mediazione obbligatoria conciliazione

Tribunale di Firenze, II sezione civile, sentenza 13 gennaio 2015

Commento

Il Tribunale di Firenze, con la pronuncia in esame, statuisce che il patrocinio a spese dello Stato è esteso, a favore degli avvocati, anche all’assistenza prestata in sede di mediazione civile.

Si tratta di una sentenza di particolare interesse, non solo perchè risolve in via interpretativa una obiettiva lacuna presente nella legislazione vigente, ma anche e soprattutto per l’ampiezza ed il respiro delle argomentazioni contenute nell’apparato motivazionale.

Nel caso di specie, l’avvocato G. aveva proposto istanza volta ad ottenere la liquidazione dei compensi inerenti all’attività professionale svolta a favore della parte S.C., ammessa al gratuito patrocinio con delibera 10.09.2014 del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze.

Da rilevare che l’istante, che intendeva iniziare una causa in materia di usucapione – quindi in materia soggetta all’obbligatorietà del tentativo di mediazione – aveva precisato che la propria richiesta riguardava anche detta (necessaria) fase, con riferimento alle relative competenze legali.

La mediazione si concluse con esito positivo: pertanto, l’avvocato G. chiede la liquidazione dei compensi maturati in virtù dell’attività di assistenza svolta, per l’appunto, nel procedimento di mediazione ante causam.

La questione che si pone è chiara: se il compenso professionale dell’avvocato che ha assistito in mediazione, prevista come condizione di procedibilità della domanda giudiziale, una parte ammessa al gratuito patrocinio possa essere posto a carico dello Stato.

La questione non è espressamente disciplinata dalla normativa vigente. Infatti, l’art. 17, co. 5 – bis, D.lgs 28/2010, prevede che “Quando la mediazione è condizione di procedibilità della domanda ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, ovvero è disposta dal giudice ai sensi dell’articolo 5, comma 2, del presente decreto, all’organismo non è dovuta alcuna indennità dalla parte che si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ai sensi dell’articolo 76 (L) del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, e successive modificazioni. A tale fine la parte è tenuta a depositare presso l’organismo apposita dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, la cui sottoscrizione può essere autenticata dal medesimo mediatore, nonché a produrre, a pena di inammissibilità, se l’organismo lo richiede, la documentazione necessaria a comprovare la veridicità di quanto dichiarato”.

Come si vede, l’unica disposizione inerente alla questione in esame riguarda l’indennità che sarebbe dovuta all’Organismo di mediazione; per quanto concerne il compenso dell’avvocato, che ai sensi degli artt. 5 e 8 D.lgs 28/2010 deve assistere le parti nel procedimento, non si può che rilevare una lacuna, che deve quindi essere colmata in via interpretativa.

Il quadro normativo da prendere in considerazione, muovendo ovviamente dall’art. 24, co. 2 e 3 Cost., è costituito innanzitutto dagli artt. 74 e 75 D.p.r. 115/2002. Il primo prevede l’istituzione del gratuito patrocinio per il non abbiente con riguardo ad ogni forma di giudizio, il secondo, nel secondo comma, stabilisce che  “L’ammissione al patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse”.

Ciò premesso, il Tribunale rileva che secondo l’orientamento tradizionale, “…poiché le norme fanno riferimento al processo, si ritiene impossibile far rientrare nel gratuito patrocinio l’attività stragiudiziale: se anche vi fosse l’ammissione da parte del Consiglio dell’ordine, non sarebbe comunque possibile la liquidazione a spese dello Stato.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24723 del 23.11.2011, ha riaffermato che il patrocinio a spese dello Stato riguarda esclusivamente la difesa in giudizio non potendo coprire l’attività stragiudiziale. Con la pronuncia, tuttavia, la Corte, richiamando un proprio precedente, fa salva una nozione estesa di attività giudiziale perché afferma che devono considerarsi giudiziali anche quelle attività stragiudiziali che, essendo strettamente dipendenti dal mandato alla difesa, vanno considerate strumentali o complementari alle prestazioni giudiziali, cioè di quelle attività che siano svolte in esecuzione di un mandato alle liti conferito per la rappresentanza e la difesa in giudizio (sulla base di tale presupposto, nella precedente decisione, era stato riconosciuto dovuto il compenso per l’assistenza e l’attività svolta dal difensore per la transazione della controversia instaurata dal medesimo).

Anche di recente, la pronuncia della S.C. del 19 aprile 2013, n. 9529 riconferma l’orientamento ricordato: l’attività professionale di natura stragiudiziale che l’avvocato si trovi a svolgere nell’interesse del proprio assistito, non è ammessa, di regola, al patrocinio a spese dello Stato ai sensi dell’art. 85 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, in quanto esplicantesi fuori del processo, per cui il relativo compenso si pone a carico del cliente. Tuttavia, se tale attività venga espletata in vista di una successiva azione giudiziaria, essa è ricompresa nell’azione stessa ai fini della liquidazione a carico dello Stato ed il professionista non può chiederne il compenso al cliente ammesso al patrocinio gratuito, incorrendo altrimenti in responsabilità disciplinare”.

Quest’ultima cauta apertura può ovviamente coordinarsi con le previsioni di cui al D.lgs 28/2020, in quanto laddove il giudizio, rispetto al quale la mediazione si ponga quale condizione di procedibilità, inizi o prosegua, l’attività dell’avvocato ben potrà essere ricompresa nella nozione di attività giudiziale in senso lato accolta dalla Suprema Corte, ossia di “attività strumentale alla prestazione giudiziale e svolta in esecuzione di un mandato alle liti conferito per la rappresentazione e difesa in giudizio”.

Più arduo appare, invece, il caso in cui la mediazione abbia portato alla conciliazione delle parti: in detta ipotesi, infatti, secondo alcuni non si svolgerebbe alcuna “fase processuale” nell’ambito della quale liquidare il compenso e non sarebbe quindi possibile considerare il compenso per il difensore che ha assistito la parte in mediazione a carico dello Stato.

Sul punto, da un lato si giungerebbe ad un paradosso, dal momento che “…la liquidazione a spese dello Stato non troverebbe applicazione proprio quando il difensore meglio le sue prestazioni professionali, favorendo il raggiungimento dell’accordo in mediazione. E ciò la liquidazione a spese dello Stato non troverebbe applicazione proprio quando il difensore ha svolto al anche se la mediazione è obbligatoria, come obbligatoria è l’assistenza dell’avvocato”. Dall’altro, però, “…liquidare a carico dello Stato un compenso non previsto da alcuna norma esporrebbe il giudice al rischio della responsabilità contabile”.

In sostanza, quindi: certamente si pone l’esigenza di riconoscimento e di remunerazione dell’attività di assistenza svolta dall’avvocato; certamente, stante il vincolo della solidarietà, si potrebbe in teoria onerare del debito del non abbiente l’altra parte del procedimento o l’avvocato che la assiste, giusta l’art. 13, co. 8, L. 247/2012; tuttavia, così opinando, si finirebbe pur sempre con il riversare su un privato una spesa  che dovrebbe essere sostenuta dallo Stato. Proprio perchè l’ordinamento mostra sempre più favore per le forme di ADR, anche la disciplina dell’aiuto ai non abbienti non dovrebbe più essere limitata all’aiuto nella sede giudiziaria.

Secondo il Giudice, quindi, in un quadro come quello sopra delineato, l’unica strada è quella di una valutazione del “…movimento europeo di vasto respiro in cui si inscrivono gli interventi ricordati (al di là della loro concreta disciplina) e approfondire l’esegesi delle norme che vengono in campo per verificare la possibilità, già in base alla legislazione esistente, che la parte non abbiente possa usufruire dell’aiuto statale anche quando alla mediazione, dato l’esito positivo, non faccia seguito il processo”.

Detta ricostruzione induce il Giudice a “…ritenere che l’art. 75 sopra citato comprenda sempre la fase della mediazione obbligatoria pre-processuale”.

Ciò in base ad una pluralità di considerazioni.

Innanzitutto, secondo il Tribunale, “…la conclusione accolta trova elementi di sostegno nell’ambito del diritto eurounitario (a partire dall’art. 47 della c.d. Carta di Nizza, secondo cui <<a coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello stato qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia>>) e della disciplina con cui l’Italia ha recepito la direttiva europea sul Legal aid, volta a migliorare l’accesso alla giustizia nelle controversie frontaliere civili (Direttiva 2002/8/CE del Consiglio del 27/1/2003). L’art. 3 di tale direttiva recita: Art. 3. Diritto al patrocinio a spese dello Stato. 1. La persona fisica, che sia parte in una controversia ai sensi della presente direttiva, ha diritto a un patrocinio adeguato a spese dello Stato che le garantisca un accesso effettivo alla giustizia in conformità delle condizioni stabilite dalla presente direttiva. 2. Il patrocinio a spese dello Stato è considerato adeguato se garantisce: a) la consulenza legale nella fase precontenziosa al fine di giungere a una soluzione prima di intentare un’azione legale; b) l’assistenza legale e la rappresentanza in sede di giudizio, nonché l’esonero totale o parziale dalle spese processuali, comprese le spese previste all’articolo 7 e gli onorari delle persone incaricate dal giudice di compiere atti durante il procedimento. La direttiva estende il legal aid alle procedure stragiudiziali (art. 10).

Il d.lgs. 27.5.2005, n. 116, che ha recepito la direttiva, prevede all’art. 10 che <<Il patrocinio è, altresì, esteso ai procedimenti stragiudiziali, alle condizioni previste dal presente decreto, qualora l’uso di tali mezzi sia previsto come obbligatorio dalla legge ovvero qualora il giudice vi abbia rinviato le parti in causa>>.

Si tratta di disposizioni che concernono le controversie transfrontaliere, ma che offrono elementi ulteriori per avvalorare l’interpretazione qui accolta che estende l’aiuto legale alla fase pre-processuale, apparendo del tutto irrazionale e non conforme all’art. 3 della costituzione che il cittadino possa usufruire dell’aiuto statale per la lite transfrontaliera e non per quella domestica”.

Inoltre, va osservato che il “condizionamento della giurisdizione” può ritenersi ammissibile laddove “…non comprometta l’esperimento dell’azione giudiziaria che può essere ragionevolmente limitato, quanto all’immediatezza, se vengano imposti oneri finalizzati a salvaguardare <<interessi generali>>: la sentenza della Corte Cost. n. 276/2000 in tema di tentativo obbligatorio di conciliazione per le cause di lavoro[4], ha affermato che il tentativo in questione soddisfaceva l’interesse generale sotto due profili: da un lato, perché evitava il sovraccarico dell’apparato giudiziario, dall’altro, perché favoriva la composizione preventiva della lite che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguito attraverso il processo. In sintonia con la nostra Corte costituzionale, anche l’importante decisione della Corte Giustizia eu 18.3.2010, Alassini c. Telecom (che indica le condizioni per ritenere conforme al diritto comunitario il tentativo obbligatorio di conciliazione, nella specie in tema di telecomunicazioni), afferma, tra l’altro, che <<i diritti fondamentali non si configurano come prerogative assolute, ma possono soggiacere a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato ed inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti>> (cfr. par. 63 della sentenza).

Sulla base di queste considerazioni, deve reputarsi che la connessione tra fase mediativa e processo, talmente forte da configurare una condizione di procedibilità, vada riconosciuta già in astratto. Non appare rilevante dunque che poi, in concreto, in base cioè al concreto risultato della mediazione, il processo non abbia più luogo perché divenuto inutile alla luce dell’accordo raggiunto”.

