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Mediazione-civile-d.lgs-28-2010

Mediazione civile: tendenze giurisprudenziali

Riflessioni sulla recente giurisprudenza in materia di mediazione civile

Dott. Luigi Majoli

 Introduzione  

GiĂ  tempo di bilanci? Prevengo l’obiezione, certamente fondata (e che quindi condivido). Prematuro, dopo meno di un anno dall’entrata in vigore del nuovo modello di mediazione civile, a seguito del c.d. “decreto del fare”.

Eppure, in questi pochi mesi, molto è avvenuto. Dunque, niente bilanci, ma riflessioni sì. Riflessioni che appaiono ineludibili, allo stato attuale, soprattutto – come si analizzerà in seguito – alla luce del contributo della giurisprudenza alla diffusione della mediazione. Già. Proprio questo appare, a mio avviso, il punto fondamentale.

Al di lĂ  delle posizioni preconcette che si contrappongono da anni, al di lĂ  delle rendite di posizione e dei (presunti) interessi di categoria da difendere, un fatto appare chiaro: l’obbligatorietĂ  della mediazione civile in un (rilevante) novero  di ipotesi – strumento inizialmente inevitabile per il “decollo” dell’istituto –  potrĂ  anche venir meno laddove alla fine “soccombente” (ma per ora non sembra) nella querelle circa la sua costituzionalitĂ ; i quattro anni del “periodo di prova” previsto dal legislatore potranno certamente portare a risultati oggi imprevedibili o, semplicemente, il D.lgs 28/2010 ben potrebbe essere nuovamente oggetto di riforma con conseguente venir meno dell’obbligatorietĂ  stessa, ma se la giurisprudenza continuerĂ  a “credere” nell’istituto cosĂŹ come fino ad ora ha mostrato, ebbene la diffusione della mediazione troverĂ , verosimilmente, un canale parallelo di non minore portata.

Sulle base delle considerazioni che precedono, si analizzeranno di seguito gli spunti di maggiore interesse forniti dal contributo giurisprudenziale successivo alla vigenza della “nuova” mediazione.

Certamente, una considerazione preliminare non può essere sottaciuta: dopo il de profundis seguito alla sentenza dell’ottobre 2012 della Corte costituzionale, l’esigenza  di soluzioni delle controversie civili e commerciali alternative rispetto alla (naturale) sede del giudizio è immediatamente (ri)emersa in tutta la sua allarmante attualitĂ , con conseguente – anche se senz’altro farraginoso e, quindi, perfettibile – intervento del legislatore in materia.

Sennonchè la criticità fondamentale va riscontrata proprio nelle problematiche di ordine interpretativo che le disposizioni di nuovo conio hanno immediatamente generato, favorendo, come subito di seguito si rileverà, posizioni di immutato sfavore verso lo strumento mediazione in sÊ e per sÊ considerato, che hanno finito con il sostituirsi alla pregiudiziale di costituzionalità cui si faceva in precedenza riferimento, in vista, però, del medesimo obiettivo.

La realtĂ  normativa e le sue conseguenze sul terreno della pratica

Come è noto, l’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010, nel suo testo post riforma, prevede che “Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilitĂ  medica e sanitaria da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicitĂ , contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto, assistito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilitĂ  della domanda giudiziale. La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore. Al termine di due anni dalla medesima data di entrata in vigore è attivato su iniziativa del Ministero della giustizia il monitoraggio degli esiti di tale sperimentazione. L’improcedibilitĂ  deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è giĂ  iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni”.

Non particolarmente rilevanti, dunque, appaiono le modifiche in ordine alle materie soggette all’obbligatorietĂ  della mediazione: tra “tagli” (danni da circolazione di autoveicoli e natanti) ed “aggiunte” (responsabilitĂ  sanitaria) la sostanza non cambia.

Ben piĂš incisivo, invece, il dettato dell’art. 5, co. 2,: “Fermo quanto previsto dal comma 1-bis e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilitĂ  della domanda giudiziale anche in sede di appello. Il provvedimento di cui al periodo precedente è adottato prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista prima della discussione della causa. Il giudice fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6 e, quando la mediazione non è giĂ  stata avviata, assegna contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione”.

Mediazione delegata, dunque, non piĂš su invito, ma “disposta” dal giudice. E tale da costituire, in primo grado ed in appello, condizione di procedibilitĂ  dell’azione. Innovazione dirompente, come giĂ  la realtĂ  giurisprudenziale ha ampiamente dimostrato, in quanto direttamente condizionata unicamente alla volontĂ  applicativa dei giudici. Tanto piĂš, ove si consideri la contestuale entrata in vigore dell’art. 185 – bis c.p.c., che ha introdotto, come è noto, la c.d. mediazione “endoprocedimentale”, con la quale il giudice stesso può formulare una pronuncia transattiva o conciliativa da sottoporre alle parti.

In detto rinnovato contesto, le problematiche attuative di maggior rilievo sono state però cagionate dalla disposizione di cui all’art. 8, co. 1, a tenore della quale “All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della domanda. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante. Al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato. Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalitĂ  di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilitĂ  di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. Nelle controversie che richiedono specifiche competenze tecniche, l’organismo può nominare uno o piĂš mediatori ausiliari”.

