TAR Lazio, sez. I, sentenza 23 gennaio 2015: no alle censure di legittimità costituzionale
Il TAR Lazio, con sentenza 23 gennaio 2015, ha definitivamente pronunciato sul ricorso presentato dalla UNCC di Parma, per la dichiarazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 del D.lgs. 28/2010, in riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost. nonché per l’annullamento di talune disposizioni del DM 180 del 18 ottobre 2010.
A seguito della sent. 272/212 della Corte costituzionale, come è noto, parte ricorrente aveva presentato istanza ex art. 80 c.p.a. per la prosecuzione del giudizio sospeso, proponendo inoltre motivi aggiunti a seguito delle modifiche normative intervenute.
Posta la legittimazione attiva della UNCC, in quanto “…è principio giurisprudenziale pacifico che un’associazione professionale, se e in quanto ne sia comprovato un apprezzabile grado di rappresentatività, può essere legittimata ad impugnare provvedimenti lesivi, oltre che di interessi propri, di interessi collettivi della categoria, non anche di singole posizioni giuridiche degli associati”, e quindi rigettata la relativa eccezione del resistente, il TAR passa all’esame del merito.
Procediamo con ordine.
Le prime due censure di legittimità costituzionale (in sostanza: il DM 180/2010 sarebbe illegittimo in via derivata dall’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, degli artt. 5, 8 e 17 del D.lgs. 28/2010 in relazione agli artt. 24, 76 e 77 della Costituzione) devono essere dichiarate improcedibili, in quanto “…allo stato, le censure in parola [risultano] affidate a un impianto argomentativo complessivo non più coerente con l’attuale quadro normativo”.
Con la terza censura (eccesso di potere per irragionevolezza) la ricorrente lamenta che, mentre la legge delega pone il requisito dell’indipendenza sia in capo agli organismi di mediazione sia in capo ai singoli mediatori, l’art. 4 del decreto impugnato assicurerebbe tale indipendenza in misura molto minore, riferendola esclusivamente “allo svolgimento del servizio di mediazione”.
Tale censura, però, è infondata e pertanto va respinta, in quanto, ad una lettura complessiva dell’art. 4 DM 180/2010, anche alla luce delle modifiche ad esso apportate dai DD.MM. 145/2011 e 39/2014, risulta che il complesso delle disposizioni esaminate “…declinano a carico degli organismi di mediazione, sotto i profili personali, strutturali e funzionali, e indi compiutamente, il concetto sostanziale di indipendenza assunto nella legge delega”.
Va inoltre respinta l’ulteriore censura, proposta mediante motivi aggiunti, con cui parte ricorrente ha sostenuto l’illegittimità costituzionale del nuovo art. 5 D.lgs 28/2010, nella parte in cui ha nuovamente regolamentato l’esperimento della mediazione quale condizione di procedibilità per la domanda giudiziale in alcune materie (in sostanza perchè il D.L. 69/2013, poi convertito con la L. 98/2013, sarebbe viziato dalla carenza del carattere di straordinaria necessità e urgenza che ne legittima l’utilizzo, carenza che la ricorrente ritiene testimoniata dalla previsione che la nuova disposizione si applichi decorsi trenta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto).
Sul punto, ad avviso del TAR, sulla base della costante giurisprudenza della Corte costituzionale relativa la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 77, co. 2, Cost., non può ravvisarsi “…nella fattispecie in esame l’evidenza richiesta per sollevare nuovamente la questione di costituzionalità della mediazione obbligatoria, dedotta dalla ricorrente”.
Così come infondata deve ritenersi l’ulteriore questione di legittimità costituzionale – proposta mediante motivi aggiunti – relativa al nuovo modello di mediazione delegata di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, in base al quale anche in appello, il giudice può disporre la mediazione, il cui svolgimento (effettivo, secondo la giurisprudenza ormai prevalente) condiziona a quel punto la procedibilità del giudizio (ciò che implicherebbe, ad avviso della ricorrente, violazione del principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost.).
Infine, infondata è anche la questione dell’illegittimità costituzionale dell’art. 13, D.lgs 28/2010 (le sanzioni previste per l’ipotesi di corrispondenza tra il provvedimento che definisce il giudizio ed il contenuto dell’eventuale proposta del mediatore costituirebbero un indebito ostacolo all’accesso alla giustizia, in violazione dell’art. 24 Cost.).
Le questioni di legittimità costituzionale spiegate dalla ricorrente, tanto attraverso il ricorso introduttivo quanto per mezzo dei successivi motivi aggiunti, devono quindi essere dichiarate in parte improcedibili e per il restante respinte.
Ben diversa, ed avviso di scrive ben poco persuasiva, risulta invece la seconda parte della sentenza in commento.
Innanzitutto, il Giudice accoglie il ricorso nella parte in cui sostiene l’illegittimità dell’art. 16, co. 2 e 9, DM 180/2010, in quanto “…entrambe le disposizioni regolamentari si pongono in contrasto con la gratuità del primo incontro del procedimento di conciliazione, previsto dalla legge laddove le parti non dichiarino la loro disponibilità ad aderire al tentativo”.
A prima vista, la dichiarata illegittimità sembra la conseguenza di un’interpretazione puramente letterale del parametro, ossia dell’art. 17, co. 5 – ter, D.lgs 28/2010, secondo cui “Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”.
Sulla base di detta interpretazione, “salterebbe” la distinzione, preannunciata nella Circolare 27 novembre 2013 del Ministero della Giustizia e poi attuata mediante la relativa specifica arrecata in sede di modifica del comma 2 dell’art.16 del DM, tra “spese di avvio” (40 euro ovvero 80 euro per le liti di valore superiore a 250.000 euro) e “spese di mediazione”, dovute, secondo il rispettivo scaglione, solo in caso di superamento del primo incontro.
Distinzione, ad avviso di chi scrive, logica ed opportuna, ove si consideri il fatto che le spese di avvio rappresentano l’unica fonte certa di copertura dei costi che gli Organismi devono sostenere per l’organizzazione e la gestione dei procedimenti di mediazione (vale a dire, in breve, per la propria esistenza).
Vanno poi sottolineate quantomeno due criticità.
Innanzitutto, secondo il TAR l’illegittimità vizia l’intero co. 2 del DM 180. Infatti detto comma è annullato in toto, non limitatamente a singoli periodi o a determinate parole (cfr. dispositivo sentenza).
Nella disposizione in questione, però, erano contemplate, oltre le spese di avvio, anche le spese vive documentate. Pare invero irreale che le stesse, in nome di una “iperestesa” nozione di “gratuità”, debbano essere a carico dell’organismo – al netto di interventi legislativi innovatori – se non altro sulla base del fatto che, in virtù di un principio generale che non sembra potersi mettere in discussione, il mandatario (alias l’organismo) ha diritto alla reintegrazione delle spese sostenute nell’interesse del mandante (alias la parte istante): altrimenti passerebbe il concetto che la legge possa, a piacimento, gravare l’organismo di spese fatte nell’interesse altrui, il che pare, francamente, troppo.
In secondo luogo, due questioni relative al co. 9 dell’art. 16 del DM.
Preliminarmente va rilevato che quest’ultima disposizione si riferiva ad una realtà, quella dell’originario modello di mediazione, in cui il “primo incontro”, ai sensi e per gli effetti di cui alla L. 98/2013, non esisteva, intendendosi, all’epoca, tale locuzione in senso puramente cronologico: dal momento che il comma in parola non è stato “ritoccato” dagli interventi successivi (DM 139/14, l’unico successivo al “decreto del fare” ed alla relativa conversione…), sembra evidente che il periodo “Le spese di mediazione sono corrisposte prima dell’inizio del primo incontro di mediazione in misura non inferiore alla metà” debba essere inteso con riferimento esclusivo all’indennità, da versarsi nella sola ipotesi di “superamento” del primo incontro.
Posto che – alla luce del dispositivo – anche la disposizione in esame risulta caducata nella sua totalità, occorre poi osservare che viene meno anche l’ultimo periodo, secondo cui “… In ogni caso nelle ipotesi di cui all’articolo 5, comma 1 del decreto legislativo, l’organismo e il mediatore non possono rifiutarsi di svolgere la mediazione” (sic!). Venuta meno la previsione in parola (sia consentito il paradosso) i soggetti in questione potrebbero forse rifiutarsi?
Infine, la sentenza in commento interviene in merito alla formazione degli avvocati mediatori di diritto.