Infine, non va sottaciuto il fatto che una parte della dottrina abbia riconosciuto natura “paragiurisdizionale” alla mediazione, rilevando come l’obbligatorietà della stessa comporti il suo inserimento in un unico “macro-procedimento” finalizzato alla tutela dei diritti (disponibili). Ed è interessante richiamare un’affermazione della Corte costituzionale (sent. 178/2010), sia pure in un obiter dictum, nell’ambito di una pronuncia relativa a diversa materia: la Corte ha avuto modo di affermare che il procedimento di mediazione obbligatoria previsto dal d.lgs. n. 28/2010, “…rientra nell’esercizio della funzione giudiziaria e nella sfera del diritto civile, giacché, con riferimento al caso di specie, condiziona l’esercizio del diritto di azione finalizzato al risarcimento dei danni da responsabilità civile e prevede ricadute negative per chi irragionevolmente abbia voluto instaurare un contenzioso davanti al giudice, nonostante fosse stata formulata una proposta conciliativa rivelatasi successivamente satisfattiva delle proprie ragioni”.

Pur ritenendo il Giudice “…improprio qualificare tout court la mediazione come attività para-giurisdizionale o giudiziaria, è tuttavia corretto porre in risalto – anche – la sua stretta relazione con il processo, quando sia prevista come obbligatoria”.

In definitiva, pertanto, il Tribunale fiorentino, sulla base di un’interpretazione sistematica e teleologica, afferma che l’art. 75 D.p.r. 115/2002, “…secondo cui l’ammissione al patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse, comprenda la fase della mediazione obbligatoria pre-processuale anche quando la mediazione, per il suo esito positivo, non sia seguita dal processo. Si tratta infatti di una procedura strettamente connessa al processo, dal momento che condiziona la possibilità avviarlo (o proseguirlo, per la mediazione demandata dal giudice); d’altronde nel caso di successo della mediazione, si realizza il risultato migliore non solo per le parti, ma anche per lo stato che non deve sostenere anche le spese del giudizio.

Tale conclusione inoltre è conforme alla direttiva europea sul Legal Aid ed è costituzionalmente orientata (art. 3 Cost.), perché sarebbe irragionevole prevedere il sostegno dello stato per i casi di mediazione non conclusa con accordo e seguita da processo e negarla per i casi di mediazione, condizione di procedibilità, non seguita dal processo per l’esito positivo raggiunto”.

In sintesi, dunque, ancorare il gratuito patrocinio al solo concetto di giudizio stricto sensu inteso, appare il risultato di una visione superata nella quale unicamente la giurisdizione dello Stato era fonte di giustizia. A tale proposito, in una prospettiva de jure condendo, il Giudice osserva che il legislatore dovrebbe ripensare il sistema del gratuito patrocinio, alla luce delle norme comunitarie, in relazione alle ipotesi di mediazione facoltativa e di negoziazione assistita; ma, con riferimento alla mediazione obbligatoria, tematica che investe il caso di specie, “…esistono comunque spazi di interpretazione da sfruttare: il giurista ha il potere/dovere di conformare l’interpretazione delle norme esistenti alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento per sopperire lacune o adeguare le norme alle nuove condizioni storico-sociali”.

In conseguenza di tutto quanto precede, pertanto, la domanda dell’avvocato G.  deve essere accolta.

Come si vede, un’interpretazione costituzionalmente orientata, che si riconnette, d’altra parte, ed il Tribunale di Firenze non manca di rimarcarlo, all’esigenza che “…la mediazione sia effettiva e offra alle parti una reale chance di soluzione del loro conflitto” [come del resto affermato dalla giurisprudenza in una sempre più cospicua gamma di pronunce; cfr., ex multis, con riferimento all’orientamento dei giudici di merito relativo alla mediazione (obbligatoria) iussu iudicis, secondo cui il tentativo deve essere effettivo: Trib. Firenze, ord. 19.3.2010; Trib. Firenze, sez. imprese, ord. 17.3.2014 e ord. 18.3.2014; Trib. Roma, ord. 30.6.2014; Trib. Bologna, ord. 5.7.2014; Trib. Rimini, ord. 16.7.2014; Trib. Palermo, ord. 16.7.2014. Con riferimento alla mediazione obbligatoria ante causam, cfr., da ultimo, Trib. Firenze, ord. 26.11.2014].

Pertanto, “…l’esclusione del riconoscimento delle spese per il compenso di avvocato solo per i casi di mediazione non conclusa da accordo si presterebbe invece a concepire la fase mediativa come una fase da attraversare necessariamente, ma solo formalmente, per approdare al più presto al processo, nell’ambito del quale anche le spese stragiudiziali potranno essere riconosciute. Sarebbe una conclusione che sminuirebbe la funzione della mediazione, ma anche della giurisdizione, che, invece, proprio per la sua natura sussidiaria, deve potersi esplicare pienamente ed efficacemente quando è richiesto lo ius dicere, anziché essere strumentalizzata per altri obiettivi. L’interpretazione adottata è inoltre l’unica che riconosce la delicata funzione di assistenza dell’avvocato della parte in mediazione, funzione che comporta un mutamento culturale epocale per l’avvocatura rispetto ai ruoli tradizionali confinati al campo giudiziario e che deve essere adeguatamente valorizzata”.

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Testo integrale sentenza:

TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE

II SEZIONE CIVILE

Il Presidente,

vista l’istanza dell’avv. G., quale difensore di S. C., per la liquidazione del compenso professionale a carico dello Stato;