Tale disposizione deve essere collegata all’art. 5, co. 2 – bis, secondo cui “Quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilitĂ  della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”, e con l’art. 17, co. 5 – ter, per il quale “Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”.

Ora, la criticitĂ  in assoluto piĂš rilevante sul piano pratico, come ben sa chi pratica professionalmente la mediazione, deriva dall’interpretazione che si è voluta dare del penultimo periodo del primo comma dell’art. 8, laddove si prevede che il mediatore invita le parti ad esprimersi circa la possibilitĂ  di “iniziare” il procedimento: se si intende con ciò che la mediazione avrĂ  inizio solo ove le parti manifestino una sorta di volontĂ  in tal senso, risulta chiaro che l’obbligatorietĂ  finirebbe con l’essere tale solo formalmente, ma non di fatto.

Se è vero, come è vero, che un comportamento può definirsi obbligatorio solo se previsto come tale dalla legge o da un provvedimento giurisdizionale che nella legge medesima trovi la sua legittimazione, ne deriva che l’interpretazione di cui sopra determina una asserita obbligatorietĂ  attenuata che – in sostanza – non è tale.

O, meglio ancora: cosĂŹ opinando quello che risulterebbe effettivamente obbligatorio non sarebbe altro che il primo incontro delle parti (o, peggio, dei soli avvocati delle stesse) con il mediatore, che il piĂš delle volte varrebbe soltanto ad esprimere la “volontà” delle stesse contraria all’ingresso nel procedimento al fine di addivenire alla formazione di un verbale negativo che consenta di assolvere la condizione di procedibilitĂ  della domanda giudiziale. Insomma, un mero orpello formale. Con conseguente svuotamento di ogni  significato della mediazione sul piano deflattivo e sul quello, in prospettiva ancor piĂš importante, culturale.

Si tratta, di fatto, di un sensibile ridimensionamento (volendo fare uso di un eufemismo) di ciò che la legge – sia pure tra mille “cautele” e compromessi – bene o male prevede.

Da un lato, infatti, si contempla, tanto per la mediazione ex lege quanto per la delegata, l’esperimento di un tentativo destinato a concludere la vicenda in via stragiudiziale, ovvero, nell’ipotesi di fallimento dello stesso (mancato accordo), volto a consentire l’ingresso nella canonica via giudiziale; dall’altro, si impone nella pratica un’interpretazione riduttiva, per la quale la condizione risulterebbe soddisfatta con la mera presenza dinanzi al mediatore, in sede di primo incontro, di soggetti dalla cui “volontà”, in ultima analisi, verrebbe a dipendere l’”inizio” del tentativo stesso.

Ciò appare oggettivamente inquietante.

Se infatti una simile lettura delle disposizioni sopra ricordate sembra contraddittoria rispetto al concetto stesso di mediazione concepita quale condizione di procedibilità della domanda (ossia “obbligatoria”), ancor più sconcertante risulta se rapportata ad una mediazione, quale quella delegata ex art. 5, co. 2, ipotesi in cui la legge attribuisce al giudice il potere di disporre il tentativo. Cosa finirebbe con il disporre il giudice, una tediosa formalità dinanzi al mediatore volta ad accertare la mera volontà di non mediare, con conseguente ulteriore appesantimento dei tempi di giustizia?

In presenza di un siffatto stato di cose non poteva che essere la giurisprudenza a prendere posizione in ordine agli aspetti appena accennati, nell’intendo di dare sostanza alle previsioni legislative, destinate, altrimenti, ad un oblio inevitabile quanto, da molte parti, non certo sgradito.

I contributi della giurisprudenza

 La partecipazione personale delle parti

In primo luogo, i piĂš recenti orientamenti giurisprudenziali in materia di mediazione delegata sottolineano come sia connaturata al concetto stesso di mediazione la presenza delle parti dinanzi al mediatore (Cfr. Trib. Firenze, ordd. 17 e 19 marzo 2014; Trib. Roma, sent. 29 maggio 2014 e ord. 30 giugno 2014; Trib. Bologna, ord. 5 giugno 2014).

In sintesi, si osserva come l’assenza della parte determini conseguenze rilevanti sulla natura stessa del tentativo di mediazione che, in quanto tale, dovrebbe dipanarsi in modo tale da consentire agli interessati di assurgere quanto piĂš possibile al ruolo di autentici protagonisti della vicenda (auspicabilmente) destinata a favorire il recupero del rapporto tra le parti, anticamera di ogni ipotesi di conciliazione. Una trattativa svolta dai soli avvocati potrebbe anche portare ad un esito fruttuoso, ma non rappresenterebbe una mediazione vera e propria, assumendo piuttosto le sembianze di una mera transazione, in quanto tale ispirata alla (diversa) logica delle reciproche rinunce.