L’art. 4, co. 3, lett. b), D.M. 180/2010 è illegittimo nella parte in cui prevede “…il possesso, da parte dei mediatori, di una specifica formazione e di uno specifico aggiornamento almeno biennale, acquisiti presso gli enti di formazione in base all’articolo 18, nonché la partecipazione, da parte dei mediatori, nel biennio di aggiornamento e in forma di tirocinio assistito, ad almeno venti casi di mediazione svolti presso organismi iscritti”; ciò, in quanto, secondo il TAR, tale disposizione è “…palesemente in contrasto con le nuove disposizioni, nella misura in cui è suscettibile di essere applicata in via generale, ovvero anche nei confronti degli avvocati iscritti all’albo, che la legge dichiara mediatori di diritto, e la cui formazione in materia di mediazione viene regolata con precipue disposizioni”.
Si tratta di un profilo, seppur importante, può comunque in gran parte considerarsi superato, dal momento che il CNF, con riferimento alla formazione e all’aggiornamento degli avvocati mediatori di diritto ha da tempo stabilito percorsi alternativi e differenziati, ai sensi dell’art. 11 L. 247/2012 e nel rispetto del codice deontologico forense, come peraltro previsto dall’art. 16, co. 4 – bis, D.lgs 28/2010.
In sintesi: si tratta di una sentenza di primo grado, potrebbe quindi essere sospesa ed in seguito, eventualmente, riformata dal Consiglio di Stato; nel frattempo, il paradosso potrebbe consistere in ulteriori (provvisorie?) “difficoltà” per il pianeta mediazione, proprio nel momento in cui ne è ribadita, quantomeno, la “non illegittimità costituzionale”.
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Testo integrale sentenza:
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 11235 del 2010, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
Unione Nazionale delle Camere Civili (UNCC) di Parma, rappresentata e difesa dagli avv.ti Francesco Storace, Antonio de Notaristefani di Vastogirardi, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via Crescenzio, n.20;
contro
Ministero della giustizia, Ministero dello sviluppo economico, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la cui sede domiciliano in Roma, via dei Portoghesi, n.12;
per l’annullamento del decreto n. 180 del 18 ottobre 2010, adottato dal Ministro della giustizia di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 4 novembre 2010, nonché per la dichiarazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, in riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost..
Visto il ricorso;
Visto l’atto di proposizione di motivi aggiunti;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della giustizia e del Ministero dello sviluppo economico;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica dell’8 ottobre 2014 il cons. Anna Bottiglieri e uditi per le parti i difensori come da relativo verbale;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO
1. La direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea ha disciplinato alcuni aspetti della mediazione in materia civile e commerciale.
L’art. 60 della l. 18 giugno 2009, n. 69, ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e commerciale, prescrivendo, tra altro, al legislatore delegato di disciplinare la mediazione nel rispetto ed in coerenza con la normativa comunitaria (comma 2; comma 3, lett. c).
La delega è stata esercitata con il d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28.
Con l’atto introduttivo della controversia all’odierna trattazione la ricorrente Unione Nazionale delle Camere Civili (UNCC) di Parma, associazione non riconosciuta, costituita tra associazioni di avvocati civilisti, ha interposto azione impugnatoria avverso alcune disposizioni del decreto18 ottobre 2010, n. 180, adottato dal Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, che, in forza della previsione di cui all’art. 16 del citato d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, ha regolamentato la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti ai suddetti organismi.
Parte ricorrente deduce avverso l’atto gravato tre censure.
Con la prima doglianza (illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale degli artt. 5 e 17 del d. lgs. 28/2010 in relazione agli artt. 24, 76 e 77 della Costituzione) la ricorrente sostiene che il legislatore delegato è incorso in eccesso di delega laddove ha introdotto l’obbligatorietà della mediazione e l’improcedibilità del giudizio interposto senza il previo esperimento della mediazione, entrambi non previsti dalla legge delega.
Con la seconda doglianza (illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale dell’art. 8 del d. lgs. 28/2010 in relazione agli artt. 24, 76 e 77 della Costituzione) la ricorrente sostiene che, poiché nella logica del decreto delegato, le scelte che la parte è chiamata ad effettuare nel procedimento di mediazione sono suscettibili di condizionare l’esito del successivo processo, per un verso la mancata previsione nel procedimento stesso della obbligatorietà dell’assistenza del difensore viola l’art. 24 della Costituzione (nonché favorisce le classi più abbienti, facoltizzate ad avvalersene), per altro verso l’introduzione della possibilità di acquisire elementi di prova in assenza di difesa tecnica, non prevista dalla legge delega, concreta eccesso di delega ex art. 76 Cost..
Con il terzo motivo di gravame [violazione dell’art. 60, comma III, lett. b) della l. n. 69 del 2009 e dell’art. 16 del d. lgs. 20/2010 – eccesso di potere per irragionevolezza – illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale dell’art. 16 del d. lgs. 28/2010 in relazione agli artt. 76 e 77 della Costituzione] la ricorrente lamenta che, laddove la legge delega pone il requisito dell’indipendenza sia in capo agli organismi di mediazione sia in capo ai singoli mediatori, l’art. 4 del decreto impugnato assicura tale indipendenza in misura molto minore, riferendola esclusivamente “allo svolgimento del servizio di mediazione”.
Esaurita l’illustrazione delle illegittimità rilevate a carico dell’atto gravato, la ricorrente ha domandato l’annullamento del provvedimento impugnato e la dichiarazione di non manifesta infondatezza delle spiegate questioni di legittimità.
2. Si sono costituiti in resistenza il Ministero della giustizia e il Ministero dello sviluppo economico, che hanno eccepito il difetto di legittimazione attiva della ricorrente, per carenza in capo alla stessa della rappresentanza istituzionale degli interessi della categoria degli avvocati, spettante solo al Consiglio Nazionale Forense e agli ordini esponenziali.
Le resistenti amministrazioni hanno poi confutato analiticamente le argomentazioni difensive di parte ricorrente, domandando il rigetto del gravame.
3. Con ordinanza 12 aprile 2011, n. 3202, questa Sezione, ritenendo alcune questioni di legittimità costituzionale proposte dalla ricorrente rilevanti ai fini del decidere e non manifestamente infondate, ha sospeso il processo e rimesso gli atti alla Corte Costituzionale per l’esame della questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 24 e 77 Cost. degli artt. 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e 16, comma 1, in parte, del d.lgs. n. 28 del 2010, disponenti, rispettivamente, l’obbligatorietà del previo esperimento della mediazione al fine dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie e i soli requisiti di serietà ed efficienza degli enti pubblici e privati abilitati a costituire gli organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione.
4. Con ordinanze 10 giugno 2011, n. 2167 e 20 dicembre 2011, n. 4911 non è stata accolta la domanda di sospensione interinale degli effetti dell’atto gravato, incidentalmente formulata dalla parte ricorrente.
5. La Corte Costituzionale, con sentenza 6 dicembre 2012, n. 272, nel pronunziare in ordine alla citata ordinanza della Sezione n. 3202 del 2011, nonché in relazione a successive ordinanze di rimessione di altre autorità giudiziarie, sempre vertenti sulla materia della mediazione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010 in relazione al carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione e alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie ivi previste, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., e di una serie di disposizioni dello stesso decreto a esso strettamente correlate.
Parte ricorrente ha presentato indi istanza ex art. 80 c.p.a. per la prosecuzione del giudizio sospeso.
6. Pendente il giudizio dinnanzi al Giudice delle leggi, il legislatore, con l’art. 12 , comma 1, lett. a), del d.l. 22 dicembre 2011, n. 212, aveva modificato in alcune parti la formulazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010. Tale modifica non veniva però confermata dalla legge di conversione 17 febbraio 2012, n. 10.
Successivamente alla ridetta pronunzia della Corte Costituzionale n. 272 del 2012, la materia della mediazione obbligatoria è stata ridisciplinata dall’art. 84, comma 1, lett. b), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, che, mediante l’inserimento del comma 1-bis e altre modifiche apportate sia all’art. 5 del d.lgs. 28/2010 che ad altre disposizioni della legge, ha nuovamente regolamentato l’esperimento della conciliazione quale condizione di procedibilità per la domanda giudiziale in alcune materie.