Osserva

  1. L’avv. G. ha presentato istanza volta ad ottenere la liquidazione del compenso per l’attività professionale svolta a favore della parte sig. S. C., ammessa al gratuito patrocinio con delibera del Consiglio dell’ordine degli Avvocati di Firenze del 10.9.14. Nella domanda per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, l’istante aveva premesso di voler iniziare una causa di usucapione avanti al Tribunale di Firenze, specificando che la richiesta riguardava anche la procedura di mediazione obbligatoria, con riferimento allecompetenze legali del procedimento di mediazione. Nella richiesta di liquidazione, l’istante specifica che la mediazione ha avuto esito positivo e si è conclusa con accordo; chiede pertanto che siano liquidate le spese con riferimento alle attività svolte con riferimento alla fase di mediazione obbligatoria pre-processuale, prodromica alla domanda di usucapione.
  2. La questione che si pone è se il compenso professionale dell’avvocato che ha assistito una parte nella procedura di mediazione, prevista quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale[1], possa essere posto a carico dello Stato. Va premesso che la questione non è espressamente affrontata nella disciplina in materia di mediazione. L’art. 17 dl Dlg. 28/2010, al comma 5-bis, infatti, prevede che quando la mediazione è condizione di procedibilità della domanda ai sensi dell’art. 5, comma 1 bis ovvero è disposta dal giudice ai sensi dell’art. 5 comma 2, all’organismo non sia dovuta nessuna indennità dalla parte che si trovi nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello stato ai sensi dell’art. 76 del t.u. sulle spese di giustizia (D.p.r. n. 115/2002). A tal fine la parte è tenuta a depositare presso l’organismo una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, nonché a produrre la documentazione necessaria a comprovare la veridicità di quanto dichiarato. L’unica previsione riguarda dunque l’indennità che sarebbe dovuta all’Organismo; per quanto concerne il compenso all’avvocato, che deve obbligatoriamente assistere le parti nelle fasi di mediazione (art. 5 e 8 d.lgs. n. 28/2010), si rileva invece una lacuna che deve essere colmata in via interpretativa.
  3.  Il quadro normativo da esaminare non può che partire dall’art. 24 Cost.: dopo aver previsto, al primo comma, il diritto di agire a difesa dei propri diritti e interessi legittimi, si afferma, al secondo comma, che “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Il terzo comma prevede inoltre che “sono assicurati ai non abbienti con appositi istituiti, i mezzi per agire e difendersi avanti ad ogni giurisdizione.” Sul piano della legge ordinaria, l’art. 74 del D.p.r. 115/2002 prevede l’istituzione del patrocinio per il non abbiente, assicurato per il processo penale, nonché per il processo civile, amministrativo, contabile, tributario e per gli affari di volontaria giurisdizione quando le sue ragioni non risultino manifestamente infondate. L’articolo 75 del DPR. n.115/2002 (Ambito di applicabilità) prevede al primo comma: <<1. L’ammissione al patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse>>. Secondo l’orientamento tradizionale, poiché le norme fanno riferimento al processo, si ritiene impossibile far rientrare nel gratuito patrocinio l’attività stragiudiziale: se anche vi fosse l’ammissione da parte del Consiglio dell’ordine, non sarebbe comunque possibile la liquidazione a spese dello Stato. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24723 del 23.11.2011, ha riaffermato che il patrocinio a spese dello Stato riguarda esclusivamente la difesa in giudizio non potendo coprire l’attività stragiudiziale[2]. Con la pronuncia, tuttavia, la Corte, richiamando un proprio precedente, fa salva una nozione estesa di attività giudiziale perché afferma che “devono considerarsi giudiziali anche quelle attività stragiudiziali che, essendo strettamente dipendenti dal mandato alla difesa, vanno considerate strumentali o complementari alle prestazioni giudiziali, cioè di quelle attività che siano svolte in esecuzione di un mandato alle liti conferito per la rappresentanza e la difesa in giudizio”(sulla base di tale presupposto, nella precedente decisione, era stato riconosciuto dovuto il compenso per l’assistenza e l’attività svolta dal difensore per la transazione della controversia instaurata dal medesimo). Anche di recente, la pronuncia della S.C. del 19 aprile 2013, n. 9529 riconferma l’orientamento ricordato: l’attività professionale di natura stragiudiziale che l’avvocato si trovi a svolgere nell’interesse del proprio assistito, non è ammessa, di regola, al patrocinio a spese dello Stato ai sensi dell’art. 85 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, in quanto esplicantesi fuori del processo, per cui il relativo compenso si pone a carico del cliente. Tuttavia, se tale attività venga espletata in vista di una successiva azione giudiziaria, essa è ricompresa nell’azione stessa ai fini della liquidazione a carico dello Stato ed il professionista non può chiederne il compenso al cliente ammesso al patrocinio gratuito, incorrendo altrimenti in responsabilità disciplinare. Dal principio affermato dalla S.C., si desume dunque che l’avvocato, il quale non può chiedere il compenso al cliente pena la sanzione disciplinare, deve poterlo chiedere allo Stato.
  1. La cauta apertura della S.C. può agevolmente essere valorizzata e coordinata con la disciplina della mediazione obbligatoria introdotta dal d.lgs. n. 28/2010 perché, nei casi in cui il procedimento giudiziario (rispetto al quale la mediazione costituisce condizione di procedibilità) inizi o prosegua, l’attività dell’avvocato ben integra la nozione lata di attività giudiziale accolta dalla Corte, ossia di attività strumentale alla prestazione giudiziale e svolta in esecuzione di un mandato alle liti conferito per la rappresentazione e difesa in giudizio.
  2. Più problematico sembra il caso in cui la mediazione abbia avuto esito positivo: in tal caso, secondo alcuni, non avrebbe svolgimento nessuna ‘fase processuale’ nell’ambito della quale liquidare il compenso e non sarebbe possibile considerare il compenso per il difensore che ha assistito la parte in mediazione a carico dello Stato. Un tale risultato pare paradossale dal momento che la liquidazione a spese dello Stato non troverebbe applicazione proprio quando il difensore ha svolto al meglio le sue prestazioni professionali, favorendo il raggiungimento dell’accordo in mediazione. E ciò anche se la mediazione è obbligatoria, come obbligatoria è l’assistenza dell’avvocato (art. 5, comma 1 bis e art. 8 d.lgs. n.28/2010). Ne deriverebbe un risultato irragionevole e “di fatto” una sorta di disincentivo rispetto ad un istituto che invece il legislatore sta cercando di promuovere in vario modo (in tale ottica si colloca anche la stessa previsione dell’obbligatorietà rispetto all’inizio del processo per un periodo limitato: art. 5, comma 1 bis, d.lgs 28/2010).
  1. Il tema è certo delicato, anche perché liquidare a carico dello Stato un compenso non previsto da alcuna norma esporrebbe il giudice al rischio della responsabilità contabile. Si è rilevato anche che nel verbale di conciliazione le parti e rispettivi difensori possono disciplinare l’aspetto del compenso per i legali e inoltre questi potranno avvalersi della regola della solidarietà, ribadita dall’art. 13, comma 8 della nuova legge forense (n. 247/2012). Il problema tuttavia è duplice: sicuramente vi è l’esigenza di riconoscimento e remunerazione dell’attività difensiva: coloro che accennano alla solidarietà intendono rassicurare sulla esigibilità del credito professionale, se non dalla parte non abbiente, almeno dall’altra parte grazie al vincolo della solidarietà. Tuttavia, in tal modo si finisce pur sempre di riversare sui privati (il difensore o la parte abbiente) un onere che dovrebbe essere sostenuto dallo Stato. Se infatti quest’ultimo mostra, con una serie di interventi, un chiaro favore verso forme non giurisdizionali di tutela nell’intento di offrire più vie di soluzione dei conflitti (dalla disciplina della mediazione a quella su arbitrato e negoziazione assistita di cui al recente d.l. n. 132/2014), anche la disciplina dell’aiuto ai non abbienti non dovrebbe più essere limitata all’aiuto nella sede giudiziaria.
  2. Occorre allora valutare il movimento europeo di vasto respiro in cui si inscrivono gli interventi ricordati (al di là della loro concreta disciplina) e approfondire l’esegesi delle norme che vengono in campo per verificare la possibilità, già in base alla legislazione esistente, che la parte non abbiente possa usufruire dell’aiuto statale anche quando alla mediazione, dato l’esito positivo, non faccia seguito il processo. Occorre dunque tentare di ricostruire il sistema alla luce della normativa in tema di mediazione, della Costituzione e delle fonti europee. Un’interpretazione sistematica e teleologica delle norme richiamate induce il Giudice a ritenere che l’art. 75 sopra citato comprenda sempre la fase della mediazione obbligatoria pre-processuale. Tale conclusione (che vale anche per la mediazione demandata dal giudice ex art. 5, comma 2 d.lgs. n. 28/2010) è sostenuta dalle seguenti considerazioni.
  3. Innanzitutto la conclusione accolta trova elementi di sostegno nell’ambito del diritto eurounitario (a partire dall’art. 47 della c.d. Carta di Nizza, secondo cui <<a coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello stato qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia>>) e della disciplina con cui l’Italia ha recepito la direttiva europea sul Legal aid, volta a migliorare l’accesso alla giustizia nelle controversie frontaliere civili (Direttiva 2002/8/CE del Consiglio del 27/1/2003). L’art. 3 di tale direttiva recita: Art. 3. “Diritto al patrocinio a spese dello Stato. 1. La persona fisica, che sia parte in una controversia ai sensi della presente direttiva, ha diritto a un patrocinio adeguato a spese dello Stato che le garantisca un accesso effettivo alla giustizia in conformità delle condizioni stabilite dalla presente direttiva. 2. Il patrocinio a spese dello Stato è considerato adeguato se garantisce: a) la consulenza legale nella fase precontenziosa al fine di giungere a una soluzione prima di intentare un’azione legale; b) l’assistenza legale e la rappresentanza in sede di giudizio, nonché l’esonero totale o parziale dalle spese processuali, comprese le spese previste all’articolo 7 e gli onorari delle persone incaricate dal giudice di compiere atti durante il procedimento.” La direttiva estende il “legal aid” alle procedure stragiudiziali (art. 10)[3]. Il d.lgs. 27.5.2005, n. 116, che ha recepito la direttiva, prevede all’art. 10 che <<Il patrocinio è, altresì, esteso ai procedimenti stragiudiziali, alle condizioni previste dal presente decreto, qualora l’uso di tali mezzi sia previsto come obbligatorio dalla legge ovvero qualora il giudice vi abbia rinviato le parti in causa>>. Si tratta di disposizioni che concernono le controversie transfrontaliere, ma che offrono elementi ulteriori per avvalorare l’interpretazione qui accolta che estende l’aiuto legale alla fase pre-processuale, apparendo del tutto irrazionale e non conforme all’art. 3 della costituzione che il cittadino possa usufruire dell’aiuto statale per la lite transfrontaliera e non per quella domestica. E’ significativo che il Consiglio Nazionale Forense, nella circo<lare n. 25 del 6.12.2013, abbia espressamente richiamato la direttiva sul “Legal Aid” che ammette al beneficio anche le spese legali sostenute nel corso delle procedure stragiudiziali per sostenere che l’assistenza dei legali, obbligatoria per la mediazione preprocessuale e quella demandata dal giudice, debba rientrare nel patrocinio a spese dello stato.
  1. Un ulteriore elemento, rispetto a quanto osservato, può essere tratto dalla riflessione sulla c. d.giurisdizione condizionata, che ricorre quando il legislatore impone alle parti di compiere una data attività prima di rivolgersi ai giudici, come appunto avviene con l’imposizione del tentativo preventivo di mediazione ex art. 5, comma 1 bis cit.. Il condizionamento della giurisdizione può ritenersi ammissibile in quanto non comprometta l’esperimento dell’azione giudiziaria che può essere ragionevolmente limitato, quanto all’immediatezza, se vengano imposti oneri finalizzati a salvaguardare <<interessi generali>>: la sentenza della Corte Cost. n. 276/2000 in tema di tentativo obbligatorio di conciliazione per le cause di lavoro[4], ha affermato che il tentativo in questione soddisfaceva l’interesse generale sotto due profili: da un lato, perché evitava il sovraccarico dell’apparato giudiziario, dall’altro, perché favoriva la composizione preventiva della lite che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quello conseguito attraverso il processo. In sintonia con la nostra Corte costituzionale, anche l’importante decisione della Corte Giustizia eu 18.3.2010, Alassini c. Telecom (che indica le condizioni per ritenere conforme al diritto comunitario il tentativo obbligatorio di conciliazione, nella specie in tema di telecomunicazioni), afferma, tra l’altro, che <<i diritti fondamentali non si configurano come prerogative assolute, ma possono soggiacere a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato ed inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti>> (cfr. par. 63 della sentenza). Sulla base di queste considerazioni, deve reputarsi che la connessione tra fase mediativa e processo, talmente forte da configurare una condizione di procedibilità, vada riconosciuta già in astratto. Non appare rilevante dunque che poi, in concreto, in base cioè al concreto risultato della mediazione, il processo non abbia più luogo perché divenuto inutile alla luce dell’accordo raggiunto. Questo è proprio lo scopo della connessione voluta dal legislatore, connessione che non è eliminata ma anzi esaltata proprio nel momento in cui il raggiungimento dell’accordo in mediazione rende inutile il successivo processo, assicurando quell’ interesse generale di cui parla Corte cost. n. 276/2000 citata. Il senso della connessione non sta nel fatto che la mediazione sia un antecedente cronologico delle fasi processuali, ma nella funzione della mediazione: questo sistema offre alle parti di ricercare una soluzione più adeguata al loro conflitto rispetto alla rigidità della decisione giurisdizionale; inoltre, gli accordi risultanti dalla mediazione hanno maggiori probabilità di essere rispettati volontariamente e preservano più facilmente una relazione amichevole e sostenibile tra le parti.[5] Molteplici sono gli interessi che possono essere soddisfatti, se le parti riescono a riprendere le fila del proprio conflitto: in tutti i casi in cui questo avvenga e si concluda un accordo, la mediazione – obbligatoria – esaurisce la sua funzione rispetto al processo, che è quella di renderlo superfluo. Si tratta del massimo della connessione perché lo scopo della previsione della condizione di procedibilità non può che essere quello di un richiamo alle potenzialità dell’autonomia privata, rimesse in gioco nella sede mediativa, per evitare il procedimento giudiziario quando non sia davvero necessario. In definitiva, la mediazione (obbligatoria) è sempre connessa e funzionale alla fase processuale anche se poi questa in concreto non abbia luogo. Del resto, una parte della dottrina era giunta addirittura a ravvisare la natura paragiurisdizionale della fase di mediazione, rilevando come l’obbligatorietà della mediazione comportasse il suo inserimento in un unico macro-procedimento finalizzato alla tutela dei diritti (disponibili). Ed è interessante richiamare un’affermazione della Corte costituzionale, sia pure in un obiter dictum, nell’ambito di una pronuncia relativa all’impugnazione di una legge regionale veneta: la Corte ha avuto modo di affermare che il procedimento di mediazione obbligatoria previsto dal d.lgs. n. 28/2010, ”rientra nell’esercizio della funzione giudiziaria e nella sfera del diritto civile, giacché, con riferimento al caso di specie, condiziona l’esercizio del diritto di azione finalizzato al risarcimento dei danni da responsabilità civile e prevede ricadute negative per chi irragionevolmente abbia voluto instaurare un contenzioso davanti al giudice, nonostante fosse stata formulata una proposta conciliativa rivelatasi successivamente satisfattiva delle proprie ragioni”.[6] Pur ritenendo improprio qualificare tout court la mediazione come attività para-giurisdizionale o giudiziaria, è tuttavia corretto porre in risalto – anche – la sua stretta relazione con il processo, quando sia prevista come obbligatoria.
  1. In definitiva, un’interpretazione sistematica teleologica delle norme richiamate induce il Giudice a ritenere che l’art. 75 cit., secondo cui l’ammissione al patrocinio è valida per ogni grado e per ogni fase del processo e per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse, comprenda la fase della mediazione obbligatoria pre-processuale anche quando la mediazione, per il suo esito positivo, non sia seguita dal processo. Si tratta infatti di una procedura strettamente connessa al processo, dal momento che condiziona la possibilità avviarlo (o proseguirlo, per la mediazione demandata dal giudice); d’altronde nel caso di successo della mediazione, si realizza il risultato migliore non solo per le parti, ma anche per lo stato che non deve sostenere anche le spese del giudizio. Tale conclusione inoltre è conforme alla direttiva europea sul “Legal Aid” ed è costituzionalmente orientata (art. 3 Cost.), perché sarebbe irragionevole prevedere il sostegno dello stato per i casi di mediazione non conclusa con accordo e seguita da processo e negarla per i casi di mediazione, condizione di procedibilità, non seguita dal processo per l’esito positivo raggiunto. Così come sarebbe illogico riconoscere il gratuito patrocinio per le procedure “derivative e accidentali” e non per quelle non accidentali ma strutturalmente collegate al processo. Da ultimo, può essere utile ricordare il tentativo della dottrina di rileggere la condizione di procedibilità (preventiva o successiva) non solo nell’ambito della giurisdizione condizionata, ma anche in una prospettiva di maggiore equilibrio tra giurisdizione e mediazione (art. 1, Dir. 2008/52). In tale prospettiva, la mediazione viene considerata strumento per favorire lo sviluppo della personalità del singolo nella comunità cui appartiene, consentendogli di confrontarsi in un contesto relazionale propiziatorio per una soluzione amichevole. Accanto al diritto alla tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost., diritto inviolabile della persona (ex art. 2 Cost.), andrebbe riconosciuto il diritto alla mediazione, non solo nell’ambito, tradizionalmente indicato, dell’accesso alla giustizia, ma anche quale espressione diretta dell’esigenza di sviluppo della persona nelle relazioni interpersonali e comunitarie, nell’attuazione del complementare principio di solidarietà. Una tale visione, che ha il pregio di porre in luce l’importanza della mediazione come strumento di pacificazione sociale condivisa e non imposta, fonda il diritto alla mediazione sull’art. 2 cost.: anche tale richiamo può corroborare l’interpretazione qui accolta.
  1. La conclusione raggiunta appare dunque l’unica conforme ai parametri costituzionali (artt. 2, 3 e 24 cost.) e adeguata al mutamento in corso dei sistemi di soluzioni delle liti: ancorare l’aiuto dello Stato solo al patrocinio in giudizio è frutto di una visione superata nella quale esclusivamente la giurisdizione statale era fonte di giustizia. Da molti anni le fonti europee ribadiscono che l’accesso alla giustizia non si riduce al “diritto a un tribunale’’ ma include l’accesso a procedimenti non giurisdizionali di risoluzione delle controversie che, in una prospettiva di ‘’giustizia plurale”, si pongono in rapporto di complementarietà rispetto alla giustizia giurisdizionale[7]. Se oggi la tutela dei diritti non è affidata solo alle procedure giudiziarie, perché il legislatore introduce differenti metodi (da ultimo si veda il d.l. n. 132/2014 a proposito di negoziazione assistita e arbitrato), diviene un intervento indispensabile, sul piano della coerenza, ampliare l’aiuto da parte dello Stato dall’aiuto giudiziario all’aiuto giuridico, per chi ha bisogno di avere informazioni o consulenza legale o assistenza, in margine e al di fuori del processo (come nella maggior parte dei paesi europei). Il sistema del “gratuito patrocinio” dovrà essere ripensato da chi detiene il potere legislativo alla luce della disciplina di origine comunitaria e dovranno essere riconsiderati i casi di mediazione facoltativa o di negoziazione assistita[8]; per i casi di mediazione obbligatoria, quale quello in esame, esistono comunque spazi di interpretazione da sfruttare: il giurista ha il potere/dovere di conformare l’interpretazione delle norme esistenti alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento per sopperire lacune o adeguare le norme alle nuove condizioni storico-sociali. In tale prospettiva, la garanzia costituzionale del diritto di difesa inviolabile “in ogni stato e grado” (art. 24 cost.), per essere effettiva, deve contemplare anche la fase che, pur concernendo di per sé attività non giurisdizionale per la soluzione dei conflitti, è così innestata nella giurisdizione da condizionarne le vicende: “in ogni stato’’ è dunque espressione che ricomprende lo stato pre-processuale o endo-processuale che in modo obbligatorio deve essere attraversato dalle parti perché la giurisdizione possa regolarmente svolgersi. Per assicurare “ai non abbienti …. i mezzi per agire e difendersi avanti ad ogni giurisdizione”, è indispensabile riconoscere a carico dello stato anche il compenso del legale nella fase mediativa che condiziona necessariamente l’avvio del processo o la sua prosecuzione. Tale interpretazione, che si ritiene costituzionalmente orientata, si riconnette anche all’esigenza che la mediazione sia effettiva e offra alle parti una reale chance di soluzione del loro conflitto[9]: l’esclusione del riconoscimento delle spese per il compenso di avvocato solo per i casi di mediazione non conclusa da accordo si presterebbe invece a concepire la fase mediativa come una fase da attraversare necessariamente, ma solo formalmente, per approdare al più presto al processo, nell’ambito del quale anche le spese stragiudiziali potranno essere riconosciute. Sarebbe una conclusione che sminuirebbe la funzione della mediazione, ma anche della giurisdizione, che, invece, proprio per la sua natura sussidiaria, deve potersi esplicare pienamente ed efficacemente quando è richiesto lo ius dicere, anziché essere strumentalizzata per altri obiettivi. L’interpretazione adottata è inoltre l’unica che riconosce la delicata funzione di assistenza dell’avvocato della parte in mediazione, funzione che comporta un mutamento culturale epocale per l’avvocatura rispetto ai ruoli tradizionali confinati al campo giudiziario e che deve essere adeguatamente valorizzata. A questo riguardo, va ricordato che proprio dal ceto forense a livello europeo proviene l’importante raccomandazione sul Legal Aid, adottata dal CCBE (Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa) nel novembre 2010, al fine di promuovere il diritto all’accesso alla giustizia anche per le persone prive di mezzi. Tra le azioni raccomandate si specifica quella di <<garantire il legal aid per tutte le aree legali-giurisdizionali, risoluzione alternativa delle controversie, compresa l’assistenza di un avvocato in tutte le fasi del procedimento>>[10].
  1. Non è fuor di luogo rilevare che, se dalle novità introdotte dal d.l. n. 69/2013 (tra cui l’assistenza obbligatoria del difensore e la re-introduzione della mediazione obbligatoria) non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (c.d. clausola di invarianza finanziaria: art. 85, comma 4, d. l. n.69/2013), l’interpretazione qui proposta appare del tutto rispondente a tale scopo: si tratta infatti di riconoscere il compenso del legale che ha assistito la parte in mediazione con esito positivo e dunque con risparmio per lo Stato rispetto alla fase processuale.
  1. Nel caso in esame la domanda è stata presentata al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Firenze ex art. 124 tu. n.115/2002 (art. 124, comma 2: Il consiglio dell’ordine competente è quello del luogo in cui ha sede il magistrato davanti al quale pende il processo, ovvero, se il processo non pende, quello del luogo in cui ha sede il magistrato competente a conoscere del merito), mentre l’autorità competente per la liquidazione è agevolmente individuabile nel Tribunale – che sarebbe stato – competente per il giudizio a cui l’istanza era stata preordinata (art. 83, comma 2 DPR. n.115/2002). Il Consiglio con delibera del 10.9.2014 ha ammesso l’istante al gratuito patrocinio e non risultano comunicate variazioni dei limiti di reddito. L’avv. G. ha chiesto il compenso per l’assistenza dinanzi al mediatore, nonché per l’attività propedeutica e cioè lo studio della pratica con l’esame della documentazione consegnata al cliente, sessioni con il tecnico dello stesso e con il cliente e la predisposizione della domanda di gratuito patrocinio (attività che possono essere riconosciute: si veda al riguardo Corte Cass. 23.11.2011, n. 24729, secondo cui “il condizionare gli effetti della delibera dalla data della sua emissione porterebbe a pregiudicare illogicamente i diritti dell’istante”). La liquidazione deve avvenire sulla base dei parametri indicati degli artt. 18, 19, 20 e 21 del D.M. 55/2014 (attività stragiudiziale), considerando il valore medio con riduzione alla metà ai sensi dell’art. 130 D.P.R. n. 115/02. Considerando la natura dell’impegno professionale profuso da quanto emerge dalla documentazione allegata, appare congruo liquidare all’Avv. G. in relazione all’attività espletata la somma di euro 4.320,00 per compensi (scaglione da euro 52.000,01 a 260.000,00 in base al valore desumibile dall’accordo di mediazione), ridotti ad euro 2.160,00 ex art. 130 cit., oltre alle spese generali pari al 7%, oltre IVA e CAP.