Secondo l’ordinanza 19 marzo 2014 del Tribunale di Firenze, ad esempio, posto che “…la natura della mediazione esige che siano presenti di persona anche le parti: l’istituto mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilitĂ  di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. L’assenza delle parti, rappresentate dai soli difensori, dĂ  vita ad altro sistema di soluzione dei conflitti, che può avere la sua utilitĂ , ma non può considerarsi mediazione. D’altronde, questa conclusione emerge anche dall’interpretazione letterale: l’art. 5, comma 1-bis e l’art. 8 prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo con l’ ‘assistenza degli avvocati’, e questo implica la presenza degli assistiti”, il giudice osserva che “…i difensori, definiti mediatori di diritto dalla stessa legge, hanno sicuramente giĂ  conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalitĂ . Se cosĂŹ non fosse non si vede come potrebbero fornire al cliente l’ informazione prescritta dall’art. 4, comma 3, del d.lgs 28/2010, senza contare che obblighi informativi in tal senso si desumono giĂ  sul piano deontologico (art. 40 codice deontologico ). Non avrebbe dunque senso imporre l’incontro tra i soli difensori e il mediatore solo in vista di un’informativa”.

Il fatto che la condizione si avveri con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore appare poi “…particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia giĂ  svolto la valutazione di ‘mediabilitĂ ’ del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare ”la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltĂ  di chiedere la mediazione”.

Anche per il Tribunale di Bologna, ordinanza 5 giugno 2014, la presenza delle parti costituisce presupposto necessario.

Ribadito, in primo luogo, che la natura della mediazione richiede “...che all’incontro (…) siano presenti (anche e soprattutto le parti): l’istituto, infatti, mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilitĂ  di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore”, il giudicebolognese prosegue osservando che “…i difensori, definiti mediatori di diritto dalla stessa legge, sono senza dubbio giĂ  a conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalitĂ  (come peraltro si desume dal fatto che essi, prima della causa, devono fornire al cliente l’informazione prescritta dall’art. 4, comma 3, del d.lgs 28/2010), di talchè non avrebbe senso imporre l’incontro tra i soli difensori ed il mediatore in vista di una (dunque, inutile) informativa”.

In terzo luogo (e soprattutto, ad avviso di chi commenta), il Tribunale rileva il fatto che “…l’ipotesi in cui all’incontro davanti al mediatore compaiono i soli difensori, anche in rappresentanza delle parti, non può considerarsi in alcun modo mediazione, come si desume dalla lettura coordinata dell’art. 5, comma 1 – bis, e dell’art. 8, che prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo con l’assistenza degli avvocati, e questo implica la presenza degli assistiti (personale o a mezzo di delegato, cioè di soggetto comunque diverso dal difensore)”.

E ancora, anche nell’ordinanza 30 giugno 2014 del Tribunale di Roma siconferma che le parti inviate in mediazione ai sensi dell’art. 5, co. 2, devono partecipare personalmente (salvo casi eccezionali) al procedimento – a partire dal primo incontro con il mediatore di cui all’art. 8 del decreto legislativo.

In sostanza, dunque, limitandosi per ora alle ipotesi di mediazione disposta dal giudice, la previsione circa la presenza delle parti, assistite dall’avvocato, viene intesa quale volontĂ  legislativa di favorire la partecipazione personale della parte, che rappresenta un indefettibile ed autonomo centro di imputazione e valutazione di interessi. Senza parti, salvo casi eccezionali, parlare di mediazione diventa arduo.

Nei casi di rappresentanza delle parti in mediazione, occorre poi aprire un diverso capitolo in ordine alla legittimazione del rappresentante. In questa sede basti rammentare che la rappresentanza in esame ha natura negoziale e non processuale, e quindi il rappresentato dovrĂ  conferire adeguata procura ad negotia che autorizzi il rappresentante ad agire in nome e per conto, con idonea puntualizzazione dei poteri e dei limiti.

In sostanza, in mediazione, il mediatore e l’altra parte dovranno essere in grado di interfacciarsi con un soggetto che risulti realmente in grado di esplorare tutte le possibilitĂ  conciliative, molte delle quali, come ben ha presente chi pratica la mediazione, emergono nel procedimento (e dal procedimento), spesso molto al di lĂ  delle posizioni iniziali. Per queste ragioni, soltanto la procura notarile speciale, redatta ad hoc per il singolo affare, oltre a permettere al rappresentante di stipulare atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, sembra in grado di fornire le necessarie garanzie in ordine alla sua utilizzabilitĂ  nei confronti di terzi.

L’effettivitĂ  del tentativo di mediazione

Partecipazione personale delle parti al procedimento, dunque. Ma non solo.

A nulla gioverebbe, infatti, la presenza personale delle parti all’interno di una vuota formalitĂ  mirante unicamente all’ottenimento di un verbale negativo, senza alcun tentativo concreto di soluzione stragiudiziale.

Secondo la giurisprudenza citata, infatti, per mediazione disposta dal giudice deve intendersi un tentativo di mediazione effettivamente avviato, ossia che le parti, anzichĂŠ limitarsi ad incontrarsi ed informarsi, per poi non aderire alla proposta del mediatore di procedere, adempiano effettivamente all’ordine del giudice, partecipando alla vera e propria procedura (auspicabilmente) conciliativa, salvo, naturalmente, l’emergere di questioni pregiudiziali (di natura – pertanto – oggettiva) ostative al suo svolgimento.

