degli obblighi stabiliti ovvero per il ritardo nel loro adempimento”.

In sostanza, dunque, la proposta deve essere formulata dal mediatore nell’ipotesi di richiesta congiunta delle parti, fermo restando che il medesimo potrebbe comunque formularla, laddove si verifichi una situazione di stallo, anche a prescindere da una  qualsivoglia richiesta, ovvero, caso certamente meno probabile, ove la proposta stessa venga sollecitata da una o da alcune soltanto delle parti, sempre che il regolamento dell’organismo prescelto non limiti alle sole ipotesi di richiesta congiunta la facoltà del mediatore di formularla, caso, quest’ultimo, assai frequente nella pratica.

Si pongono, sul punto, alcune questioni.

Innanzitutto, occorre preliminarmente chiarire il fatto che la richiesta può intendersi “congiunta”, contrariamente a quanto da taluni sostenuto, solo laddove tutte le parti chiamate in mediazione abbiano aderito al procedimento di mediazione.

Infatti, ove la parte chiamata (o alcune delle parti chiamate) non aderiscano alla procedura, il mediatore, non avendo avuto un contraddittorio, ben difficilmente potrebbe essere in grado di sviluppare autonomamente una propria opinione, con il rischio di “appiattirsi” eccessivamente sula posizione delle parti presenti ovvero, al contrario, di tendere in modo non equilibrato nei confronti delle parti non aderenti, finendo con il proporre una soluzione che inevitabilmente non potrà essere considerata soddisfacente da taluna delle parti coinvolte nella controversia.

Inoltre, e soprattutto, occorre tener conto delle conseguenze che l’art. 13, D.lgs 28/2010, ricollega all’ipotesi di rifiuto della proposta formulata dal mediatore.

Detta disposizione, infatti, nel suo primo comma, dispone che “Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto. Resta ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano altresì alle spese per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto di cui all’articolo 8, comma 4.

Il medesimo art. 13, al co. 2, prevede altresì che “Quando il provvedimento che definisce il giudizio non corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice, se ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, può nondimeno escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto di cui all’articolo 8, comma 4. Il giudice deve indicare esplicitamente, nella motivazione, le ragioni del provvedimento sulle spese di cui al periodo precedente”.

Tali previsioni, che tendono a sanzionare l’ingiustificato rifiuto della proposta del mediatore, anche se in misura differenziata a seconda che il provvedimento che definisce il giudizio corrisponda o meno interamente al contenuto della stessa, appaiono giustificate ove la proposta del mediatore consegua ad una istanza congiunta delle parti, le quali, in qualche modo, sollecitando il mediatore ad essere “valutativo”, scientemente si accollano l’alea conseguente all’eventuale rifiuto.

Ben più difficilmente tali considerazioni potrebbero attagliarsi ad una proposta formulata dal mediatore in assenza della parte chiamata o di taluna di esse, in virtù di ragioni che appaiono di fin troppa evidenza.

L’invito del giudice alla formulazione della proposta da parte del mediatore

Posto tutto quanto precede, appare opportuno rilevare come, già sotto la vigenza dell’originario modello di mediazione introdotto dal D.lgs 28/2010, il Tribunale di Vasto, con l’ordinanza 5 luglio 2012, avesse ritenuto di invitare i difensori e le parti ad attivare la procedura di mediazione per la risoluzione conciliativa della lite ricorrendo ad un Organismo presente nel circondario del Tribunale “…a condizione che il regolamento dell’ente non contenga clausole limitative della facoltà del mediatore di formulare una proposta conciliativa, subordinandone – in particolare – l’esercizio alla condizione della previa richiesta congiunta di tutte le parti”.

Tali clausole limitative regolamentari, osservava allora il Giudice, avrebbero la conseguenza di frustrare “…lo spirito della norma – che è quello di stimolare le parti al raggiungimento di un accordo – e non consentono al giudice di fare applicazione delle disposizioni previste dall’art. 13 del citato decreto, in materia di spese processuali, così vanificandone la ratio ispiratrice, tesa a disincentivare rifiuti ingiustificati di proposte conciliative ragionevoli”.

Si tratta del primo caso di pronuncia con la quale il giudice invita il mediatore ad avanzare proposta conciliativa pur in assenza della richiesta congiunta di cui all’art. 11, co. 1, D.lgs 28/2010.

In sostanza, dunque, il Tribunale, ritenuta la controversia “mediabile”, tanto da ricorrere alla mediazione di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, si rivolge al mediatore, sia pure attraverso il richiamo al Regolamento dell’Organismo, tale da non contenere le clausole limitative di cui sopra, sollecitandolo ad avanzare in ogni caso proposta conciliativa, anche in difetto, come detto, dell’istanza congiunta di cui all’art. 11.

Precedenti del genere sono peraltro rintracciabili anche dopo l’entrata in vigore della “nuova” mediazione civile, successivamente, cioè, all’entrata in vigore della L. 98/2013 (che ha convertito, con emendamenti, il D.L. 69/2013, c.d. “decreto del fare”).