P.Q.M.

CONFERMA in via definitiva l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato di S. C. nel procedimento suindicato;

LIQUIDA in favore dell’Avv. G. per l’attività espletata in favore di S. C. nella procedura sopra indicata, euro 2.160,00 per compensi, oltre alle spese generali nella misura del 7%, oltre IVA e CAP;

MANDA alla Cancelleria per le comunicazioni.

Firenze, 13 gennaio 2015.

Il Presidente

Luciana Breggia

[1] Si ritiene che la domanda di usucapione rientri nell’ambito dell’art. 5, comma 1 bis d.lgs. n.28/2010, specie dopo il d.l. n. 69/2013 che ha aggiunto il comma 12 bis all’art. 2643 cc (in giurisprudenza. già in precedenza, v. Trib. Palermo, ord. sez. distaccata Bagheria, 30.12.2011; Trib. Como, sez. distaccata Cantù, ord. 2.2.2012).

[2] Il caso riguardava il ricorso contro una decisione della Corte di appello di Torino che, con provvedimento del 13 luglio 2006, aveva respinto il reclamo proposto dall’avv. E.C. F. contro il decreto con cui il Tribunale di Torino aveva dichiarato inammissibile la domanda di liquidazione delle competenze per l’attività stragiudiziale dal medesimo svolta quale difensore di una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato. L’istanza era stata respinta sul rilievo che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, il patrocinio a spese dello Stato è previsto per l’attività giudiziale e non pure per quella stragiudiziale.

[3] Secondo l’art. 10, <<Il patrocinio a spese dello stato è altresì esteso ai procedimenti stragiudiziali, alle condizioni previste dalla presente direttiva, qualora l’uso di tali mezzi sia richiesto dalla legge ovvero quando il giudice vi abbia rinviato le parti in causa>>.

[4] Tentativo previsto dall’art. 410 c.p.c., poi abrogato e, infine, in parte nuovamente istituito.

[5] Dir. 2008/52, considerando 6.

[6] Corte cost. .n. 178 del 2010.

[7] Già prima della Direttiva n. 52/2008 in tema di mediazione civile e commerciale, il Consiglio europeo aveva invitato gli Stati membri a istituire procedure extragiudiziali e alternative al fine di agevolare un miglior accesso alla giustizia: nei “considerando” della dir. 2008/52, si ricordano le varie tappe del percorso, dalla riunione di Tampère dell’ottobre 1999 al Libro verde del 2000.

[8] Secondo lart. 6, comma 2, del d.lgs. n. 116/2005 il patrocinio a spese dello Stato garantisce anche <<la consulenza legale nella fase conciliativa pre-contenziosa al fine di giungere a una soluzione prima di intentare un’azione legale>>: in tale previsione sembra rientrare la mediazione facoltativa e anche la negoziazione assistita. Per quest’ultima, tuttavia, l’art. 3 d.l. 132/2014 si limita a stabilire che <<quando il procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della domanda, all’avvocato non è dovuto compenso dalla parte che si trova nelle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello stato>>: la norma appare tuttavia di dubbia costituzionalità, tenuto conto del carattere obbligatorio della procedura.

[9] Si fa riferimento all’orientamento dei giudici di merito secondo cui per la mediazione obbligatoria iussu iudicis il tentativo deve essere effettivo: si veda, di questo giudice, l’ordinanza 19.3.20104, in www.mediamo.it; sempre del Tribunale di Firenze, sez. imprese, ord. 17.3.2014 e ord. 18.3.2014, in www.ilcaso.it; Trib. Roma, ord. 30.6.2014, in www.101mediatori.it; Trib. Bologna, ord. 5.6.2014, in www.adrmaremma.it; Trib. Rimini, ord. 16.7.2014, in www.mondoadr.it; Trib. Palermo, ord. 16.7.2014, in www.osservatoriomediazione.it. Per la mediazione obbligatoria ex lege, da ultimo, si veda, di questo giudice, l’ordinanza 26.11.2014, rg. 6277/2014.

[10] Il CCBE raccomanda inoltre di <<impostare una linea di bilancio specifica>> per garantire lo sviluppo degli aiuti europei. Il testo della raccomandazione è reperibile nel sito www.ccbe.eu.

sentenze mediazione civile

Tribunale di Roma, ordinanza 16 dicembre 2014

Il Tribunale di Roma, con l’ordinanza in commento, torna a d esprimersi sulla vexata quaestio del rapporto tra consulenza tecnica preventiva ex art. 696 – bis c.p.c. e tentativo di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010.

Inoltre, nella pronuncia in esame, il giudice formula comunque una proposta conciliativa, in applicazione dell’art. 185 – bis c.p.c., pur non trattandosi, come meglio si evidenzierà oltre, di un’ipotesi di mediazione delegata ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.

Occorre procedere con ordine.

Il caso di specie può considerarsi paradigmatico.