L’ordinanza 19 marzo 2014 del Tribunale di Firenze, in particolare, pur muovendo dalla premessa di una difficile individuazione del confine tra la fase preliminare e la mediazione vera e propria, osserva, con riferimento alla mediazione delegata ex art. 5, co. 2, come “…ritenere che l’ordine del giudice sia osservato quando i difensori si rechino dal mediatore e, ricevuti i suoi chiarimenti su funzione e modalitĂ  della mediazione,(…) possano dichiarare il rifiuto di procedere oltre, appare una conclusione irrazionale e inaccettabile”.

D’altronde, prosegue il giudice fiorentino, “…ritenere che la condizione di procedibilitĂ  sia assolta dopo un primo incontro, in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalitĂ  di svolgimento della mediazione, vuol dire in realtĂ  ridurre ad un’ inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori. Non avrebbe ragion d’essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere. La dilazione si giustifica solo quando una mediazione sia effettivamente svolta e vi sia stata data un’effettiva chance di raggiungimento dell’accordo alle parti. Pertanto occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione. Altrimenti, si porrebbe un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione”.

Anche il Tribunale di Roma, nella citata ordinanza 30 giugno 2014, sottolinea con forza come il tentativo di mediazione, con riferimento alle ipotesi di cui all’art. 5, co. 2, debba svolgersi effettivamente, dal momento che una formale e “burocratica” presenza delle parti (o, peggio, dei soli avvocati delle stesse) volta a produrre la condizione di procedibilitĂ  della domanda (tramite, ovviamente, formazione di verbale negativo) finirebbe con il trasformarsi in una totale elusione dell’ordine del giudice, il quale avrĂ  giĂ  provveduto in prima persona alle valutazioni del caso circa la “mediabilità” della controversia.

In sintesi, quindi: tentativo effettivamente svolto – in ottemperanza all’ordine del giudice, e caratterizzato dalla presenza personale – salvo casi eccezionali – delle parti.

Partecipazione delle parti ed principio di effettivitĂ  nella mediazione ex lege

La giurisprudenza uniforme che deriva dai provvedimenti or ora presi in considerazione si fonda sull’esigenza di partecipazione personale delle parti e sulla circostanza che il tentativo di mediazione disposto dal giudice deve essere caratterizzato da “effettività”. Per l’appunto, si tratta di pronunce relative ad ipotesi di mediazione delegata ai sensi dell’art. 5, co. 2, d.lgs 28/2010.

Ma detti principi possono estendersi sic et simpliciter alle ipotesi di cui all’art. 5. co. 1 – bis, vale a dire ai casi, ben piĂš frequenti nella pratica, di mediazione instaurata dalla parte interessata in quanto ex lege condizione di procedibilitĂ  della domanda giudiziale?

Occorre, sul piano interpretativo, rilevare immediatamente che la condizione di procedibilitĂ  è rappresentata, tanto ai sensi dell’art. 5, co. 1 – bis, quanto dell’art. 5, co. 2, dall’”esperimento del procedimento di mediazione”.

Bene. Su cosa debba intendersi per “mediazione” non possono sussistere dubbi, in ragione della definizione fornitaci dall’art. 1, co. 1, lett. a) del medesimo D.lgs 28/2010, secondo cui si tratta della “l’attivitĂ , comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o piĂš soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, anche con formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa”.

Ne consegue che ove le parti si limitino a comparire innanzi al mediatore senza aderire alla proposta di quest’ultimo di procedere al tentativo, di “mediazione” in senso tecnico non si possa proprio parlare. In tal caso, con riferimento alle ipotesi di mediazione delegata ai sensi dell’art. 5, co. 2, il potere conferito dalla legge al  giudice (di disporre una mediazione che, in primo grado ed in appello, condiziona la procedibilitĂ  della domanda) risulterebbe, nella sostanza, indebolito se non completamente vanificato.

Ora, però, se è vero che nelle ipotesi di cui sopra è il giudice a valutare nel caso concreto i margini di “mediabilità” della controversia, è anche vero che nelle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, detta valutazione risulta giĂ  operata in astratto dal legislatore. Non si vede quindi perchè le stesse considerazioni in ordine alla partecipazione personale delle parti al procedimento e soprattutto alla effettivitĂ  del tentativo non debbano valere anche (ed a maggior ragione) laddove l’esperimento della mediazione condiziona la procedibilitĂ  della domanda giudiziale ab inizio.

L’assimilazione in parola, peraltro, è stata giĂ  fatta propria dalla giurisprudenza.

Il Tribunale di Firenze, con l’ordinanza 17 marzo 2014, ha infatti osservato come debba ritenersi che “…le procedure di mediazione ex art. 5, comma 1-bis (ex lege) e comma 2 (su disposizione del giudice) del d.lgs. 28/10 (e succ. mod.), sono da ritenersi ambedue di esperimento obbligatorio, essendo addirittura previsti a pena di improcedibilitĂ  dell’azione; che difatti, per espressa volontĂ  del legislatore, il mediatore nel primo incontro chiede alle parti di esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione, vale a dire sulla eventuale sussistenza di impedimenti all’effettivo esperimento della medesima e non sulla volontĂ  delle parti, dal momento che in tale ultimo caso si tratterebbe, nella sostanza, non di mediazione obbligatoria bensĂŹ facoltativa e rimessa alla mera volontĂ  delle parti medesime con evidente, conseguente e sostanziale interpretatio abrogans del complessivo dettato normativo e assoluta dispersione della sua finalitĂ  esplicitamente deflattiva”.