7. Parte ricorrente ha interposto atto di motivi aggiunti.
In particolare, parte ricorrente formula anche avverso il novellato d.lgs. 28/2010, nonché avverso l’art. 84, comma 1, d.l. 69/2013 e l’art. 1, comma 1, della legge di conversione 98/2013, censure di illegittimità costituzionale in riferimento all’art. 77 Cost., sostenendo l’incompatibilità dell’introduzione a regime del nuovo sistema di accesso alla giustizia con lo strumento del decreto-legge, stante la carenza del carattere di straordinaria necessità e urgenza che ne legittima l’utilizzo, carenza che ritiene testimoniata dalla previsione che la nuova disposizione si applichi decorsi trenta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto (art. 84 del “decreto del fare”).
Parte ricorrente ritiene inoltre costituzionalmente illegittima anche la nuova previsione di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. 28/2010, laddove prevede che “il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello”.
Parte ricorrente ritiene tale previsione, soprattutto in relazione alla facoltà concessa anche al giudice di appello, di carattere discrezionale, di disporre l’esperimento del procedimento di mediazione, illogica nonché violativa della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost..
Parte ricorrente denunzia poi l’incostituzionalità dell’art. 13 del d.lgs. 28/2010 (“Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto”), ritenuta una forzatura e un indebito ostacolo all’accesso alla giustizia, in violazione dell’art. 24 Cost., nonché incompatibile con un sistema che non garantisce l’adeguata configurazione della professionalità del mediatore.
Parte ricorrente, infine, in relazione alle nuove previsioni normative, deduce ulteriori profili di illegittimità a carico del d.m. 180/2010.
In particolare, parte ricorrente sottolinea che le disposizioni di cui all’art. 16, commi 2 e 9, e all’art. 4, comma 3, lett. b), del decreto impugnato siano del tutto in contrasto, rispettivamente, con i novellati artt. 17, comma 5-ter e 16, comma 4-bis del d.lgs. 28/2010.
Parte ricorrente ha conclusivamente ribadito le domande demolitorie già introdotte avverso il decreto n. 180 del 2010 e ha domandato la dichiarazione della non manifesta infondatezza delle proposte questioni di legittimità costituzionale.
8. Parte ricorrente ha affidato a memorie lo sviluppo delle proprie tesi difensive.
Le amministrazioni resistenti hanno depositato ulteriori memorie, sostenendo l’infondatezza delle nuove questioni di costituzionalità dedotte dalla ricorrente.
9. Il ricorso è stato indi trattenuto in decisione alla pubblica udienza dell’8 ottobre 2014.
DIRITTO
1. Il Collegio non può esimersi dall’illustrazione del quadro normativo della controversia, per quanto di interesse.
2. In forza dell’invito formulato agli Stati membri dal Consiglio europeo nella riunione di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, delle conclusioni adottate dal Consiglio nel maggio 2000 sui metodi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale, nonché del Libro verde presentato dalla Commissione nell’aprile del 2002, relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie nelle predette materie, la direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea ha disciplinato alcuni aspetti della mediazione in materia civile e commerciale.
Come sempre in tema di diritto comunitario, i “considerando” della direttiva delineano la generale impostazione conferita all’oggetto della regolazione, sia quanto alle finalità, sia quanto alle caratteristiche.
La direttiva chiarisce innanzitutto che l’obiettivo di garantire un miglior accesso alla giustizia sia giudiziale che extragiudiziale, e, segnatamente, la disponibilità del servizio di mediazione, nel contesto della politica dell’Unione europea volta a istituire uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, è un importante contributo al corretto funzionamento del mercato interno (quinto considerando).
Alla luce del sesto considerando della direttiva, la mediazione è, infatti, ritenuta una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale, poiché le relative procedure sono concepite in base alle esigenze delle parti, e gli accordi risultanti dalla mediazione hanno maggiori probabilità di essere rispettati volontariamente, oltre a preservare più facilmente una relazione amichevole e sostenibile tra le parti, benefici che diventano anche più evidenti nelle questioni di portata transfrontaliera.
La direttiva intende indi delinearne gli elementi chiave, per rendere certo il relativo contesto giuridico (settimo considerando).
Sotto il profilo sostanziale, in positivo, si afferma che la direttiva dovrebbe applicarsi alle controversie transfrontaliere, ma che nulla dovrebbe vietare agli Stati membri di estenderla ai “procedimenti di mediazione interni” (ottavo considerando).
In negativo, si afferma che la mediazione non dovrebbe applicarsi: “ai diritti e agli obblighi su cui le parti non hanno la facoltà di decidere da sole in base alla pertinente legge applicabile. Tali diritti ed obblighi sono particolarmente frequenti in materia di diritti di famiglia e del lavoro” (decimo considerando); “alle trattative precontrattuali o ai procedimenti di natura arbitrale quali talune forme di conciliazione dinanzi ad un organo giurisdizionale, i reclami dei consumatori, l’arbitrato e la valutazione di periti o i procedimenti gestiti da persone od organismi che emettono una raccomandazione formale, sia essa legalmente vincolante o meno, per la risoluzione della controversia” (undicesimo considerando).
Quanto agli elementi chiave della mediazione, vengono in evidenza, sempre tra i considerando, la differenza tra mediatore e giudice (dodicesimo considerando), la possibilità di rendere il ricorso alla mediazione obbligatorio ovvero soggetto a incentivi o sanzioni, purchè non venga impedito alle parti “di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario” (quattordicesimo considerando) ovvero non si impedisca alle parti, nell’incoraggiare la mediazione, in relazione ai termini di prescrizione e di decadenza, “di adire un organo giurisdizionale o di ricorrere all’arbitrato in caso di infruttuoso tentativo di mediazione” (ventiquattresimo considerando), la fissazione di un termine al processo di mediazione (tredicesimo considerando), la riservatezza del relativo procedimento, anche in relazione all’eventuale successivo procedimento giudiziario od arbitrale (ventitreesimo considerando), l’esecutività dell’accordo scritto raggiunto, fatta salva l’ipotesi di contrasto tra lo stesso e il diritto nazionale ovvero quella che l’obbligo contemplato nell’accordo non possa essere per sua natura reso esecutivo (diciannovesimo considerando); ai fini erariali, la tendenziale neutralità finanziaria in relazione agli stati membri della mediazione, che può includere “il ricorso a soluzioni basate sul mercato”(diciassettesimo considerando).
Viene inoltre in rilievo l’assistenza del mediatore (decimo considerando), la sua formazione e l’introduzione di efficaci meccanismi di controllo della qualità della fornitura del servizio (sedicesimo considerando), la flessibilità del procedimento di mediazione e l’autonomia delle parti, nonché l’efficacia l’imparzialità e la competenza della mediazione (diciassettesimo considerando).
La direttiva 2008/52/CE regola indi la materia con 14 articoli.
In particolare:
– l’art. 1 enuncia l’obiettivo della regolazione (“…facilitare l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e di promuovere la composizione amichevole delle medesime incoraggiando il ricorso alla mediazione e garantendo un’equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario”) e ne delinea il campo di applicazione [“…controversie transfrontaliere, in materia civile e commerciale tranne per i diritti e gli obblighi non riconosciuti alle parti dalla pertinente legge applicabile. Essa non si estende, in particolare, alla materia fiscale, doganale e amministrativa né alla responsabilità dello Stato per atti o omissioni nell’esercizio di pubblici poteri (acta iure imperii)];
– l’art. 3, dedicato alle definizioni, dispone che per mediazione, al di là della denominazione, si intende un procedimento strutturato ove “…due o più parti di una controversia tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un accordo sulla risoluzione della medesima con l’assistenza di un mediatore. Tale procedimento può essere avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto di diritto da uno Stato membro”;
– lo stesso art. 3 esplicita che per mediatore si intende “…qualunque terzo cui è chiesto di condurre la mediazione in modo efficace, imparziale e competente, indipendentemente dalla denominazione o dalla professione di questo terzo nello Stato membro interessato…” (lett. b), che comunque incoraggia “…la formazione iniziale e successiva dei mediatori allo scopo di garantire che la mediazione sia gestita in maniera efficace, imparziale e competente in relazione alle parti” (par. 2);
– l’art. 5, dedicato al ricorso alla mediazione, esplicitando l’intendimento già anticipato dal preambolo, prevede che “L’organo giurisdizionale investito di una causa può, se lo ritiene appropriato e tenuto conto di tutte le circostanze del caso, invitare le parti a ricorrere alla mediazione allo scopo di dirimere la controversia…” e che “La presente direttiva lascia impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giudiziario, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario”;
– l’art. 6 delinea la esecutività degli accordi risultanti dalla mediazione, che è, peraltro, esclusa laddove “…il contenuto dell’accordo è contrario alla legge dello Stato membro in cui viene presentata la richiesta o se la legge di detto Stato membro non ne prevede l’esecutività”;
– l’art. 8 dispone che “Gli Stati membri provvedono affinché alle parti che scelgono la mediazione nel tentativo di dirimere una controversia non sia successivamente impedito di avviare un procedimento giudiziario o di arbitrato in relazione a tale controversia per il fatto che durante il procedimento di mediazione siano scaduti i termini di prescrizione o decadenza”;
Con la legge 18 giugno 2009, n. 69, titolata “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”, e, segnatamente, con l’art. 60, il legislatore nazionale ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e commerciale (comma 1), nel rispetto e in coerenza con la normativa comunitaria e in conformità ai principi e criteri direttivi enunciati al comma 3 (comma 2).