Nell’ambito di una controversia relativa a responsabilità medica (danna da omessa diagnosi di carcinoma mammario), infatti, da un lato il convenuto, costituitosi in giudizio, ha eccepito l’improcedibilità della domanda in forza del mancato esperimento del tentativo di mediazione; dall’altro, l’attore ha ritenuto detta eccezione priva di fondamento dal momento che risultava già utilizzato, con esito negativo, lo strumento della consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite di cui all’art. 696 – bis c.p.c., a tenore del quale, come è noto, “L’espletamento di una consulenza tecnica, in via preventiva, può essere richiesto anche al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell’articolo 696, ai fini dell’accertamento e della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla mancata inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito. Il giudice procede a norma del terzo comma del medesimo articolo 696. Il consulente, prima di provvedere al deposito della relazione, tenta, ove possibile, la conciliazione delle parti.
Se le parti si sono conciliate, si forma processo verbale della conciliazione.
Il giudice attribuisce con decreto efficacia di titolo esecutivo al processo verbale, ai fini dell’espropriazione e dell’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.

Il processo verbale è esente dall’imposta di registro.

Se la conciliazione non riesce, ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito.

Si applicano gli articoli da 191 a 197, in quanto compatibili”.

Ora, la riforma della mediazione civile operata nel 2013, modificando l’art 5, co. 4, D.lgs 28/2010, ha provveduto ad includere nell’elenco dei procedimenti esclusi dall’obbligatorietà della mediazione ante causam la consulenza tecnica finalizzata alla conciliazione di cui sopra, con ciò risolvendo, sul piano del diritto positivo, un contrasto che in precedenza era emerso in giurisprudenza.

Peraltro occorre rilevare che il legislatore, sul punto, non ha fatto altro che aderire a quello che era l’orientamento già prevalente tanto in dottrina quanto in giurisprudenza[1], del resto agevolmente spiegabile sul piano della logica interpretativa, ove si consideri sia la finalità almeno in parte comune che la consulenza di cui all’art. 696 – bis c.p.c. presenta rispetto alla mediazione civile, sia, soprattutto, la sua indubitabile natura di mezzo di istruzione preventiva, vale a dire intrinsecamente cautelare.

Nell’ordinanza in commento, posta l’”alternatività” degli strumenti in parola, si perviene alla conclusione – condivisibile ad avviso di chi scrive – per la quale “…una volta esperito l’accertamento tecnico preventivo anche per la conciliazione della lite non sarebbe necessario instaurare la procedura di mediazione nemmeno nelle materie per le quali ne è prevista l’obbligatorietà ai fini della procedibilità dell’azione di merito”.

Al netto delle valutazioni che precedono, però, analizzando la normativa vigente, il Tribunale osserva come non risulti possibile estendere al giudizio di merito la summenzionata esclusione.

Ciò, secondo il Giudice, non soltanto per il fatto che la mediazione è esclusa dalla legge, in tema di consulenza tecnica preventiva ex art. 696 – bis c.p.c., da una disposizione, quale l’art. 5, co. 4, D.lgs 28/2010 che presenta oggettivamente tutti i caratteri propri della tassatività, ma anche e soprattutto sulla base del fatto che “…il rischio di duplicazione di una attività conciliativa in contrasto con i principi di ragionevole durata del procedimento si paleserebbe recessivo rispetto all’evidente e più grave elusione della condizione di procedibilità di cui all’art. 5, comma 1 – bis, Dlgs 28/2010”.

In conclusione, quindi, essendo stata proposta la domanda giudiziale senza il previo esperimento della mediazione, riguardando la causa una delle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010, secondo il giudice va accolta l’eccezione di improcedibilità fatta valere dalla parte convenuta.

Contestualmente, però, il giudice formula una proposta ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., prevedendo peraltro che, ove non pervengano ad una accordo conciliativo, le parti rendano esplicite le proprie ragioni, naturalmente con esclusivo riferimento alla proposta giudiziale.

Si tratta di un’opzione che si fonda, evidentemente, sull’assunto per cui la proposta giudiziale ex art. 185 – bis sia cumulabile con la mediazione indipendentemente dalla circostanza che quest’ultima sia delegata dal giudice, ai sensi del secondo comma dell’art 5 del D.lgs 28/2010, quindi in base ad una valutazione da parte del giudice circa la “mediabilità” della lite[2], ovvero che essa sia disposta dal giudice in conseguenza del fatto che le parti, tenute ad esperirla ex lege, in effetti abbiano omesso di operare in tal senso, rendendo la domanda improcedibile.

Dunque, riassumendo:

La domanda giudiziale relativa ad una controversia rientrante nelle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010 è improcedibile, per omessa mediazione, anche nell’ipotesi in cui sia stata precedentemente intrapresa, con esito negativo, la strada prevista dall’art. 696 – bis c.p.c.

L’esclusione dell’esperimento della mediazione rispetto all’istanza di consulenza tecnica preventiva finalizzata alla conciliazione della causa deve essere interpretata restrittivamente, non potendosi, quindi, estendere al giudizio di merito, per il quale, come appena ricordato, devono applicarsi le regole previste in generale dalla legge sulla mediazione.

Il fatto che la domanda venga dichiarata improcedibile e che, per l’effetto, le parti vengano inviate in mediazione ai sensi dell’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010 non impedisce affatto al Tribunale di formulare contestualmente una proposta, transattiva o conciliativa, ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., data la cumulabilità, ormai pacifica in giurisprudenza, tra detta proposta giudiziale ed il tentativo di conciliazione da esperire presso un organismo territorialmente competente.

[1] Cfr., ex multis, per la chiarezza e l’esaustività dell’apparato motivazionale, Trib. Varese, sez. I, decr. 24 luglio 2012, in cui si afferma che “…l’ambito dell’articolo 696-bis Cpc è escluso dall’obbligatorietà della mediazione sancita dall’articolo 5 comma I d.lgs. 28/2010 per almeno tre diverse ragioni. In primo luogo, l’istituto, almeno secondo l’indirizzo delle Sezioni Unite civili della Cassazione, conserva natura “cautelare formale” e trova quindi applicazione l’esclusione ex lege prevista dall’articolo 5, comma terzo, del decreto. Inoltre, in adesione ai puntuali rilievi della dottrina, l’istituto disciplinato dall’articolo 696 bis Cpc non introduce, a norma dell’articolo 2 del decreto legislativo 28/2010, «una controversia in materia di diritti disponibili» e, dunque, non trova applicazione l’articolo 5, comma 1, del medesimo decreto (mediazione obbligatoria) in ragione dell’articolo 2, comma 1, del decreto («chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili»). In ogni caso, la consulenza tecnica preventiva, pur non avendo “sostanziale” carattere cautelare, conserva una relazione di accessorietà rispetto all’eventuale futuro giudizio di merito, posto che se la conciliazione non riesce, «ciascuna delle parti può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito» (articolo 696-bis, comma quinto, Cpc). Incidendo, pertanto, sui tempi di definizione dell’eventuale futuro giudizio di merito, se ne deve quantomeno riconoscere il carattere “urgente”, in adesione alla collocazione formale dell’istituto nell’ambito dei procedimenti di istruzione preventiva, pur là dove non si voglia attibuire alla Ctu preventiva la natura “cautelare formale”, proposta dalle Sezioni unite civili. Ne discende l’esclusione dell’articolo 5, comma 1, d.lgs. 28/2010 in ragione della deroga di cui al successivo terzo comma della medesima disposizione. Sul piano squisitamente logico-giuridico, non può poi, comunque, non segnalarsi l’aporia del “mediare per chiedere di mediare” posto che con il ricorso ex articolo 696-bis Cpc la parte non chiede la distribuzione di torti e ragioni ma di sperimentare un tentativo di risoluzione della lite con modalità alternative”.

[2] Va rilevato come, finora, la proposta ex art. 185 – bis c.p.c. è stata più volte cumulata con la mediazione demandata dal giudice ai sensi dell’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010. Può considerarsi paradigmatica, in tal senso, l’ordinanza 24 ottobre 2013 del Trib. Di Roma, XIII sez., “capostipite” di molti altri provvedimenti analoghi, nella quale  il giudice capitolino, formulata la proposta e assegnato un congruo termine per la valutazione della medesima, dispone che “…dalla eventuale infruttuosa scadenza del suddetto termine, decorrerà quello ulteriore di gg. 15 per depositare presso un organismo di mediazione, a scelta delle parti congiuntamente o di quella che per prima vi proceda, la domanda di cui al secondo comma dell’art. 5 del decreto; con il vantaggio di poter pervenire rapidamente ad una conclusione, per tutte le parti vantaggiosa, anche dal punto di vista economico e fiscale della controversia in atto. Viene infine fissata un’udienza alla quale in caso di accordo  le parti potranno anche non comparire; viceversa, in caso di mancato accordo, potranno, volendo, in quella sede fissare a verbale quali siano state le loro posizioni a riguardo (relativamente alla sola proposta del giudice), anche al fine di consentire l’eventuale valutazione giudiziale della condotta processuale delle parti ai fini degli artt. 91 e 96 III° cpc”. In altri casi, la cumulabilità tra i due istituti è stata affermata “in due tempi”, disponendo cioè la mediazione ex art. 5, co. 2, a seguito della mancata accettazione di una delle parti della proposta transattiva o conciliativa formulata dal giudice (cfr., ad es., Tib. Milano, sez. spec. in materia di impresa, ordinanza 11 novembre 2013). Ma sempre di mediazione delegata si trattava, e non di omessa attivazione della mediazione ante causam come nel caso in commento.

La responsabilità del mediatore durante il primo incontro – Salvatore Primiceri

La giurisprudenza più recente ha più volte ricordato come il primo incontro di mediazione debba essere effettivo. Un equivoco di interpretazione a prima lettura delle norme, aveva fatto ritenere che le parti potessero manifestare una sorta di “volontà di adesione” preliminarmente al procedimento di mediazione, evitando così non solo di entrare in mediazione ma anche di pagare le indennità previste in base al valore della controversia.

Tale interpretazione era stata avallata da buona parte degli avvocati di parte, i quali vedevano nel cosiddetto “incontro programmatico” la possibilità di ridurre a mera formalità procedurale il passaggio in mediazione prima di avviare la causa giudiziaria.

Anche numerosi operatori del mondo della mediazione avevano inizialmente accetato tale “linea morbida” in quanto “scottati” dalla sentenza della Consulta del 2012 che aveva bocciato per eccesso di delega la vecchia formulazione del d.lgs 28/2010 sulla mediazione obbligatoria.

I giudici di più tribunali hanno, però, ormai univocamente determinato che il primo incontro deve avere tutte le caratteristiche di una mediazione vera e propria, quindi devono essere presenti le parti e i loro avvocati. Non solo. I giudici indicano che già in sede di primo incontro debba essere svolta ampia discussione sulla controversia e che sia il mediatore, a valutare, al termine della discussione, se sia possibile procedere col tentativo di mediazione. Le parti e i rispettivi avvocati, quindi, non devono manifestare alcuna volontà in merito.

Sulla questione rimando alle ottime analisi giuridiche di Luigi Majoli. Ciò che invece mi preme valutare in questa sede è il ruolo del mediatore nell’indagare la possibilità di procedere con la mediazione, in relazione da un lato alla questione delle indennità, dall’altro alla sua responsabilità morale verso le parti.

La giurisprudenza, infatti, nello specificare le modalità di svolgimento del primo incontro, parla di effettività ma nulla dice intorno alle indennità. In sostanza la scelta di far pagare le indennità alle parti sin dal primo incontro oppure solo nel momento in cui, dopo ampia discussione, il mediatore e le parti abbiano condiviso l’effettiva possibilità che valga la pena proseguire nel tentativo, è lasciata alla discrezionalità e alla valutazione di opportunità degli organismi e dei mediatori stessi.

L’inserimento di una regola in questo senso nei regolamenti degli organismi può non risolvere del tutto la questione. Se è legittimo, quindi, ritenere che “il primo incontro di fatto non esista”, non è detto che non sia opportuno suddividere la mediazione in due momenti.