Il Tribunale di Firenze, sez. III civ., ad esempio, nell’ordinanza 30 giugno 2014, valutata la natura della causa, relativa a diritti disponibili e considerata l’ammissibilità della mediazione, trattandosi di procedimento per il quale non era stata ancora celebrata l’udienza di precisazione delle conclusioni, aveva disposto che “...le parti sostanziali, assistite dai rispettivi difensori, promuovano il procedimento di mediazione, con deposito della domanda di mediazione presso organismo abilitato, entro il termine di 15 giorni dalla comunicazione del presente provvedimento”; evidenziato la necessità “…che al primo incontro l’attività di mediazione sia concretamente espletata (ferma la gratuità di cui all’art 17 V co. ter in caso di mancato accordo ed indisponibilità delle parti ad ulteriore incontro)”; e – infine – invitato “…il mediatore ad avanzare proposta conciliativa, pur in assenza di congiunta richiesta delle parti (art. 11, co. 1, D.lgs. cit.)”.

Nel provvedimento in esame, peraltro, a fronte dell’istanza di anticipazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni proposta dalla parte attrice, si precisa che “…per il procedimento in epigrafe è prevista prossima udienza al 24.2.2015 per la precisazione delle conclusioni; che AA ha avanzato richiesta di anticipazione di udienza; (…) che, per il gravoso carico del ruolo di questo magistrato, recentemente assegnatario, tra l’altro, di circa 500 procedimenti di cognizione ordinaria molti del quali pendenti da oltre un triennio, l’istanza di anticipazione non possa essere accolta; che infatti vanno trattati prioritariamente i procedimenti di più risalente iscrizione, ovvero quelli comunque urgenti, avuto riguardo al loro oggetto”.

Più di recente, anche il Tribunale di Siracusa, con l’ordinanza 23 gennaio 2015, dopo aver ribadito, in tema di mediazione delegata ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, gli ormai consolidati principi di effettività del tentativo di mediazione e di partecipazione personale delle parti al procedimento, “…“…INVITA il mediatore ad avanzare proposta conciliativa, pur in assenza di congiunta richiesta delle parti ex art. 11, co. 1 d.lgs. 28/2010” e, inoltre, “…INVITA le parti ad informare tempestivamente il Giudice, anche mediante comunicazione presso l’indirizzo email …….@giustizia.it, anche in relazione a quanto stabilito dagli artt. 8, co. IV bis e 13 d.lgs. 28/2010, rispettivamente per l’ipotesi della mancata partecipazione delle parti (sostanziali), senza giustificato motivo, al procedimento di mediazione, ed in tema di statuizione sulle spese processuali del giudizio, in caso di ingiustificato rifiuto delle parti della proposta di conciliazione formulata dal mediatore”.

Anche nel provvedimento in parola, premessa la necessità di riorganizzazione del proprio ruolo, data la recentissima presa di possesso dell’ufficio, dando la priorità, per quanto concerne la trattazione e la decisione, ai procedimenti con iscrizione più risalente, il Giudice dispone la mediazione ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, “…valutata la natura della causa, relativa a diritti disponibili e considerata l’ammissibilità della mediazione c.d. delegata, ai sensi dell’art. 5, co. 2, d.lgs. n. 28/2010, trattandosi di procedimento per il quale non è stata ancora celebrata l’udienza di precisazione delle conclusioni; considerato altresì che nella presente causa è stata esperita C.T.U. e che, pertanto, ciò potrà ulteriormente facilitare l’attività del mediatore”, e rilevato, altresì, “…che l’esperimento del procedimento di mediazione, che deve concludersi entro 3 mesi dalla relativa richiesta ex art. 6, d.lgs. 28/2010, non comporterà in concreto, anche in caso di esito infruttuoso della procedura, alcun ritardo nella decisione della lite”.

Ancora una volta, dunque, non soltanto il giudice dispone la mediazione ai sensi del secondo comma dell’art. 5, D.lgs 28/2010, ma invita espressamente il mediatore ad assumere un atteggiamento “valutativo” attraverso la formulazione di una proposta conciliativa pur in difetto di istanza congiunta delle parti in tal senso.

Appare quindi chiaro che le stesse dovranno ottemperare all’ordine del giudice non solo optando, ovviamente, per un organismo territorialmente competente, ma anche accertandosi, ai fini della scelta, che il regolamento dello stesso non preveda – come sovente si verifica nella pratica – clausole limitative della facoltà del mediatore di formulare una proposta conciliativa subordinandone l’esercizio alla condizione della previa richiesta congiunta di tutte le parti.

Orbene, sembra potersi affermare che se da un lato provvedimenti così strutturati innegabilmente possono “spingere” ad una soluzione conciliativa della controversia che, certamente, in molti casi appare decisamente auspicabile, dall’altro occorrerebbe, forse, una più dettagliata formulazione dell’invito.

Ove si tenga conto di quanto disposto dall’art. 11, co. 1, D.lgs 28/2010, dell’aumento (lieve, ma pur sempre previsto) dei costi a carico delle parti nel caso di formulazione della proposta conciliativa (aumento perfettamente giustificabile nel caso di istanza congiunta, molto meno se frutto della iniziativa unilaterale del mediatore) e delle possibili conseguenze connesse al rifiuto della stessa, la considerazione che precede non appare peregrina.