Tra questi ultimi, sono attinenti alla materia dell’odierno contendere i principi e criteri direttivi dettati dalle lettere:
“a) prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia;
b) prevedere che la mediazione sia svolta da organismi professionali e indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione;
c) disciplinare la mediazione, nel rispetto della normativa comunitaria, anche attraverso l’estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e in ogni caso attraverso l’istituzione, presso il Ministero della giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, di un Registro degli organismi di conciliazione…;
d) prevedere che i requisiti per l’iscrizione nel Registro e per la sua conservazione siano stabiliti con decreto del Ministro della giustizia;
e) prevedere la possibilità, per i consigli degli ordini degli avvocati, di istituire, presso i tribunali, organismi di conciliazione che, per il loro funzionamento, si avvalgono del personale degli stessi consigli;
f) prevedere che gli organismi di conciliazione istituiti presso i tribunali siano iscritti di diritto nel Registro;
g) prevedere, per le controversie in particolari materie, la facoltà di istituire organismi di conciliazione presso i consigli degli ordini professionali;
h) prevedere che gli organismi di conciliazione di cui alla lettera g) siano iscritti di diritto nel Registro;
n) prevedere il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione;
p) prevedere, nei casi in cui il provvedimento che chiude il processo corrisponda interamente al contenuto dell’accordo proposto in sede di procedimento di conciliazione, che il giudice possa escludere la ripetizione delle spese sostenute dal vincitore che ha rifiutato l’accordo successivamente alla proposta dello stesso, condannandolo altresì, e nella stessa misura, al rimborso delle spese sostenute dal soccombente… e, inoltre, che possa condannare il vincitore al pagamento di un’ulteriore somma a titolo di contributo unificato…;
q) prevedere che il procedimento di conciliazione non possa avere una durata eccedente i quattro mesi;
r) prevedere, nel rispetto del codice deontologico, un regime di incompatibilità tale da garantire la neutralità, l’indipendenza e l’imparzialità del conciliatore nello svolgimento delle sue funzioni;
s) prevedere che il verbale di conciliazione abbia efficacia esecutiva per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e costituisca titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale”.
La delega in parola è stata esercitata con il d. lgs. 4 marzo 2010, n. 28.
3. Nell’ambito dell’appena menzionato decreto legislativo 28/2010, viene in particolare rilievo l’art. 5.
Come riferito in narrativa, in seguito all’ordinanza di rimessione della Sezione 12 aprile 2011, n. 3202, che ha rilevato, tra altro, come l’obbligatorietà del ricorso alla mediazione in alcune materie non fosse prevista in alcun principio e criterio direttivo dettato dall’art. 60 delle l. 69/2009, e travalicasse, pertanto, i limiti della delega legislativa, la Corte Costituzionale, con sentenza 6 dicembre 2012, n. 272, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 1 della disposizione, unitamente ad altre norme correlate della decretazione delegata, in relazione al carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione e alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie ivi previste, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost..
Il Giudice delle leggi, in particolare, ha dichiarato:
– l’illegittimità costituzionale “dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali)”;
– “in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale: a) dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2010, limitatamente al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limitatamente alla frase «se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1»; b) dell’art. 5, comma 2, primo periodo, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e», c) dell’art. 5, comma 4, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «I commi 1 e»; d) dell’art. 5, comma 5 del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e»; e) dell’art. 6, comma 2, del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e, anche nei casi in cui il giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo del comma 1 dell’articolo cinque,»; f) dell’art. 7 del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’art. 5, comma 1»; g) dello stesso articolo 7 nella parte in cui usa il verbo «computano» anziché «computa»; h) dell’art. 8, comma 5, del detto decreto legislativo; i) dell’art. 11, comma 1, del detto decreto legislativo, limitatamente al periodo «Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’art. 13»; l) dell’intero art. 13 del detto decreto legislativo, escluso il periodo «resta ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile»; m) dell’art. 17, comma 4, lettera d), del detto decreto legislativo; n) dell’art. 17, comma 5, del detto decreto legislativo; o), dell’art. 24 del detto decreto legislativo”.
Come pure già precedentemente rilevato, pendente il giudizio dinnanzi al Giudice delle leggi, il legislatore, con l’art. 12, comma 1, lett. a), del d.l. 22 dicembre 2011, n. 212, aveva tentato di modificare in alcune parti la formulazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010. Tale modifica non veniva però confermata dalla legge di conversione 17 febbraio 2012, n. 10.
Successivamente alla ridetta pronunzia della Corte Costituzionale n. 272 del 2012, la materia della mediazione obbligatoria è stata ridisciplinata dall’art. 84 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, che, mediante l’inserimento del comma 1-bis e varie modifiche apportate sia all’art. 5 del d.lgs. 28/2010 che ad altre disposizioni della legge, ha nuovamente regolamentato l’esperimento della conciliazione quale condizione di procedibilità per la domanda giudiziale in alcune materie.
E’ bene a questo punto illustrare il comma 1 (dichiarato costituzionalmente illegittimo con la pronunzia n. 272 del 2012 della Corte Costituzionale) e il comma 1-bis dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, allo stato vigente.
La disposizione dichiarata illegittima prevedeva che:
“1. Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni”.
Il comma 1-bis dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 prevede ora che:
“1-bis. Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore. Al termine di due anni dalla medesima data di entrata in vigore è attivato su iniziativa del Ministero della giustizia il monitoraggio degli esiti di tale sperimentazione. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni”.
Viene altresì in rilievo nell’ambito dell’odierno contenzioso l’art. 16 dello stesso d.lgs. 28/2010, in forza del quale è stato adottato il regolamento 18 ottobre 2010, n. 180, ovvero l’atto gravato in questa sede.
Anche l’art. 16 ha subito modifiche per effetto dell’art. 84 del d.l. n. 69 del 2013, convertito dalla l. n. 98 del 2013.
La disposizione prevede al comma 1 che “Gli enti pubblici o privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza, sono abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione nelle materie di cui all’articolo 2 del presente decreto. Gli organismi devono essere iscritti nel registro”
Il comma 2 stabilisce che “La formazione del registro e la sua revisione, l’iscrizione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti, l’istituzione di separate sezioni del registro per la trattazione degli affari che richiedono specifiche competenze anche in materia di consumo e internazionali, nonché la determinazione delle indennità spettanti agli organismi sono disciplinati con appositi decreti del Ministro della giustizia, di concerto, relativamente alla materia del consumo, con il Ministro dello sviluppo economico. Fino all’adozione di tali decreti si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dei decreti del Ministro della giustizia 23 luglio 2004, n. 222 e 23 luglio 2004, n. 223. A tali disposizioni si conformano, sino alla medesima data, gli organismi di composizione extragiudiziale previsti dall’articolo 141 del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni”.
Il comma 3 recita che “L’organismo, unitamente alla domanda di iscrizione nel registro, deposita presso il Ministero della giustizia il proprio regolamento di procedura e il codice etico, comunicando ogni successiva variazione. Nel regolamento devono essere previste, fermo quanto stabilito dal presente decreto, le procedure telematiche eventualmente utilizzate dall’organismo, in modo da garantire la sicurezza delle comunicazioni e il rispetto della riservatezza dei dati. Al regolamento devono essere allegate le tabelle delle indennità spettanti agli organismi costituiti da enti privati, proposte per l’approvazione a norma dell’articolo 17. Ai fini dell’iscrizione nel registro il Ministero della giustizia valuta l’idoneità del regolamento”.