Infatti il problema attiene maggiormente alla valutazione soggettiva del mediatore più che alla scelta imprenditoriale di un organismo.

Mi spiego meglio. Capita spesso che l’elemento economico (pagare o meno l’indennità) risulti la discriminante che blocca sul nascere una procedura di mediazione. Mi è capitato spesso, infatti, di aver convinto le parti a sedersi al tavolo e discutere del loro problema utilizzando la formula rassicurante “facciamo che proviamo a parlare della questione con serenità ma non vi faccio pagare nulla finché non capiremo insieme tutti i problemi e la loro effettiva possibilità di risoluzione attraverso la mediazione”. A questo aggiungo la rassicurazione sul mio dovere di riservatezza.

Prima di avviarmi su un percorso di questo tipo dovrò aver già svolto una serie di valutazioni tra le quali:

  • Una delle parti, o entrambe, hanno paura solo dell’aspetto economico e di perdere così soldi preziosi in quanto i rapporti sono molto deteriorati o stagnanti da lungo tempo da non far prevedere soluzioni né facili né positive.
  • Le parti possono recuperare una comunicabilità tra loro se poste di fronte e aiutate dal mediatore, ma hanno paura soprattutto perché non hanno disponibilità economiche.
  • Le parti sono persone fisiche lacerate da problemi personali ma lasciano intravedere buona fede. Non si tratta quindi di questioni meramente tecniche che coinvolgono persone giuridiche.
  • La parte invitata non si presenta al primo incontro ma la parte istante (o il mediatore stesso) crede che non si sia presentata per via di una mancata conoscenza della mediazione e dell’eventuale costo, ma che con un po’ di informazione possa cambiare idea.

In casi come questi è opportuno che il mediatore prenda contatti, anche anticipatamente al primo incontro, con la parte che giudica più reticente, solitamente la parte invitata.

Il mediatore spiega o incontra le parti anche singolarmente nei giorni che precedono la mediazione e spiega loro come funziona l’istituto. Fornisce ampie rassicurazioni e ragguagli su tutti i vantaggi della mediazione. Egli rassicura che questi incontri informali sono coperti dal dovere di riservatezza e che nulla gli è dovuto.

Tale procedimento potrà essere recuperato anche in una fase successiva al primo incontro, qualora una parte non si sia presentata. A quel punto è opportuno un rinvio per far sì che il mediatore raccolga tutte le informazioni per capire se la parte abbia avuto impedimenti di tipo formale, quale la paura di pagare subito l’indennità.

Il mediatore esplora e si mette in gioco ma, soprattutto, mette al primo posto la sua “mission” ovvero fare di tutto affinché le parti si incontrino, parlino e, possibilmente, spianino la strada verso un insperato accordo.

La responsabilità del mediatore, nel fare questo è etico-morale. Si tratta di dare massima dignità alla professione. Il mediatore affronta e risolve tali situazioni con spiccate doti di pazienza e capacità comunicativa, le quali si convertiranno in fiducia delle parti nei suoi confronti.

Una volta che le parti confidano il conflitto nelle autorevoli e sapienti mani del mediatore, la soluzione è ormai vicina. A quel punto tutte saranno concordi che la mediazione possa proseguire e che possano scattare anche le indennità.

Il mediatore quindi investe il suo tempo (un primo incontro può durare anche ore) per guadagnarsi fiducia e portare le parti ad un livello di comunicabilità reciproca tale da non riuscirsi più a sottrarre al circolo virtuoso messo in atto dalla mediazione.

Qualcuno potrebbe obiettare che se il primo incontro non andasse a buon fine, il mediatore avrebbe perso così un sacco di tempo e anche soldi. Il mediatore etico-morale, però, non avrà problemi ad accettare la sconfitta, ha adempiuto al meglio il suo dovere, ma guai ad aver lasciato indietro qualcosa di intentato.

La valutazione se far prevalere il criterio di utilità personale (il guadagno nel più breve tempo possibile=chiedo subito indennità) o il criterio etico morale (investo tempo col rischio che tutto si risolva in nulla=faccio pagare solo in un secondo momento quando la mediazione prosegue ormai in modo pacifico) attiene alla valutazione soggettiva del singolo caso che il mediatore si trova di fronte.

Il vero mediatore, quando intravede anche una minima e lontana possibilità che le parti possano provare a risolvere il loro problema con la mediazione, allora non deve tirarsi indietro. Egli deve utilizzare tutte le tecniche di comunicazione apprese nei corsi professionali e attraverso l’esperienza. Egli ha quindi una forte responsabilità.

Il filosofo Jeremy Bentham diceva che bisogna fare ciò che è più utile a noi stessi se questo ci porta alla felicità. Sta a noi, quindi, scegliere se ci rende più felici un guadagno facile ed un accordo non raggiunto piuttosto che un guadagno “posticipato” ma rassicurato dalla piena volontà delle parti e dalla consapevolezza di aver davvero svolto al meglio il proprio lavoro. Il bene delle persone non ha prezzo.

Salvatore Primiceri

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Mediazione-obbligatoria

Tribunale di Firenze, ordinanza 26 novembre 2014

Effettività del tentativo e partecipazione personale delle parti in tutti i casi di mediazione obbligatoria.

Commento:

Il Tribunale di Firenze, con una ordinanza del 26 novembre scorso, ribadisce che la mediazione obbligatoria deve essere “effettiva” e caratterizzata dalla partecipazione personale delle parti.

Ciò conformemente alla giurisprudenza propria di quell’ufficio giudiziario, sviluppatasi a partire dalle ben note ordd. 17 e 19 marzo 2014, ed in seguito costantemente perseguita, orientamento che, peraltro, ha incontrato sempre più ampi spazi di condivisione presso innumerevoli altri Giudici.

La pronuncia in commento appare di particolare interesse in quanto i ricordati principi vengono ribaditi con riferimento alla mediazione ante causam e non alla “delegata”  ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, come invece avvenuto in (quasi) tutti i casi precedentemente riscontrabili.

Nel caso di specie si trattava, infatti, di una controversia in materia di usucapione – quindi assoggettata al regime dell’obbligatorietà della mediazione – approdata alla sede giudiziale, nella quale l’attore aveva allegato il verbale di mancata conciliazione – evidentemente al solo fine della soddisfazione della condizione di procedibilità della domanda – dal quale, però, emergeva che dinanzi al mediatore, in sede di primo incontro, era presente solo un avvocato (con delega da parte del collega che avrebbe poi effettivamente svolto le difese della parte in giudizio).

Si tratta di modalità inconciliabili, secondo l’orientamento “fiorentino” con la logica e con le finalità della mediazione civile.

La giurisprudenza richiamata, come è noto, prese le mosse, nel marzo scorso, da tutta una serie di riflessioni circa la mediazione disposta dal giudice, da intendersi come tentativo effettivamente avviato, nel quale, cioè, le parti, anziché limitarsi ad incontrarsi ed informarsi, per poi non aderire alla proposta del mediatore di procedere, adempiano effettivamente all’ordine del giudice, partecipando alla vera e propria procedura (auspicabilmente) conciliativa, salvo, naturalmente, l’emergere di questioni pregiudiziali (di natura – pertanto – oggettiva) ostative al suo svolgimento.

L’ordinanza 19 marzo 2014 del Giudice fiorentino, in particolare, pur muovendo dalla premessa di una difficile individuazione del confine tra la fase preliminare e la mediazione vera e propria, osservava, con riferimento alla mediazione delegata ex art. 5, co. 2, come “…ritenere che l’ordine del giudice sia osservato quando i difensori si rechino dal mediatore e, ricevuti i suoi chiarimenti su funzione e modalità della mediazione, (…) possano dichiarare il rifiuto di procedere oltre, appare una conclusione irrazionale e inaccettabile”.

D’altra parte, non può esservi dubbio che la natura della mediazione richiede che all’incontro siano presenti (anche e soprattutto le parti): l’istituto, infatti, mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che risulti possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore.

Pertanto, l’ipotesi in cui all’incontro davanti al mediatore compaiono i soli difensori, anche in rappresentanza delle parti, non può considerarsi in alcun modo mediazione, come può desumersi dalla lettura coordinata dell’art. 5, comma 1 – bis, e dell’art. 8, D.lgs 28/2010, che prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento di mediazione con l’assistenza degli avvocati, il che, chiaramente, implica la presenza degli assistiti (personale o a mezzo di delegato, cioè di soggetto comunque diverso dal difensore).

Peraltro, i giudici fiorentini non avevano mancato di rilevare come il fatto che la condizione di procedibilità si consideri avverata con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore appaia poi “…particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare ”la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione” (cfr. ord. 19 marzo 2014, cit.).

Ora, detti principi (effettività del tentativo e partecipazione personale delle parti alla procedura) possono estendersi sic et simpliciter alle ipotesi di cui all’art. 5. co. 1 – bis, vale a dire ai casi, ben più frequenti nella pratica, di mediazione instaurata dalla parte interessata in quanto ex lege condizione di procedibilità della domanda giudiziale?

Secondo i giudici del capoluogo toscano a tale quesito va data risposta affermativa.

Nella ordinanza 26 novembre 2014 si evidenzia, a tale proposito, che certamente nelle ipotesi di mediazione delegata è il giudice a valutare nel caso concreto i margini di “mediabilità” della controversia, mentre nelle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, detta valutazione risulta già operata in astratto dal legislatore, sulla base della tipologia delle controversie. Tale differenza, però, “…non incide minimamente sulla natura della mediazione e quindi non appare rilevante per ritenere che la condizione di procedibilità possa ritenersi assolta con un mero incontro ‘preliminare’ in cui le parti dichiarano la mancanza di volontà di svolgere la mediazione”.

D’altronde, giova ricordare che su cosa debba intendersi per “mediazione” non possono sussistere dubbi, in ragione della definizione fornitaci dall’art. 1, co. 1, lett. a) del medesimo D.lgs 28/2010, secondo cui si tratta della “l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, anche con formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa”.

Secondo il Giudice fiorentino, pertanto, non si vede perchè le stesse considerazioni in ordine alla partecipazione personale delle parti al procedimento e soprattutto alla effettività del tentativo non debbano valere anche (ed a maggior ragione) laddove l’esperimento della mediazione condiziona la procedibilità della domanda giudiziale ab initio.

L’assimilazione in parola, peraltro, era stata già prospettata da tempo, anche se non con diretto riferimento ad un caso di mediazione ante causam, dal medesimo ufficio giudiziario che, nell’ordinanza 17 marzo 2014, già aveva avuto modo di osservare come debba ritenersi che “…le procedure di mediazione ex art. 5, comma 1-bis (ex lege) e comma 2 (su disposizione del giudice) del d.lgs. 28/10 (e succ. mod.), sono da ritenersi ambedue di esperimento obbligatorio, essendo addirittura previsti a pena di improcedibilità dell’azione; che difatti, per espressa volontà del legislatore, il mediatore nel primo incontro chiede alle parti di esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione, vale a dire sulla eventuale sussistenza di impedimenti all’effettivo esperimento della medesima e non sulla volontà delle parti, dal momento che in tale ultimo caso si tratterebbe, nella sostanza, non di mediazione obbligatoria bensì facoltativa e rimessa alla mera volontà delle parti medesime con evidente, conseguente e sostanziale interpretatio abrogans del complessivo dettato normativo e assoluta dispersione della sua finalità esplicitamente deflattiva”.

In sostanza, dunque, il Tribunale di Firenze individua le ragioni della “impossibilità di iniziare la procedura”, di cui all’art. 8, co. 1, nelle sole questioni preliminari o pregiudiziali di natura oggettiva, chiarendo come non sia previsto in alcun modo che le parti manifestino una sorta di volontà di partecipazione al tentativo di mediazione effettivamente inteso.