Né va sottovalutato il fatto che il mediatore deve essere in grado di approfondire adeguatamente la conoscenza dei reali interessi delle parti, correndosi altrimenti il rischio di una proposta – inevitabilmente di natura transattiva – che difficilmente potrà incontrare il favore di entrambe le parti ma che, verosimilmente, sarà vista come un “prendere o lasciare” e, pertanto, accettata obtorto collo al solo fine di evitare eventuali pesanti conseguenze negative sul piano processuale.

Resta poi da precisare come dovrebbe comportarsi il mediatore nell’ipotesi, improbabile ma pur sempre possibile, di mancata adesione al procedimento della parte “non diligente”: fermo il fatto che in tal caso il mediatore, non avendo un contraddittorio, non sarebbe in grado di formarsi una propria opinione e rischierebbe, quindi, di assecondare troppo le richieste dell’unica parte presente in mediazione, quest’ultima, forte dell’invito del giudice, potrebbe chiedere comunque la formulazione della proposta?

In caso di risposta affermativa al quesito da ultimo proposto, il pericolo di “proposta creativa” appare, francamente troppo forte.

La strada probabilmente è quella giusta, ma l’invito al mediatore potrebbe rilevarsi ancor più efficace se corroborato, laddove possibile, da elementi ulteriori di valutazione, che rendano la proposta effettivamente “calibrata” sugli interessi emersi nel giudizio.

Considerazioni conclusive

Sulla base del complesso di considerazioni che precedono, non può non sottolinearsi, conclusivamente, il ruolo fondamentale che il nuovo quadro normativo ha inteso assegnare alla figura del giudice al fine della ricerca di soluzioni conciliative che effettivamente possano rappresentare il massimo vantaggio ottenibile dalle parti in lite.

Da un lato, infatti, il Legislatore ha potenziato detto ruolo  prevedendo per il giudice la possibilità di formulare una proposta conciliativa, fondata – dunque – sulla natura della controversia, sullo stato dell’istruzione e  – last but not least, sul comportamento delle parti; dall’altro ha trasformato la mediazione delegata in uno strumento forte, con il quale il giudice può “spingere” (e non più meramente invitare) le parti ad instaurare la procedura dinanzi ad un organismo territorialmente competente e, addirittura, secondo la giurisprudenza di diversi uffici giudiziari, invitare esplicitamente il mediatore ad avanzare una proposta conciliativa ex art. 11, D.lgs 28/2010, pur in assenza dell’istanza congiunta delle parti.

Si è visto quale considerazione – fin dal principio – una consistente parte della Magistratura abbia riservato alle nuove potenzialità attribuitele: basti pensare alla possibilità di cumulo dei due istituti, in forza della quale la proposta formulata dal giudice ex art. 185 – bis, ove non accolta dalle parti, potrà comunque rappresentare una valida base di partenza per il successivo tentativo presso l’organismo adito “d’ordine” del giudice stesso.

Lo “sviluppo autonomo” della proposta, dunque.

Ben potrà, infatti, il mediatore, anche sulla base dell’eventuale proposta formulata dal giudice e dei motivi per i quali una delle parti (o entrambe) non abbia ritenuto di accoglierla, estendere la mediazione a profili emersi successivamente alla formulazione della proposta stessa o, comunque, se già esistenti, non entrati nel thema decidendum, superando così il vincolo rappresentato, nel giudizio, dalla corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

D’altra parte, si tratta di aspetti che la giurisprudenza, come in precedenza evidenziato, ha sottolineato già in sede di prime esperienze applicative.

Basti pensare a passaggi comeSotto tale ultimo profilo, vale a dire la possibilità che le parti, assistite dai rispettivi difensori, possano trarre utilità dall’ausilio, nella ricerca di un accordo,  ed anche alla luce della proposta del Giudice, di un mediatore professionale di un organismo che dia garanzie di professionalità e di serietà, è possibile prevedere, anche all’interno dello stesso provvedimento che contiene la proposta del Giudice, un successivo percorso di mediazione demandata dal magistrato” (cfr. Tribunale di Roma, sez. XIII civ., ord. 24 ottobre 2013); o, ancora,  “…i mediatori ben potrebbero estendere la «trattativa (rectius: mediazione)» ai crediti maturati successivamente alla instaurazione dell’odierna lite e non fatti valere in questo processo, così essendo evidente che l’eventuale soluzione conciliativa potrebbe definire il conflitto, nel suo complesso, mentre la sentenza di appello potrebbe definire, tout court, solo una lite, in modo parziale” (cfr. Tribunale di Milano, sez. IX civ., ord. 29 ottobre 2013).

La giurisprudenza ha, allo stato attuale, la chiave (unica?) per la diffusione delle soluzioni alternative delle controversie civili.

L’auspicio è che i giudici continuino ad applicare, in forma sempre più estesa, gli strumenti che il legislatore, sia pure con modalità spesso discutibili sotto il profilo della tecnica di redazione testuale, ha comunque provveduto a fornire loro.

 dott. Luigi Majoli

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