Ad avviso del giudice fiorentino, in altri termini, il tentativo di mediazione, pur ritualmente iniziato, ove le parti si limitino ad esprimere una asserita volontĂ  contraria a procedere, non risulterebbe altrettanto ritualmente condotto a termine e pertanto “…le parti devono essere rimesse dinanzi al mediatore affinchĂŠ, in ottemperanza all’interpretazione sopra offerta, prosegua e si esaurisca l’esperimento della procedura di mediazione”.

In sostanza, dunque, il Tribunale di Firenze individua le ragioni della “impossibilitĂ  di iniziare la procedura”, di cui all’art. 8, co. 1, nelle sole questioni preliminari o pregiudiziali di natura oggettiva, chiarendo come non sia previsto in alcun modo che le parti manifestino una sorta di volontĂ  di partecipazione al tentativo di mediazione effettivamente inteso.

Sulla stessa lunghezza d’onda, ancor piĂš di recente, il Tribunale di Palermo (sez. I civile, ordinanza 16 luglio 2014).

Il Giudice rileva infatti come sussista “…un nodo interpretativo da risolvere. Il Legislatore ha espressamente regolato il regime giuridico sotteso alla condizione di procedibilitĂ  e previsto, all’art. 5 comma 2bis, che ÂŤquando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilitĂ  della domanda giudiziale la condizione si considera avveratase il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordoÂť. La disposizione, dunque, sembra richiamare espressamente “il primo incontro” di cui all’art. 8 comma I cit.”. Pertanto, “…il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilitĂ , che le mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro. Tuttavia, egli può comunque richiedere che in questo primo incontro il tentativo di  mediazione sia stato effettivo”.

Naturalmente, una lettura frettolosa ed approssimativa dell’art. 8 D.lgs 28/2010  sembrerebbe giustificare un’interpretazione per cui se le parti e i loro avvocati non  intendessero effettuare un vero tentativo di conciliazione (verosimilmente al solo scopo di non versare l’indennitĂ  di mediazione prevista per il rispettivo scaglione di riferimento) ben potrebbero esprimere in questa prima parte del primo incontro, di natura preliminare, la loro volontĂ  contraria all’inizio di una mediazione, con conseguente chiusura del procedimento. La disposizione normativa in questione, cosĂŹ interpretata, risulterebbe però a dir poco bizzarra, in quanto rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa.

Ragion per cui, il giudice siciliano ritiene, come anticipato poc’anzi, che “…il mediatore non dovrebbe chiedere, come invece ritenuto da molti, se le parti vogliono andare avanti. Egli non deve verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma li invita ad esprimersi sulla “possibilità”di iniziare la procedura di mediazione. E nel punto in cui la norma dice che “nel caso positivo, procede con lo svolgimento” essa non va intesa nel senso che se gli avvocati dicono che c’è tale possibilitĂ  si va avanti, mentre se dicono che non sussiste questa possibilitĂ  non si procede oltre. È il mediatore che, tenuto conto di quello che dicono le parti e gli avvocati, valuta se sussiste questa possibilitĂ  (nella norma, infatti, non si legge “nel caso di risposta positiva”, ma “nel caso positivo”). Si comprende, quindi, il motivo per cui il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10 contempla (come il comma 2 bis dell’art. 5) la possibilitĂ  di un accordo tra le parti in sede di primo incontro (prevedendo che in caso di mancato incontro non è dovuto compenso all’organismo)”.

Un ulteriore passo avanti in tal senso è indubbiamente rappresentato dalla recentissima ordinanza 16 luglio 2014 del Tribunale di Rimini in cui, per la prima volta, il principio dell’effettivitĂ  del tentativo di mediazione è affermato con riferimento ad una ipotesi di mediazione ex lege, depositata, cioè, ai sensi dell’art. 5, co. 1- bis, D.lgs 28/2010.

Nel caso di specie, il Giudice, rilevata la mera formalitĂ  del tentativo di mediazione avviato ante causam dalla parte attrice del giudizio, esauritosi nella semplice presenza delle parti in sede di primo incontro all’unico scopo di manifestare una asserita “non volontà” di intraprendere il tentativo conciliativo, ha disposto lo svolgimento di un tentativo effettivo pena l’improcedibilitĂ  della domanda giudiziale.

Il Tribunale romagnolo, dunque, ha inteso sottolineare come il carattere dell’”effettività” debba necessariamente contraddistinguere la mediazione tout court, indipendentemente dal fatto che il tentativo sia disposto dal giudice.

Come giĂ  si è avuto modo di rilevare in precedenza, se è vero che le pronunce “fiorentine” si riferiscono alla mediazione delegata dal giudice di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, è altrettanto vero però che i principi in esse contenuti appaiono estensibili a tutte le ipotesi di mediazione “obbligatoria”, dal momento che il legislatore non ha inteso configurare modelli procedimentali differenti in funzione del fatto che la mediazione consegua alla (necessaria) iniziativa della parte che intenda proporre una domanda nelle materie di cui all’art. 5. co 1 – bis, ovvero che sia demandata, in primo grado o in appello, dal giudice ex art. 5, co. 2.