Nel caso di specie, dunque, alla luce delle considerazioni che precedono, si ordina alle parti di espletare nuovamente la mediazione, dal momento che il Giudice non ritiene possibile un’applicazione in via analogica delle “…norme che nel processo consentono alla parte di farsi rappresentare dal difensore o le norme sulla rappresentanza negli atti negoziali”, dovendosi tenere in debito conto la natura personalissima, e pertanto non delegabile, delle attività proprie del procedimento di mediazione.

Una conferma, dunque, ma anche un cospicuo passo avanti, ove si consideri che effettivamente i principi di effettività della mediazione e di partecipazione personale delle parti (salvo beninteso ipotesi eccezionali, valutate caso per caso dal giudice, in cui la mancata presenza personale della parte possa ritenersi giustificata) appaiono estensibili a tutte le ipotesi di mediazione “obbligatoria”, dato che il legislatore non ha inteso configurare modelli procedimentali differenti in funzione del fatto che la mediazione consegua alla (necessaria) iniziativa della parte che intenda proporre una domanda nelle materie di cui all’art. 5. co 1 – bis, ovvero che sia demandata, in primo grado o in appello, dal giudice ex art. 5, co. 2.

Peraltro, va infine ricordato come il principio dell’effettività del tentativo di mediazione fosse comunque già stato affermato in giurisprudenza con riferimento ad una ipotesi di mediazione ex lege, depositata, cioè, ai sensi dell’art. 5, co. 1- bis, D.lgs 28/2010, precisamente dal Tribunale di Rimini con ordinanza 16 luglio 2014.

Nel caso di specie, il Giudice, rilevata la mera formalità del tentativo di mediazione avviato ante causam dalla parte attrice del giudizio, esauritosi nella semplice presenza delle parti in sede di primo incontro all’unico scopo di manifestare una asserita “non volontà” di intraprendere il tentativo conciliativo, aveva disposto, esattamente come nel caso oggi in commento, lo svolgimento di un tentativo effettivo pena l’improcedibilità della domanda giudiziale.

Il Tribunale romagnolo, dunque, aveva anch’esso inteso sottolineare come il carattere dell’”effettività” debba necessariamente contraddistinguere la mediazione tout court, indipendentemente dal fatto che il tentativo sia disposto dal giudice.

Sviluppi forse discutibili sotto molteplici aspetti, ma certamente molto interessanti, non c’è che dire.

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Testo integrale 

R.G. 6277/2014 T
TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE
Seconda sezione CIVILE

VERBALE DELLA CAUSA n. r.g. 6277/2014

tra

M.C.

ATTORE

e P.A.P, A. P. e G. P.

CONVENUTI

Oggi 26 novembre 2014, innanzi al dott. Luciana Breggia, sono comparsi:
Per M. C. l’avv. R.C. in sostituzione dell’avv. F. P. e l’avv. D. M. ;
Per P. A. P, A. P e G P., l’avv. F. R. in sostituzione dell’avv. L. L.,
E’ altresì presente ai fini della pratica forense il dott. T. M. I difensori si riportano agli scritti difensivi. Chiedono termini per le memorie ex art. 183 cpc.
Il giudice discute con le parti la questione relativa alla procedibilità della domanda dal momento che la mediazione, obbligatoria in questo caso, non risulta correttamente svolta, essendo presente non la parte di persona, ma un sostituto del difensore di quest’ultima.
All’esito della discussione con i difensori e alla luce della natura della causa, osserva quanto segue.
1. La causa in esame rientra tra quelle per cui è prevista la condizione di procedibilità del preventivo esperimento della mediazione ai sensi dell’art. 5, comma 1 bis, del D.lgs 28/2010, trattandosi di domanda di usucapione (diritti reali).
Nel caso di specie, la parte attrice ha prodotto un verbale del 12/02/2013 relativo all’incontro con il mediatore da cui risulta la presenza di un difensore in sostituzione dell’avvocato Di Rocco, che difende l’attore in giudizio, e non la presenza della parte di persona. Per la parte invitata nessuno è comparso.
2. Il Giudice ritiene che, per ritenere avverata la condizione di procedibilità, anche nei casi di cui all’art.5, co. 1 bis, cit., devono essere osservati due importanti profili:
I. la mediazione deve svolgersi con la presenza personale delle parti;
II. Deve essere esperita effettivamente la mediazione.
3. A tale conclusione si giunge in base ad un’interpretazione teleologica delle norme che vengono in campo, già affermata in precedenti ordinanze del Giudice, e in particolare, nell’ordinanza del 19/3/2014, r.g. 5210/2010 . In tale provvedimento, si argomentava nel modo seguente, con riferimento alla mediazione demandata dal Giudice:
<< L’art. 5, comma 5 bis d.lgs. n. 28/2010, dispone: ”Quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”.
L’art. 8 , in tema di ‘ procedimento’, dispone :”1. All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della domanda. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante. Al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato. Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”.
Come si vede le due norme sono formulate in modo ambiguo: nell’art. 8 sembra che il primo incontro sia destinato solo alle informazioni date dal mediatore e a verificare la volontà di iniziare la mediazione. Tuttavia, nell’art. 5, comma 5 bis, si parla di “primo incontro concluso senza l’accordo”. Sembra dunque che il primo incontro non sia una fase estranea alla mediazione vera e propria: non avrebbe molto senso parlare di ‘mancato accordo’ se il primo incontro fosse destinato non a ricercare l’accordo tra le parti rispetto alla lite, ma solo la volontà di iniziare la mediazione vera e propria.
A parte le difficoltà di individuare con precisione scientifica il confine tra la fase cd preliminare e la mediazione vera e propria (difficoltà ben nota a chi ha pratica della mediazione), data la non felice formulazione della norma, appare necessario ricostruire la regola avendo presente lo scopo della disciplina, anche alla luce del contesto europeo in cui si inserisce (direttiva 2008/52/CE)
In tale prospettiva, ritenere che l’ordine del giudice sia osservato quando i difensori si rechino dal mediatore e, ricevuti i suoi chiarimenti su funzione e modalità della mediazione (chiarimenti per i quali i regolamenti degli organismi prevedono tutti un tempo molto limitato), possano dichiarare il rifiuto di procedere oltre, appare una conclusione irrazionale e inaccettabile.
Si specificano di seguito i motivi:
A. i difensori, definiti mediatori di diritto dalla stessa legge, hanno sicuramente già conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità. Se così non fosse non si vede come potrebbero fornire al cliente l’ informazione prescritta dall’art. 4, comma 3, del d.lgs 28/2010, senza contare che obblighi informativi in tal senso si desumono già sul piano deontologico (art. 40 codice deontologico ). Non avrebbe dunque senso imporre l’incontro tra i soli difensori e il mediatore solo in vista di un’informativa.
B. la natura della mediazione esige che siano presenti di persona anche le parti: l’istituto mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. L’assenza delle parti, rappresentate dai soli difensori, dà vita ad altro sistema di soluzione dei conflitti, che può avere la sua utilità, ma non può considerarsi mediazione. D’altronde, questa conclusione emerge anche dall’interpretazione letterale: l’art. 5, comma 1-bis e l’art. 8 prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo con l’ ‘assistenza degli avvocati’, e questo implica la presenza degli assistiti.
C. ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro, in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione, vuol dire in realtà ridurre ad un’ inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori.
Non avrebbe ragion d’essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere. La dilazione si giustifica solo quando una mediazione sia effettivamente svolta e vi sia stata data un’effettiva chance di raggiungimento dell’accordo alle parti. Pertanto occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione. Altrimenti, si porrebbe un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione.
D. L’informazione sulle finalità della mediazione e le modalità di svolgimento ben possono in realtà essere rapidamente assicurate in altro modo: 1. dall’informativa che i difensori hanno l’obbligo di fornire ex art. 4 cit., come si è detto; 2. dalla possibilità di sessioni informative presso luoghi adeguati (v. direttiva europea) e, per quanto concerne il Tribunale di Firenze, presso l’URP (v. articolo 11 del protocollo Progetto Nausicaa2 ) e da ultimo, sempre nell’ambito di tale Progetto, presso l’ufficio di orientamento gestito dal Laboratorio Unaltromodo dell’Università di Firenze al piano V, stanza 9 del Palazzo di Giustizia;
E. L’ipotesi che la condizione si verifichi con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore per le informazioni appare particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare ”la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione. Come si vede dunque, sono previsti plurimi livelli informativi e non è pensabile che il processo venga momentaneamente interrotto per un’ulteriore informazione anziché per un serio tentativo di risolvere il conflitto.
F. Da ultimo, può ricordarsi che l’art. 5 della direttiva europea citata distingue le ipotesi in cui il giudice invia le parti in mediazione rispetto all’invio per una semplice sessione informativa: un ulteriore motivo per ritenere che nella mediazione disposta dal giudice, viene chiesto alle parti (e ai difensori) di esperire la mediazione e cioè l’attività svolta dal terzo imparziale finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole (secondo la definizione data dall’art. 1 del d.lgs. n. 28/2010) e non di acquisire una mera informazione e di rendere al mediatore una dichiarazione sulla volontà o meno di iniziare la procedura mediativa>>.
4. Per la mediazione demandata dal giudice è particolarmente evidente la necessità che la mediazione sia effettivamente esperita (per i motivi indicati alla lettera E del provvedimento riportato); tuttavia, anche per quella che precede il giudizio, è necessario giungere alla medesima conclusione.
E’ vero che nella mediazione demandata il giudice ha già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ in concreto del conflitto, mentre la mediazione che precede il giudizio è imposta dal legislatore sulla base di una valutazione di mediabilità in astratto, in base alla tipologia delle controversie.
Tale differenza, però, non incide minimamente sulla natura della mediazione e quindi non appare rilevante per ritenere che la condizione di procedibilità possa ritenersi svolta con un mero incontro “preliminare” in cui le parti dichiarano la mancanza di volontà di svolgere la mediazione. Anche per la mediazione preprocessuale vale quanto già rilevato circa l’esistenza di informazioni che precedono l’incontro in mediazione già fornite alla parte dal difensore o tramite il difensore; inoltre anche per la mediazione preprocessuale, ciò che l’art.5, co. 1 bis, impone è la mediazione e non una sessione informativa.
Va sottolineato che l’art.8, quando prevede che “Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”, fa riferimento alla possibilità di iniziare il procedimento (con riferimento a eventuali situazioni preliminari che possano ostacolare l’esperimento di mediazione) e non alla volontà delle parti di proseguire, (in tal senso, si sono espressi anche numerosi giudici di merito: Trib. Firenze, sez. specializzata imprese, ord. 17/3/2014 e ord. 18/3/2014, in www.ilcaso.it; Trib. Roma, ord., 30.06.2014, in www.101mediatori.it; Trib. Bologna, ord., 5.6.2014 in www.adrmaeremma.it; Trib. Rimini, ord. 16 luglio 2014).
In particolare il tribunale di Palermo (ord. 16.7.2014) ha approfondito il nodo interpretativo posto dall’art. 5, c. 2 bis del d. lgs. 28/2010, che sembra richiamare espressamente <<il primo incontro >> di cui all’art. 8 c. 1 cit.. Il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilità, che la mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro. Il tribunale sottolinea, tuttavia, che ben potrebbe il giudice richiedere che in questo primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettivo. La disposizione normativa in questione, secondo il giudice, se diversamente interpretata, rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa, perché ognuno dei partecipanti sarebbe titolare di un diritto potestativo alla chiusura del procedimento. Secondo tale giudice, pertanto, il mediatore deve verificare la possibilità di iniziare la procedura con riferimento a impedimenti particolari (autorizzazioni e simili) e non alla volontà delle parti.
Le argomentazioni riportate valgono anche per la mediazione obbligatoria che precede il giudizio e non solo per la mediazione demandata dal giudice.
5. Se dunque, il legislatore impone lo svolgimento di una mediazione effettiva anche per la mediazione di cui all’art. 5, co. 1 bis, è necessario che le parti siano presenti di persona (v. sopra punto B).
Nella mediazione è fondamentale, infatti, la percezione delle emozioni nei conflitti e lo sviluppo di rapporti empatici ed è pertanto indispensabile un contatto diretto tra il mediatore e le persone parti del conflitto. Il mediatore deve comprendere quali siano i bisogni, gli interessi, i sentimenti dei soggetti coinvolti, e questi sono profili che le parti possono e debbono mostrare con immediatezza, senza il filtro dei difensori (che comunque assistono la parte).
D’altronde, il principale significato della mediazione è proprio il riconoscimento della capacità delle persone di diventare autrici del percorso di soluzione dei conflitti che le attraversano e la restituzione della parola alle parti per una nuova centratura della giustizia, rispetto ad una cultura che le considera ‘poco capaci’ e, magari a fini protettivi, le pone ai margini.
Il giudice ritiene, per questi motivi, che non sia possibile applicare analogicamente le norme che, ‘nel processo’, consentono alla parte di farsi rappresentare dal difensore o le norme sulla rappresentanza negli atti negoziali. La mediazione può dar luogo ad un negozio o ad una transazione, ma l’attività che porta all’accordo ha natura personalissima e non è delegabile (il giudice, naturalmente, valuterà caso per caso se la mancata presenza personale sia giustificata).
6. Alla luce delle considerazioni che precedono, il giudice ritiene che anche per la mediazione obbligatoria da svolgersi prima del giudizio ex art. 5, co. 1 bis d.lgs.n. 28/2010, è necessario che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori come previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata.
7. Nel caso in esame, nel procedimento di mediazione non è comparsa la parte attrice, ma un sostituto del difensore di quest’ultima.
Pertanto, occorre rilevare d’ufficio il mancato avveramento della condizione di procedibilità ai sensi dell’art. 5 c.1 bis cit. e assegnare alle parti il termine di 15 giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Oltretutto può rilevarsi che nel caso in esame appare particolarmente adeguato il ricorso a soluzioni amichevoli della medesima in quanto l’interresse della parte attrice potrebbe contemperarsi con quello della parte convenuta, come emerso anche dalla discussione orale, se si considera la vicenda relativa al preliminare di vendita del 2000, con cui la figlia dell’attore si impegnava ad acquistare i terreni di cui si tratta.
La causa va, quindi, rinviata all’udienza sotto indicata ex art 183 cpc.