Il comma 4 dispone che “La vigilanza sul registro è esercitata dal Ministero della giustizia e, con riferimento alla sezione per la trattazione degli affari in materia di consumo di cui al comma 2, anche dal Ministero dello sviluppo economico”.
Il comma 4-bis, novella – si sottolinea – inserita dall’art. 84 del d.l. n. 69 del 2013, convertito dalla l. n. 98 del 2013, stabilisce che “Gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori. Gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 55-bis del codice deontologico forense. Dall’attuazione della presente disposizione non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Il comma 5 prevede che “Presso il Ministero della giustizia è istituito, con decreto ministeriale, l’elenco dei formatori per la mediazione. Il decreto stabilisce i criteri per l’iscrizione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti, nonché per lo svolgimento dell’attività di formazione, in modo da garantire elevati livelli di formazione dei mediatori. Con lo stesso decreto, è stabilita la data a decorrere dalla quale la partecipazione all’attività di formazione di cui al presente comma costituisce per il mediatore requisito di qualificazione professionale”.
Il comma 6 detta infine una disposizione di carattere finanziario.
4. Può ora passarsi alla disamina delle questioni poste dal gravame all’odierna trattazione.
5. Va, com’è d’uopo, prioritariamente esaminata la questione di carattere pregiudiziale spiegata dai resistenti Ministero della giustizia e Ministero per lo sviluppo economico, che ritengono l’Associazione ricorrente priva di legittimazione attiva, per carenza in capo alla stessa della rappresentanza istituzionale degli interessi della categoria degli avvocati, spettante solo al Consiglio Nazionale Forense e agli ordini esponenziali.
Al riguardo, osserva il Collegio che è principio giurisprudenziale pacifico che un’associazione professionale, se e in quanto ne sia comprovato un apprezzabile grado di rappresentatività, può essere legittimata ad impugnare provvedimenti lesivi, oltre che di interessi propri, di interessi collettivi della categoria, non anche di singole posizioni giuridiche degli associati (C. Stato, V, 22 ottobre 2007, n. 5498; Tar Lazio, Roma, I, 5 dicembre 2008, n. 11015).
Applicando le predette coordinate ermeneutiche al caso di specie, l’eccezione in esame non risulta persuasiva.
Alla luce dello statuto dell’UNCC, la ricorrente risulta essere associazione non riconosciuta costituita tra associazioni di avvocati civilisti, avente scopo, tra altri, di promuovere iniziative dirette a conseguire un miglior funzionamento della giustizia, con particolare riguardo a quella civile (art. 2, lett. a) e di rappresentare a livello nazionale le istanze degli avvocati civilisti e degli iscritti alle Camere Civili aderenti all’Unione, nei rapporti con gli organi istituzionali dell’Avvocatura, i rappresentanti dei pubblici poteri, l’Ordine Giudiziario, le altre Associazioni forensi (art. 2, lett. g), senza che lo statuto stesso preveda una qualche limitazione dei mezzi mediante i quali realizzare i detti scopi.
Riferisce, inoltre, la ricorrente, senza essere smentita dalle eccepenti, di contare circa settemila iscritti sull’intero territorio nazionale, e di essere stata riconosciuta dal Congresso Nazionale Forense tra le associazioni maggiormente rappresentative dell’Avvocatura nel suo complesso.
Infine, va anche tenuto conto della materia investita dalla controversia, che, come rilevato dalla Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 272/2012, attiene a giudizi (tra cui quello che occupa) nell’ambito dei quali “i rapporti sostanziali dedotti in causa concernono profili attinenti alla mediazione nel processo civile, che possono anche riguardare interessi professionali della classe forense”.
L’eccezione in esame va per tutto quanto sopra respinta.
6. Si passa all’esame del merito del ricorso.
7. I due primi motivi dedotti nell’atto introduttivo del giudizio possono essere congiuntamente trattati.
Con la prima doglianza (illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale degli artt. 5 e 17 del d. lgs. 28/2010 in relazione agli artt. 24, 76 e 77 della Costituzione) la ricorrente sostiene che il legislatore delegato è incorso in eccesso di delega laddove ha introdotto l’obbligatorietà della mediazione e l’improcedibilità del giudizio interposto senza il previo esperimento della mediazione, entrambi non previsti dalla legge delega.
Con la seconda doglianza (illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale dell’art. 8 del d. lgs. 28/2010 in relazione agli artt. 24, 76 e 77 della Costituzione) la ricorrente sostiene che, poiché nella logica del decreto delegato, le scelte che la parte è chiamata ad effettuare nel procedimento di mediazione sono suscettibili di condizionare l’esito del successivo processo, per un verso la mancata previsione nel procedimento stesso della obbligatorietà dell’assistenza del difensore viola l’art. 24 della Costituzione (nonché favorisce le classi più abbienti, facoltizzate ad avvalersene), per altro verso l’introduzione della possibilità di acquisire elementi di prova in assenza di difesa tecnica, non prevista dalla legge delega, concreta eccesso di delega ex art. 76 Cost..
7.1. Osserva al riguardo il Collegio che le censure di cui si discute, più che evidenziare l’illegittimità del decreto 18072010 per violazione degli artt. 5 e 16 del d.lgs.180/2010, sono volte a contestare la stessa disciplina normativa recata dai predetti articoli, ritenuta antinomica rispetto alla direttiva comunitaria 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE, e alla legge delega, art. 60 della l. 18 giugno 2009, n. 69.
Come già ampiamente riferito, la Sezione ha ritenuto persuasive la più parte di tali censure, rilevando anche come le stesse racchiudessero i tratti salienti dell’interesse azionato in giudizio dalla ricorrente, finalizzato sostanzialmente, per il tramite dell’impugnativa del d.m. 180/2010, allo scrutinio di costituzionalità degli artt. 5 e 16 del d.lgs. 28/10.
E infatti, con la più volte richiamata ordinanza 12 aprile 2011, n. 3202, la Sezione ha sospeso il processo e rimesso gli atti alla Corte Costituzionale per l’esame della questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 24 e 77 Cost. degli artt. 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e 16, comma 1, in parte, del d.lgs. n. 28 del 2010, disponenti, rispettivamente, l’obbligatorietà del previo esperimento della mediazione al fine dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie e i soli requisiti di serietà ed efficienza degli enti pubblici e privati abilitati a costituire gli organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione.
Al contempo, nella stessa ordinanza n. 3202 del 2011, la Sezione ha ritenuto che l’eccezione di costituzionalità relativa alla mancata previsione nel procedimento di mediazione obbligatoria dell’assistenza del difensore si profilasse non rilevante ai fini del presente giudizio, in quanto priva di qualsiasi collegamento diretto od indiretto con la domanda demolitoria del regolamento impugnato avanzata innanzi a questa sede.
Come già detto, successivamente alla ridetta pronunzia della Corte Costituzionale n. 272 del 2012, che, accogliendo parzialmente la prospettazione di cui alla predetta ordinanza, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 1 dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 e altre disposizioni a esso correlate, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., la materia della mediazione obbligatoria è stata ridisciplinata dall’art. 84 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, mediante l’inserimento del comma 1-bis nel corpo dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 e varie modifiche apportate sia allo stesso art. 5 che ad altre disposizioni del decreto.
La novella legislativa, rispetto all’angolo visuale in cui si è situato il ricorso, ha apportato rilevanti modifiche all’istituto della mediazione.
Basti osservare sul punto, come meglio si dirà in seguito, che se è vero che l’esperimento della mediazione è stato ancora una volta configurato quale condizione di procedibilità per la domanda giudiziale in alcune materie, comunque rivisitate rispetto alle precedenti, è altresì vero che il nuovo testo del d.lgs. 28/2010 ha prescritto l’assistenza dell’avvocato.
Inoltre, gli stessi ricorrenti, a seguito delle modifiche normative di cui sopra, hanno spiegato avverso l’art. 84 del d.l. n. 69/2013, convertito dalla l. 98/2013, le nuove doglianze di costituzionalità, di cui ai motivi aggiunti.
Ne consegue che, allo stato, le censure in parola, affidate a un impianto argomentativo complessivo non più coerente con l’attuale quadro normativo, vanno dichiarate improcedibili.