Il Tribunale di Rimini ha ritenuto di perseguire una linea interpretativa siffatta, che, allo stato, non può che rappresentare una spinta di inestimabile valore verso l’effettivitĂ  della mediazione e, quindi, verso lo sviluppo di una cultura nuova, antitetica a quella tradizionale del conflitto ad ogni costo.

Ragioni come la mancanza di una parte necessaria, la carenza di rappresentanza, l’incompetenza dell’organismo presso il quale si è depositata l’istanza etc. sono questioni che possono emergere solo dinanzi al mediatore in sede di primo incontro, tali da configurare l’impossibilitĂ  di dare avvio al procedimento.

Non certo la “volontà” di non procedere espressa dalle parti (o dagli avvocati chiamati ad assisterle). In tal caso la condizione dovrĂ  ritenersi non avverata, per inadempimento all’obbligo conseguente dalla legge o dall’ordine del giudice.

Non può, ovviamente, configurarsi alcun “obbligo a conciliare”, ma ad iniziare concretamente un percorso di mediazione certamente sĂŹ. In altri termini, è vero che a norma dell’art. 3 D.lgs 28/2010 il procedimento di mediazione non è formalizzato, ma altrettanto certo è che, in assenza di una qualche sequenza di atti e di comportamenti volti a favorire il recupero di un dialogo tra le parti, di svolgimento di una “mediazione” non possa in alcun modo parlarsi.

Di qui, due considerazioni.

Innanzitutto, l’importanza dell’obbligo di informativa posto a carico degli avvocati dall’art. 4, co. 3, D.lgs 28/2010, nel quale si prevede che “All’atto del conferimento dell’incarico, l’avvocato è tenuto a informare l’assistito della possibilitĂ  di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20. L’avvocato informa altresĂŹ l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilitĂ  della domanda giudiziale. L’informazione deve essere fornita chiaramente e per iscritto. In caso di violazione degli obblighi di informazione, il contratto tra l’avvocato e l’assistito è annullabile. Il documento che contiene l’informazione è sottoscritto dall’assistito e deve essere allegato all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio. Il giudice che verifica la mancata allegazione del documento, se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, informa la parte della facoltĂ  di chiedere la mediazione”.

A prescindere da qualsiasi altra considerazione ed approfondimento, basti osservare, nella presente sede, come debba trattarsi di un’informativa piena e completa, non soltanto, cioè, relativa alla possibilitĂ  di avvalersi della mediazione o al fatto che, nelle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, essa costituisce condizione di procedibilitĂ  della domanda giudiziale, nonchĂŠ alle correlate agevolazioni fiscali previste dalla legge. Dovranno essere illustrate, altresĂŹ, anche (e soprattutto) le caratteristiche del procedimento, a partire – dunque – dalle finalitĂ  e dalle modalitĂ  del primo incontro.

SarĂ  dunque l’avvocato, all’atto de conferimento dell’incarico, che dovrĂ  esplicare all’assistito – tra le altre cose – l’importanza della sua partecipazione personale ed il concetto di effettivitĂ  del tentativo.

In secondo luogo, il fatto che il (famigerato) art. 17, co. 5 – ter, preveda che nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro nessun compenso sia dovuto per l’organismo nulla implica in ordine al fatto che il tentativo debba comunque svolgersi effettivamente ai fini del rispetto della condizione di procedibilitĂ  della domanda.

Chiunque operi nella mediazione conosce gli effetti devastanti della disposizione in esame. Anche a non voler ulteriormente insistere sul punto, non è chi non veda che per potersi parlare di “mancato accordo” un tentativo di mediazione deve necessariamente essersi svolto: per giungere alla redazione di un verbale negativo per mancato raggiungimento dell’accordo tra le parti il mediatore deve pur sempre entrare nel merito della controversia dinanzi a lui pendente.

Se, però, a tale risultato si perviene all’esito del primo incontro, il tentativo risulta espletato, salvo che il mediatore ha operato gratuitamente (sic), previsione circa la legittimitĂ , anche sul piano costituzionale, della quale sembra possano sollevarsi non poche riserve (a volersi esprimere con un eufemismo).

 Mediazione delegata e mediazione endoprocedimentale

Fin qui sui contributi giurisprudenziali in tema di partecipazione delle parti e di effettivitĂ  del tentativo di mediazione.

Naturalmente, però, non può essere sottaciuto, in questa sede, l’impatto dell’ulteriore “spinta” che il legislatore ha inteso fornire alla diffusione di una cultura della mediazione finora carente, vale a dire l’introduzione dell’art. 185 – bis c.p.c.

Come è noto, al disposizione prevede che “Il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice”.

Non si intende qui disquisire sulle ombre, che certamente non possono essere aprioristicamente negate, che detta novella suscita. Certamente, la formulazione “attenuata” che il legislatore ha (saggiamente) adottato in sede di conversione, rispetto all’imperativitĂ  – obiettivamente insostenibile – di quanto disposto dall’originario testo del c.d. “decreto del fare” va salutata positivamente.

Ciò su cui, però, si intende porre l’accento è l’immediato favore mostrato dai Giudici nei confronti dell’istituto (nonchĂŠ nei confronti del modificato art. 420 c.p.c., per ciò che concerne il rito del lavoro).