P.Q.M.

Rilevata l’improcedibilità della domanda ex art. 5, comma 1 bis, d.lgs 28/2010;
dispone
l’esperimento della mediazione ex art.5, co.1 bis, D. lgs. 28/2010 e assegna termine alle parti di quindici giorni per depositare la domanda di mediazione dinanzi a un organismo scelto dalle parti, avuto riguardo ai criteri dell’art. 4, I comma del d.lgs. 28/2010, salva la facoltà delle parti di scegliere concordemente un organismo avente sede in luogo diverso da quello indicato nell’art. 4 citato;
fissa
nuova udienza ex art. 183 cpc per il giorno 29/4/2015 ore 9.30 all’esito della procedura di mediazione;
precisa
che per “mediazione” si intende che il tentativo di mediazione sia effettivamente avviato e che le parti – anziché limitarsi ad incontrarsi e informarsi, non aderendo poi alla proposta del mediatore di procedere – adempiano effettivamente partecipando alla vera e propria procedura di mediazione,
precisa
che le parti dovranno essere presenti dinanzi al mediatore personalmente e munite di assistenza legale di un avvocato iscritto all’Albo.
Invita
Le parti a comunicare preventivamente al Giudice l’eventuale esito positivo della mediazione per favorire l’organizzazione del ruolo.
Il Giudice
Luciana Breggia

adr intesa ente di formazione per mediatori civili riconosciuto dal ministero della giustizia

Mediazione civile e processo sommario di cognizione ex art. 702 – bis c.p.c.

Con le presenti note si intende tornare – a fronte di una questione (in apparenza) mai completamente definita in termini espliciti dal legislatore – sul complesso di ragioni che ci porta a ritenere che, con riferimento alle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010, anche ove la domanda giudiziale sia proposta nelle forme del processo sommario di cognizione ex artt. 702 – bis e ss. c.p.c., l’esperimento del tentativo di conciliazione si ponga come condizione di procedibilità.

Come è noto, il problema emerse, sotto la vigenza del testo originario del D.lgs 28/2010, allorchè una sentenza di merito (Trib. Firenze, sent. 22 maggio 2012)   stabilì che il rinvio dell’udienza allo scopo di consentire lo svolgimento della procedura di mediazione, non esperita ante causam, fosse incompatibile con la natura “concentrata” e “rapida” (per l’appunto, sommaria) del processo sommario di cognizione.

Il Giudice, premesso “…che il procedimento sommario di cognizione previsto dall’art 702 bis e 702 ter c.p.c., pur non delineando un procedimento d’urgenza o caute1are nondimeno prevede un procedimento dove viene massimizzata la velocità della trattazione e della decisione della controversia, con evidente premialità per il ricorrente che riesca a manifestare con forte evidenza le ragioni che militano a favore del proprio diritto…”, osserva che l’art. 5, co. 4 del decreto sulla mediazione prevede: “i commi 1 e 2 non si applicano: a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”.

Da ciò, secondo il Tribunale, discende che “…tale disposizione ben possa essere analogicamente applicata al caso del processo sommario di cognizione per l’ipotesi in cui, non potendosi procedere nelle forme previste dagli artt. 702 bis e ss. c.p.c. per la complessità istruttoria contenutistica della controversia, sia necessario convertire il processo nel rito ordinario di cognizione, nel qual caso, evidentemente dovrà procedersi secondo quanto previsto dal primo comma dell’art. 5D.Lgs 28/2010”.

In sintesi: il processo sommario di cognizione, essendo funzionale agli effetti propri del giudicato, non ha certo natura cautelare, ma mira comunque a velocizzare la trattazione/decisione della controversia, con palese intento premiale per il ricorrente; l’art, 5, co. 4, D.lgs 28/2010 prevede la non applicabilità della mediazione obbligatoria al procedimento di ingiunzione, anch’esso non cautelare, inclusa l’opposizione; di conseguenza, per analogia risulterebbe plausibile l’estensione dell’eccezione relativa al procedimento ingiuntivo, al rito sommario di cognizione (ove, naturalmente, non venga disposta, ai sensi dell’art. 703 – ter c.p.c.,  la transizione al processo ordinario di cognizione con fissazione dell’udienza ex art. 183 c.p.c.).

Non sembra che una impostazione siffatta possa convincere.

Ciò non tanto per ragioni funzionali, quali l’aggiramento della mediazione mediante la proposizione ad arte della domanda nelle forme dell’art. 702 – bis c.p.c. (un tale intento potrebbe essere depotenziato, almeno in parte, dal giudice tramite il passaggio al rito ordinario, con conseguente ritorno della condizione di procedibilità rappresentata dalla mediazione stessa), quanto per ragioni di tenore letterale e di logica interpretativa, che portano a ritenere che ove il legislatore, a fortiori in quanto autore di un intervento a riforma di quanto in precedenza disposto, avesse inteso sottrarre all’ambito di operatività della mediazione obbligatoria il processo sommario di cognizione, ebbene lo avrebbe fatto in termini espliciti.

L’intervento del legislatore a seguito del c.d. Decreto del fare sembrerebbe, invece, riaffermare l’applicabilità del tentativo obbligatorio di mediazione alla tipologia processuale in parola, che continua a non essere menzionata tra quelle escluse.

Ora, come è noto, l’art. 14 disp. prel. cod. civ. dispone che “…le leggi…che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”.

Ciò posto, appare difficilmente confutabile il fatto che l’art. 5, co. 4, D.lgs 28/2010, abbia carattere eccezionale, avendo la funzione di derogare a quanto previsto, in via generale, dal co. 1- bis del medesimo articolo 5. Pertanto, l’elenco contenuto dal co. 4 deve considerarsi tassativo, con la conseguenza che solo nei procedimenti ivi menzionati il tentativo di mediazione non dovrà essere intrapreso pur vertendosi sulle materie di cui all’art. 5 co. 1- bis.

Pertanto, la condizione di procedibilità non opera:

a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione;

b) nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all’articolo 667 del codice di procedura civile;

c) nei procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’articolo 703, terzo comma, del codice di procedura civile;

d) nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata;

e) nei procedimenti in camera di consiglio;

f) nell’azione civile esercitata nel processo penale.

Del processo sommario di cognizione non si faceva menzione prima della riforma e continua a non farsi menzione dopo la stessa.

Né sembra potersi applicare, come invece proposto dalla giurisprudenza di merito summenzionata, l’analogia, dal momento che l’art. 12 delle preleggi presuppone, in generale, che a tale criterio possa ricorrersi solo in presenza di una lacuna da colmare, vale a dire di un vuoto normativo che nell’ipotesi in esame non sussiste. Semplicemente il legislatore non ha inteso, manifestamente, ricomprendere il processo sommario di cognizione tra le ipotesi procedimentali escluse, con riferimento alle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, dall’obbligatorietà del tentativo di mediazione.

D’altra parte, detta scelta del legislatore appare non solo chiara, ma anche condivisibile.

Il processo sommario introdotto nel codice di procedura civile con la riforma del 2009, infatti, è un rito in cui la cognizione sommaria, conseguenza di una scelta attorea, può trasformarsi in cognizione piena qualora il giudice adito non ritenga la  causa, per la complessità della controversia e delle difese proposte, compatibile con una trattazione per l’appunto sommaria (il cui svolgimento – come si sa – è mutuato dall’art. 669 – sexies – relativo al procedimento cautelare uniforme), ordinando, dunque, il mutamento di rito con la fissazione dell’udienza di cui all’art. 183.

Non si vede, perciò, come possano scorgersi analogie con il procedimento di ingiunzione (o con quello per convalida di licenza o sfratto), in cui i provvedimenti relativi alla fase sommaria vengono adottati inaudita altera parte e gli stessi sono suscettibili ad acquisire definitività per effetto dell’inerzia dell’ingiunto o dell’intimato. Infatti, in dette ipotesi, il legislatore ha optato a favore dello spostamento dell’obbligo di procedere al tentativo di mediazione ad un momento successivo rispetto alla fase sommaria (e, soprattutto, successivo alla decisione sui provvedimenti provvisori in merito alla concessione dell’efficacia esecutiva al decreto ingiuntivo opposto od all’emissione dell’ordinanza di rilascio dell’immobile con riserva delle eccezioni del convenuto).

Nel processo sommario di cognizione, invece, non si fa altro che agire in giudizio puntando sul fatto che la (asserita) “semplicità” della controversia consentirà al giudice di deciderla con modalità sommaria, eventualità, peraltro, meramente prospettata dall’attore ma della quale, ovviamente, non vi è alcuna certezza ab initio, ben potendo, come detto, il giudice essere di diverso avviso.

Con riferimento alle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010, il legislatore precisa che la domanda è condizionata, nella sua procedibilità, dall’esperimento del tentativo di mediazione presso un organismo territorialmente competente, senza nulla specificare, in ultima analisi, circa la forma della domanda stessa, ferme restando, beninteso, le sole eccezioni tassativamente precisate nel successivo co. 4.

Alla luce delle considerazioni che precedono non si vede, pertanto, su quali basi possa predicarsi l’esclusione dell’esperimento della procedura di mediazione, in ordine alle materie in cui la stessa è prevista alla stregua di condizione di procedibilità della domanda giudiziale, per la sola circostanza che, nel caso concreto, la stessa sia proposta nelle forme di cui all’art. 702 – bis c.p.c.

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