8. Con il terzo motivo di gravame [violazione dell’art. 60, comma 3, lett. b) della l. n. 69 del 2009 e dell’art. 16 del d. lgs. 20/2010 – eccesso di potere per irragionevolezza – illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale dell’art. 16 del d. lgs. 28/2010 in relazione agli artt. 76 e 77 della Costituzione] la ricorrente lamenta che, laddove la legge delega pone il requisito dell’indipendenza sia in capo agli organismi di mediazione sia in capo ai singoli mediatori, l’art. 4 del decreto impugnato assicura tale indipendenza in misura molto minore, riferendola esclusivamente “allo svolgimento del servizio di mediazione” [comma 2, lett. e)].
Nella ridetta ordinanza n. 3202 del 2011, la Sezione ha ritenuto che anche tale censura si profilasse estranea alle sollevate questioni di costituzionalità, perché afferente esclusivamente allo scrutinio di legittimità dell’art. 4 del regolamento 180/2010.
La tematica deve, indi, essere ora affrontata.
8.1. L’art. 60, comma 3, lett. b), della l. delega n. 69 del 2009 indica tra i principi e criteri direttivi la previsione che la mediazione sia svolta da organismi professionali e indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione.
L’art. 4 del d.m. 180/2010, censurato dalla ricorrente, ha subito modifiche per effetto dei decreti ministeriali 6 luglio 2011, n. 145 e 4 agosto 2014, n. 39.
Ma, già dalla originaria formulazione, come all’attualità, la disposizione prevede al comma 2 che, ai fini dell’iscrizione nel registro, siano verificati a carico degli organismi di mediazione:
– i requisiti di onorabilità dei soci, associati, amministratori o rappresentanti dei predetti enti, conformi a quelli fissati dall’articolo 13 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 [lett. c)];
– la trasparenza amministrativa e contabile dell’organismo, ivi compreso il rapporto giuridico ed economico tra l’organismo e l’ente di cui eventualmente costituisca articolazione interna al fine della dimostrazione della necessaria autonomia finanziaria e funzionale [lett. d)];
– le garanzie di indipendenza, imparzialità e riservatezza nello svolgimento del servizio di mediazione, nonché la conformità del regolamento alla legge e decreto, anche per quanto attiene al rapporto giuridico con i mediatori [lett. e)].
La norma quindi prescrive, nell’ordine di cui sopra:
– in capo ai soci, associati, amministratori o rappresentanti degli organismi, per effetto dell’espresso richiamo all’art. 13, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, il possesso dei requisiti previsti per i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso SIM, società di gestione del risparmio, SICAV e Sicaf. Tra tali requisiti, oltre la professionalità e l’onorabilità, figura l’indipendenza;
– l’autonomia (finanziaria e) funzionale dell’organismo;
– l’indipendenza, l’imparzialità e la riservatezza nello svolgimento del servizio di mediazione.
Tali prescrizioni declinano a carico degli organismi di mediazione, sotto i profili personali, strutturali e funzionali, e indi compiutamente, il concetto sostanziale di indipendenza assunto nella legge delega.
La censura è, pertanto, infondata.
9. Conclusivamente, alla luce di tutto quanto sopra, l’atto introduttivo del giudizio va dichiarato in parte improcedibile e per il restante respinto.
10. Come ampiamente sopra riferito, con pronunzia n. 272 del 2012 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010 in relazione al carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione e alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie ivi previste, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., e di una serie di disposizioni dello stesso decreto a esso strettamente correlate.
In particolare, il Giudice delle leggi, al fine di verificare il rispetto dei principi posti in sede di emanazione del d.lgs. n. 28 del 2010, ha rilevato come né la direttiva comunitaria 2008/52/CE sopra illustrata, né gli altri atti comunitari presi in considerazione dalla pronunzia, né, infine, la legge delega pure illustrata (art. 60 della legge n. 69 del 2009), esplicitassero in alcun modo la previsione del carattere obbligatorio della mediazione finalizzata alla conciliazione assunto dal menzionato art. 5, comma 1, della legge delegata.
Successivamente alla ridetta pronunzia della Corte Costituzionale n. 272 del 2012, la materia della mediazione obbligatoria è stata ridisciplinata dall’art. 84, comma 1, lett. b), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, che, mediante l’inserimento del comma 1-bis e altre modifiche apportate sia all’art. 5 del d.lgs. 28/2010 che ad altre disposizioni della legge, ha nuovamente regolamentato l’esperimento della conciliazione quale condizione di procedibilità per la domanda giudiziale in alcune materie.
Mediante atto di motivi aggiunti parte ricorrente ha formulato anche avverso la predetta novella censure di illegittimità costituzionale, che si passa a esaminare.
11. Parte ricorrente assume in primo luogo che il novellato d.lgs. 28/2010, nonché l’art. 84, comma 1, del d.l. 69/2013 e l’art. 1, comma 1, della legge di conversione 98/2013, violino l’art. 77 Cost., sostenendo l’incompatibilità dell’introduzione a regime del nuovo sistema di accesso alla giustizia con lo strumento del decreto-legge, stante la carenza del carattere di straordinaria necessità e urgenza che ne legittima l’utilizzo, carenza che ritiene testimoniata dalla previsione che la nuova disposizione si applichi decorsi trenta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto (art. 84 del “decreto del fare”).
11.1. La censura non persuade.
Va, al riguardo, considerato primariamente come la Sezione, nell’ordinanza di remissione 3202/2011 più volte citata, non abbia mai dubitato della possibilità, insita nella già illustrata direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE [espressamente finalizzata a facilitare l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e a promuovere la composizione amichevole delle medesime incoraggiando il ricorso alla mediazione e garantendo un’equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario (art. 1, comma 1)], concessa agli Stati membri:
– di estendere, o meno, il campo di applicazione delle disposizioni comunitarie sulla mediazione in materia civile e commerciale da quello privilegiato, costituito dalle controversie transfrontaliere ai “procedimenti di mediazione interni” (ottavo considerando e art. 1);
– di renderlo, o meno, obbligatorio (art. 5, comma 2: “La presente direttiva lascia impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giudiziario, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario”).
La Sezione ha, piuttosto, rilevato che il grado di valorizzazione della mediazione, quale strumento tendenzialmente generale di risoluzione delle controversie, mediante l’esercizio delle predette opzioni discrezionali estensive dell’istituto – comportante, la prima, la scelta di renderla applicabile a rapporti che ricadono interamente nell’ambito degli ordinamenti interni degli Stati membri, la seconda, la scelta di renderla obbligatoria e in quale misura – inerisse, attenendo ai massimi livelli del sistema nazionale del settore “giustizia” in materia civile, secondo le attribuzioni proprie dell’ordinamento nazionale vigente, alla fonte normativa primaria [art. 111 Cost.; art. 117, lett. l) e m) Cost.].
La Sezione ha negato, quindi, e a ragione (come attestato dalla sentenza costituzionale n. 272/2012), che la seconda di tali scelte potesse essere legittimante esercitata dal Governo in sede di legge delegata (d.lgs. 28/2010), in assenza nella legge delega (art. 60, l. n. 69 del 2009) di uno specifico principio e criterio direttivo.
Nel tema ora in discussione si versa in una fattispecie completamente diversa.
Non vi è dubbio, invero, che la scelta di rendere obbligatoria la mediazione nelle materie delineate dal nuovo comma 1-bis dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 sia stata ora compiuta in esercizio di funzione legislativa, e ciò sia in sede di adozione del decreto-legge n. 69 del 2013, sia in sede di conversione del decreto, con la l. n. 989 del 2013.
Tanto premesso, e passando alla questione, posta dalla ricorrente, se lo strumento della decretazione d’urgenza sia idoneo a normare la materia, deve rammentarsi che la Corte Costituzionale, con giurisprudenza costante sin dal 1995 (sentenza n. 29 del 1995), ha affermato che l’esistenza dei requisiti della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza può essere oggetto di scrutinio di costituzionalità.
Tuttavia, la Corte Costituzionale (sentenza n. 171 del 2007) ha al riguardo chiarito che il relativo giudizio non sostituisce e non si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento, in sede di conversione, dovendosi svolgere su un piano diverso, con la funzione di preservare l’assetto delle fonti normative e, con esso, il rispetto dei valori a tutela dei quali detto compito è predisposto, con l’effetto di riconoscere ai requisiti di necessità e urgenza cui l’art. 77 Cost. subordina il potere straordinario del Governo di emanare norme primarie ancorché provvisorie comporta l’inevitabile conseguenza di dare alla disposizione un largo margine di elasticità.