Occorre innanzitutto rilevare che la L. 98/2013, appunto di conversione del D.L. 69/2013, mentre disponeva l’entrata in vigore delle norme relative alla nuova mediazione obbligatoria ex lege e a quella delegata a partire dal 20 settembre 2013, stabiliva, come data di inizio della vigenza dell’art. 185 – bis (e 420 modificato, cui si è fatto cenno poc’anzi) il 21 giugno dello stesso 2013.

Ebbene, in questo anno abbondante appena trascorso, la giurisprudenza ha fornito spunti davvero interessanti.

Immediatamente, infatti, il Tribunale di Milano, (sez. IX civ., decreto 26 giugno 2013), premesso che trattandosi di norma processuale risulta applicabile, in base al principio tempus regit actum, anche ai giudizi giĂ  pendenti alla data di entrata in vigore della stessa, ha inteso chiarire come si tratti della espressione “…di un principio generale (anche nell’art. 420 c.p.c. come riformato), anche per il fatto di distinguere espressamente tra proposta transattiva e conciliativa e per la difficoltĂ  di ammettere settori o comparti divisi dell’ordinamento in cui il giudice possa o non possa aiutare i litiganti a pervenire ad un assetto condiviso per la soluzione pacifica della causa”, con conseguente applicabilitĂ  anche a controversie relative a materie non ricomprese nell’ambito di previsione dell’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010.

Poco dopo, il Tribunale di Nocera Inferiore (sez. I civ., ordinanza 27 agosto 2013), nell’applicare l’art. 185 – bis ad un campo “incandescente” come quello dell’anatocismo bancario, dopo aver osservato che la proposta di soluzione formulata dal giudice era giustificata (anche) dalla circostanza che i costi delle rispettive spettanze legali, di un eventuale supplemento di C.T.U. e di altri eventuali eventuali adempimenti connessi avevano giĂ  superato il valore della controversia, ha affermato, tra l’altro, che il giudice stesso “…se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92”.

Ma è dopo l’entrata in vigore del riformato D.lgs 28/2010 che la situazione, dal punto di vista giurisprudenziale, ha iniziato ad evolversi verso scenari sempre piĂš innovativi.

Infatti, il Tribunale di Roma (sez. XIII civ., ordinanza 24 ottobre 2013) ha immediatamente dato il via all’orientamento per il quale la mediazione endoprocedimentale ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c. è cumulabile con la mediazione delegata ex art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010.

Nel provvedimento in esame, infatti, il giudice capitolino, formulata la proposta e assegnato un congruo termine per la valutazione della medesima, dispone che “…dalla eventuale infruttosa scadenza del suddetto termine, decorrerĂ  quello ulteriore di gg. 15 per depositare presso un organismo di mediazione, a scelta delle parti congiuntamente o di quella che per prima vi proceda, la domanda di cui al secondo comma dell’art. 5 del decreto; con il vantaggio di poter pervenire rapidamente ad una conclusione, per tutte le parti vantaggiosa, anche dal punto di vista economico e fiscale (cfr. artt. 17 e 20 del decr. legisl. 4.3.2010 n. 28), della controversia in atto.

Viene infine fissata un’udienza alla quale in caso di accordo  le parti potranno anche non comparire; viceversa, in caso di mancato accordo, potranno, volendo, in quella sede fissare a verbale quali siano state le loro posizioni a riguardo (relativamente alla sola proposta del giudice), anche al fine di consentire l’eventuale valutazione giudiziale della condotta processuale delle parti ai fini degli artt. 91 e 96 III° cpc”.

In altri casi, la cumulabilità tra i due istituti è stata affermata “in due tempi”, disponendo cioè la mediazione ex art. 5, co. 2, a seguito della mancata accettazione di una delle parti della proposta transattiva o conciliativa formulata dal giudice.

Ad esempio, il Tribunale di Milano (sez. spec. in materia di impresa, ordinanza 11 novembre 2013), avendo formulato una proposta transattiva ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., a fronte della quale “...il convenuto dichiara di essere disponibile a chiudere la lite con tale versamento da parte sua. L’attore dichiara che tale soluzione non è per lui accettabile(…)visto l’art.5 secondo comma del d.lgs. n.28/2010 nell’attuale sopravvenuta formulazione; valutata la natura della lite, i rapporti familiari tra le parti e il comportamento delle stesse anche all’odierna udienza; ritenutane in base a tali elementi l’utilitĂ ;

dispone l’esperimento del procedimento di mediazione, assegnando alle parti il termine di quindici giorni per dare inizio alla mediazione e fissando per la prosecuzione del giudizio l’udienza del (…) riservato ogni altro provvedimento”.

E non solo.

Con la successiva ordinanza 5 dicembre 2013, il Tribunale di Roma,  sez. XIII civ., osserva come la circostanza “…che l’attore abbia proposto prima e fuori dalla causa una domanda di mediazione (non ha rilevanza – ai fini che qui interessano – la natura

volontaria o obbligatoria), non sia impeditiva all’esercizio ed all’attivazione da parte del Giudice della mediazione demandata di cui all’art. 5 co. II del decr. legisl. 28/2010 nella versione riformata dal D.L.69/13 cit.”.