In tal modo il Giudice delle leggi ha ritenuto, per un verso, che la straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi, per altro verso, che l’eventuale difetto dei presupposti di legittimità della decretazione d’urgenza, in sede di scrutinio di costituzionalità, debba risultare evidente.
Nella specie, la Sezione non ravvisa nella fattispecie in esame l’evidenza richiesta per sollevare nuovamente la questione di costituzionalità della mediazione obbligatoria, dedotta dalla ricorrente.
Invero, non può essere fondatamente posto in dubbio come il riconoscimento, da parte della sentenza della Corte Costituzionale n. 272/2012, dell’illegittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010 in relazione al carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione e alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie ivi previste, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., ovvero per l’accertata carenza nella legge delega di cui all’art. 60 della l. 69/09 di criteri e principi direttivi legittimanti tale scelta da parte del legislatore delegato, abbia frustrato le chiare finalità deflattive del contenzioso giudiziario che il legislatore delegato stesso ha riconnesso all’intero sistema delineato dallo stesso d.lgs. 28/2010.
E ciò in un contesto di nota evidenza della necessità di riforme in materia di giustizia civile, sottolineato anche dalla “Raccomandazione del Consiglio [Europeo, n.d.r.] sul programma nazionale di riforma 2013 dell’Italia e che formula un parere del Consiglio sul programma di stabilità dell’Italia 2012-2017” del 29 maggio 2013.
Tale raccomandazione, invero:
– all’undicesimo considerando, ha rilevato come “Per migliorare il contesto in cui operano le imprese occorre completare la riforma della giustizia civile dando rapidamente attuazione alla riorganizzazione dei tribunali, abbreviando la durata eccessiva dei procedimenti e riducendo il volume dell’arretrato e il livello di contenzioso”, ritenendo specificamente che “A seguito della sentenza della Corte costituzionale dell’ottobre 2012 sulla mediazione, è necessario intervenire per promuovere il ricorso a meccanismi extragiudiziali di risoluzione delle controversie”;
– al punto 2, ha raccomandato all’Italia di “abbreviare la durata dei procedimenti civili e ridurre l’alto livello di contenzioso civile, anche promuovendo il ricorso a procedure extragiudiziali di risoluzione delle controversie.
E’ parimenti indubitabile che gli organismi di mediazione venuti a esistenza e iscrittisi nel registro degli organismi di mediazione nel non breve periodo decorrente tra l’entrata in vigore del d.lgs. 28/10, e segnatamente dell’art. 5 vecchia formulazione, e la pronunzia del Giudice delle leggi n. 272 del 2012, si siano necessariamente strutturati sulla base di tutte le previsioni originarie del decreto, ivi comprese quelle relative all’obbligatorietà della mediazione in determinate materie, risultando, in tal modo, interamente portata a compimento l’organizzazione strutturale cui il legislatore delegato intendeva far ricorso, anche coattivo, per introdurre la detta modalità di risoluzione delle controversie alternativa al sistema giudiziario.
Applicando a tale contesto le predette coordinate ermeneutiche, deve riconoscersi la sussistenza di quella straordinarietà del caso, tale da legittimare, ai sensi dell’art. 77, come interpretato dalla Corte Costituzionale, la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito.
Nulla muta, al riguardo, considerando che previsione che l’art. 84 del “decreto del fare” ha previsto che la novella si applichi decorsi trenta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto.
Si tratta, infatti, per un verso, di una opportuna disposizione di cautela, che rimanda alla conversione del decreto-legge l’operatività del sistema introdotto.
Non va invero dimenticato che, come già precedentemente riferito, pendente il giudizio conclusosi con la sentenza 272/2012 dinnanzi al Giudice delle leggi, con d.l. 22 dicembre 2011, n. 212 (art. 12, comma 1, lett. a), il Governo aveva tentato di modificare in alcune parti la formulazione originaria dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, ma tale modifica non è stata confermata dalla legge di conversione 17 febbraio 2012, n. 10.
Per altro verso, poi, la disposizione è inidonea a confermare l’assunto dei ricorrenti in ordine alla insussistenza dell’urgenza, atteso che, in ogni caso, il “decreto del fare”, approvato il 21 giugno 2013, non avrebbe comunque potuto determinare l’immediata ripresa della mediazione, stante la sospensione feriale dei termini giudiziari e l’eventualità che gli organismi di mediazione necessitassero, successivamente alla ridetta sentenza n. 272/2012, di una ripartenza organizzativa
12. Parte ricorrente ritiene inoltre costituzionalmente illegittima anche la nuova previsione di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. 28/2010, laddove prevede che “il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello”.
Parte ricorrente, in particolare, ritiene che la facoltà, di carattere discrezionale, concessa al giudice di appello, di disporre l’esperimento del procedimento di mediazione, sia illogica nonché violativa della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost..
La Sezione non ritiene di poter aderire a tale prospettazione.
Basti osservare, al riguardo, che la direttiva 2008/52/CE illustrata in premessa, al fine di incoraggiare la risoluzione alternativa e amichevole delle controversie costituita dal ricorso alla mediazione, per le precipue finalità già sopra descritte:
– all’art. 3, precisato il concetto di mediazione, chiarisce che tale procedimento, oltre che essere avviato dalle parti, può essere anche “suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale”;
– all’art. 5, stabilisce che “L’organo giurisdizionale investito di una causa può, se lo ritiene appropriato e tenuto conto di tutte le circostanze del caso, invitare le parti a ricorrere alla mediazione allo scopo di dirimere la controversia…”.
Quindi, per la citata direttiva, che non precisa in quale segmento della causa già pendente l’organo giurisdizionale può suggerire o ordinare il ricorso alla mediazione, la eventuale ricorrenza di un siffatto provvedimento in fase di appello non contrasta ex se con gli scopi principali assunti dalla direttiva, ravvisabili nella garanzia di un miglior accesso alla giustizia (quinto considerando), sulla base di una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida (sesto considerando).
Inoltre, l’eccezione oblitera che la diposizione prevede che la remissione giudiziale delle parti al procedimento di mediazione, anche in appello, è subordinata alla valutazione della “natura della causa”, dello “stato dell’istruzione” e del “comportamento delle parti”, apprezzamenti tutti da effettuarsi da parte del giudice, proprio nell’ambito di un procedimento giudiziale rispondente ai requisiti del giusto processo di cui all’invocato art. 11 Cost..
Anche tale questione va quindi respinta.
13. Parte ricorrente denunzia ancora l’incostituzionalità dell’art. 13 del d.lgs. 28/2010, che prevede che “ Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto”.
La disposizione viene qualificata come una costrizione finalizzata a imporre il ricorso alla mediazione e un indebito ostacolo all’accesso alla giustizia, in violazione dell’art. 24 Cost., nonché incompatibile con un sistema che non garantisce l’adeguata configurazione della professionalità del mediatore.
La tesi non ha pregio.
Si rammenta che la Corte Costituzionale, nella ridetta sentenza 272/2002, nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010, per contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost., ha assorbito ogni questione, pure sollevata, relativa alla eventuale incostituzionalità della mediazione obbligatoria per violazione dell’art. 24 Cost..
La questione, quindi, è aperta, e non può ora che essere affrontata alla luce delle novelle apportate in materia dal “decreto del fare”.
La nuova mediazione obbligatoria introdotta dall’art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. 28/2010, per effetto delle complessive modifiche apportate alla disposizione e al decreto legislativo nel suo complesso, è profondamente difforme dalla precedente.
E’ peraltro anche vero che la stessa si caratterizza per la presenza di numerose discrepanze.
Ne costituiscono esempio le contraddizioni ravvisabili nel testo di legge in punto di assistenza dell’avvocato nella procedura di mediazione.
Essa va ritenuta senz’altro obbligatoria ai sensi del comma 1 dell’art. 8, stante l’inequivocabile formulazione letterale della norma e la circostanza che l’art. 8 è precipuamente dedicato al procedimento di mediazione, con la conseguente centralità sul punto della disposizione, che, però, non coincide perfettamente né con l’art. 5, comma 1-bis, che riferisce l’assistenza dell’avvocato al mero atto di impulso della conciliazione obbligatoria, né con l’art. 12, comma 1, che prevede che solo ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.
Tali contraddizioni, peraltro, potranno essere risolte in sede di rivisitazione del testo del decreto delegato 28/2010, già programmato. L’art. 5, comma 1-bis, chiarisce, infatti, che “La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore. Al termine di due anni dalla medesima data di entrata in vigore è attivato su iniziativa del Ministero della giustizia il monitoraggio degli esiti di tale sperimentazione”.
Ma, anche tenuto conto di quanto appena sopra, è certo che non sono riproducibili nei confronti della “nuova” conciliazione obbligatoria quei rilievi critici cui aveva dato luogo il previgente sistema, poggianti sul combinato disposto di alcune previsioni, poi modificate, che hanno fatto fondatamente dubitare della suscettibilità della “vecchia” mediazione obbligatoria di consentire l’esercizio effettivo del diritto di difesa in giudizio e la possibilità di condurre a una composizione delle controversie in conformità all’alto rango dei principi che caratterizzano la materia nell’ordinamento nazionale vigente.
Basti, infatti, osservare che:
– le materie per cui la mediazione è obbligatoria e costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale sono state rivisitate in senso diminutivo, non essendovi più tra le stesse il risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti (art. 5, comma 1-bis);
– la condizione di procedibilità è ora assolta senza che sia necessario esperire un vero e proprio tentativo di conciliazione, ovvero con la mera partecipazione a un primo incontro (art. 5, comma 2-bis);
– nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, da svolgersi non oltre trenta giorni dalla domanda di mediazione (art. 8, comma 1), nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione (art. 17, comma 5-ter);
– si prevede l’assistenza dell’avvocato per promuovere la conciliazione obbligatoria (art. 5, comma 1-bis);
– si prevede l’assistenza dell’avvocato fino al termine della procedura (art. 8, comma 1);
– la proposta del mediatore interviene soltanto all’avverarsi delle relative condizioni, dopo il primo incontro, nell’ambito del quale il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione e invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione, procedendo nel caso positivo (art. 8, comma 1);
– solo ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 12, comma 1);
– al fine di sottrarsi alle conseguenze pregiudizievoli, in tema di argomenti di prova e di sanzioni, derivanti nel successivo giudizio dalla mancata partecipazione al procedimento di mediazione laddove obbligatorio, possono essere addotti giustificati motivi (art. 8, comma 4-bis);
– gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori (art. 16, comma 4-bis).
A ciò si aggiunga che le modifiche medio tempore apportate al d.m. 180/2010 hanno rafforzato la qualità del servizio di mediazione.
Basti richiamare, al riguardo, le nuove disposizioni ora vigenti in tema di formazione, aggiornamento e tirocinio dei mediatori (art. 4), nonché la prescrizione che il regolamento dell’organismo di mediazione contenga criteri inderogabili per l’assegnazione degli affari di mediazione predeterminati e rispettosi della specifica competenza professionale del mediatore designato, desunta anche dalla tipologia di laurea universitaria posseduta [art. 7, comma 5, lett. e)].
Considerazioni tutte, queste appena elencate, che fanno escludere che il sistema in esame, allo stato vigente, possa sostanziare il pericolo di una indebita restrizione dell’accesso alla giustizia, ravvisabile (e ravvisato dalla Sezione con l’ordinanza 3202/11) in occasione dell’esame delle originarie formulazioni del d.lgs. 28/2010 e del d.m. 180/2010.
Ne consegue che, nell’ambito della rimodulazione incisiva dell’istituto – anche mediante la previsione dell’assistenza tecnica del difensore, la più ragionevole regolazione del primo incontro della mediazione, finalizzata all’illustrazione alle parti degli scopi che le sono propri e alla verifica della disponibilità di entrambe le parti a pervenire in via generale a un accordo conciliativo, la rimessione della proposta conciliativa a una fase eventuale e successiva, condizionata al previo accertamento della volontà espressa in tal senso dalle parti – le norme di cui si discute, incentrate sulla già venuta a esistenza di una “proposta”, si qualificano come strumenti volti indirettamente a favorire, più che il ricorso alla conciliazione, la partecipazione diligente e in buona fede al relativo procedimento, come conseguenza dell’atto di assenso inizialmente prestato.
E’ evidente, infatti, che l’inveramento della fattispecie di cui si discute e le relative conseguenze pregiudizievoli previste dalla disposizione richiedono la presenza di una proposta conciliativa, e, quindi, ora, presuppongono che vi sia stata l’adesione delle parti alla possibilità della risoluzione conciliativa.
La norma in parola, pertanto, ha più che altro la finalità di sanzionare il mancato assolvimento dell’onere di ponderare il contenuto della proposta, onere che trova esclusiva fonte nell’assenso alla conciliazione prestato dall’onerato.
Si versa, pertanto, in una ipotesi che, rimarcando il carattere negoziale del procedimento di conciliazione, risulta del tutto estranea all’art. 24 Cost..
14. Le questioni di legittimità costituzionale spiegate dai ricorrenti avverso il d. lgs. n. 28 del 2010, come modificato nelle more del giudizio dall’art. 84 del d.l. 21 giugno 2013, n. 79, convertito dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost. risultano, per quanto sopra, infondate.
15. Restano da esaminare i nuovi profili di illegittimità dedotti con i mezzi aggiunti a carico del d.m. 180/2010.
15.1. Parte ricorrente sottolinea il sopravvenuto contrasto tra il novellato art. 17, comma 5-ter, del d.lgs. 28/2010 e la disposizione di cui all’art. 16, commi 2 e 9, del d.m. 180/2010.
L’art. 5-ter in parola prescrive che “Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”.
Il comma 2 dell’art. 16 del d.m. 180/2010 prevede che “Per le spese di avvio, a valere sull’indennità complessiva, è dovuto da ciascuna parte per lo svolgimento del primo incontro un importo di euro 40,00 per le liti di valore fino a 250.000,00 euro e di euro 80,00 per quelle di valore superiore, oltre alle spese vive documentate che è versato dall’istante al momento del deposito della domanda di mediazione e dalla parte chiamata alla mediazione al momento della sua adesione al procedimento. L’importo è dovuto anche in caso di mancato accordo”.
A sua volta, il comma 9 dello stesso art. 16 prevede che “Le spese di mediazione sono corrisposte prima dell’inizio del primo incontro di mediazione in misura non inferiore alla metà”.
E’ evidente che entrambe le disposizioni regolamentari si pongono in contrasto con la gratuità del primo incontro del procedimento di conciliazione, previsto dalla legge laddove le parti non dichiarino la loro disponibilità ad aderire al tentativo.
La censura è pertanto fondata e va accolta.
15.2. Parte ricorrente sottolinea ancora il sopravvenuto contrasto tra il novellato art. 16, comma 4-bis del d.lgs. 28/2010 e la disposizione di cui all’art. 4, comma 3, lett. b), del decreto n. 180/2010.
L’art. 16, comma 4-bis, del d.lgs. 28/2010 prevede che “Gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori. Gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 55-bis del codice deontologico forense”.
L’art. 4, comma 3, lett. b) del d.m. 180/2010 prevede il “il possesso, da parte dei mediatori, di una specifica formazione e di uno specifico aggiornamento almeno biennale, acquisiti presso gli enti di formazione in base all’articolo 18, nonché la partecipazione, da parte dei mediatori, nel biennio di aggiornamento e in forma di tirocinio assistito, ad almeno venti casi di mediazione svolti presso organismi iscritti”.
Anche tale norma si profila palesemente in contrasto con le nuove disposizioni, nella misura in cui è suscettibile di essere applicata in via generale, ovvero anche nei confronti degli avvocati iscritti all’albo, che la legge dichiara mediatori di diritto, e la cui formazione in materia di mediazione viene regolata con precipue disposizioni.
16. In definitiva, le doglianze di cui al ricorso e ai motivi aggiunti in esame vanno dichiarate in parte improcedibili, e in parte accolte, nei sensi e nei limiti di cui sopra.
L’andamento della controversia, la complessità e la novità delle questioni trattate giustificano l’integrale compensazione tra le parti costituite delle spese di lite
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso di cui in epigrafe, lo dichiara in parte improcedibile e in parte lo accoglie, nei sensi e nei limiti di cui al punto 15 della motivazione, disponendo, per l’effetto, l’annullamento degli artt.16, commi 2 e 9, e 4, comma 3, lett. b), del decreto n. 180 del 18 ottobre 2010 e s.m.i., adottato dal Ministro della giustizia di concerto con il Ministro dello sviluppo economico.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dell’8 ottobre e del 17 dicembre 2014, con l’intervento dei magistrati:
Luigi Tosti, Presidente
Anna Bottiglieri, Consigliere, Estensore
Ivo Correale, Consigliere
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 23/01/2015