Con la pronuncia in parola si afferma dunque non solo l’utilizzabilitĂ  della mediazione delegata, eventualmente preceduta da una proposta transattiva o conciliativa ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c., laddove un tentativo di mediazione sia giĂ  stato infruttuosamente esperito ante causam, ma anche la medesima possibilitĂ  laddove si tratti di materia non assoggettata al regime di obbligatorietĂ  del tentativo conciliativo (nella quale ipotesi – quindi – una fattispecie originariamente “a mediazione non obbligatoria” diviene condizionata all’esperimento del tentativo in via successiva, a seguito, cioè,  dell’ordine del giudice di cui all’art, 5, co. 2).

Nella medesima ordinanza, il Tribunale evidenzia la sostanziale libertĂ  (nei limiti – ovviamente – della tempistica processuale fissata dal legislatore) per il giudice in ordine alla scelta del momento piĂš idoneo alla formulazione della proposta e sottolinea, altresĂŹ, l’importanza del ruolo rivestito dai difensori a fronte della proposta stessa: “…Il momento in cui il Giudice invia le parti in mediazione è svincolato da rigiditĂ  processuali se non quelle molto avanzate del giudizio (conclusioni/discussione), consentendogli di individuare e di scegliere il momento piĂš propizio in relazione alle circostanze ed agli sviluppi della causa (e ciò anche in relazione alle difese articolate dalle parti).

La possibilitĂ  (…) di rappresentare pacatamente, con equidistanza ed imparzialitĂ , i punti di debolezza e di forza delle rispettive posizioni, consente di esaltare la sensibilitĂ  culturale e giuridica dei difensori, che tanto ruolo hanno nella mediazione riformata. E, tramite essi, parlare alle parti che pertanto dovranno essere informate nel modo piĂš ampio e sostanziale dai difensori circa il contenuto del provvedimento,

al fine che esse possano, esattamente come in ambito sanitario, determinarsi verso la scelta migliore da assumere, in ordine alla quale è precondizione una adeguata consapevolezza.

Compito dei difensori è quello di evocare la possibilitĂ  per le parti, cogliendo le potenzialitĂ  del provvedimento del Giudice, di trovare ragionevoli soluzioni e punti di accordo, non celando, in mancanza, i possibili sviluppi negativi delle aspettative che l’inevitabile antagonismo insito nella avviata contesa giudiziaria tende, per ciascuna delle parti, a radicare ed esaltare.

Con la mediazione demandata si evita di intraprendere percorsi spesso giĂ  condannati in partenza (si pensi ad una mediazione obbligatoria prima della causa nella quale saranno protagonisti necessari soggetti terzi, come assicurazioni successivamente chiamate; ovvero a situazioni in ordine alle quali le risultanze della consulenza tecnica disposta dal giudice sono determinanti per meglio fissare l’ubi consistam della lite); e ciò perchĂŠ è il Giudice che sceglie, con oculatezza, il momento migliore per disporne l’avvio”.

Si tratta di orientamenti ormai largamente condivisi.

Una sorta di sintesi degli approdi cui la giurisprudenza sembra essere ormai pervenuta in tema di cumulabilitĂ  tra mediazione endoprocedimentale e mediazione delegata e, soprattutto, con riferimento ai temi appena trattati della partecipazione personale delle parti al procedimento di mediazione dell’effettivo svolgimento del medesimo, è rintracciabile nell’ampia e chiarissima motivazione della poc’anzi ricordata ordinanza del 16 luglio 2014 del Tribunale di Palermo, sez. I civile.

Sotto il primo profilo, il Giudice, premesso che sussistono nel caso di specie tutti i presupposti per la formulazione di una proposta ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c. (e con gli effetti, aspetto quest’ultimo di particolare rilevanza, di cui all’art. 91 c.p.c.), anticipa che “…comunque, in caso di mancata accettazione della proposta in questione, questo giudice disporrĂ  la mediazione ex officio iudicis”, strumento quest’ultimo espressione del vero e proprio potere attribuito dalla legge al giudice di “…imporre alle parti di intraprendere un procedimento di mediazione nel corso del processo (in passato, invece, il giudice poteva solo invitarle a svolgere un tentativo stragiudiziale di mediazione, attendendo l’eventuale risposta positiva delle parti), in tal modo creando una nuova condizione di procedibilitĂ  (sopravvenuta) per ordine del giudice. Si tratta di una norma che rimette al giudice l’effettivitĂ  di tale canale di accesso alla mediazione (che opera non quale filtro preventivo alle liti, ma successivo e non per questo meno utile ed efficace) e può operare in ogni lite, purchĂŠ abbia ad oggetto diritti disponibili”.

Per quanto concerne poi gli aspetti relativi alle modalitĂ  del tentativo di mediazione, premesso che occorre domandarsi che cosa occorra in realtĂ  che risulti espletato dalle parti affinchè l’ordine del giudice possa considerarsi adempiuto, il Tribunale mostra di aderire all’impostazione esaustivamente esplicata dai giudici fiorentini nelle    citate ordinanze del 17 e 19 marzo 2014, in base alla quale il tentativo deve essere effettivo.

Il Tribunale, dunque, ribadisce che non avrebbe alcuna ragion d’essere una dilazione del processo civile per un mero adempimento burocratico, non potendosi in altro modo definire un tentativo che si risolva esclusivamente nella comparizione delle parti (o, peggio, dei soli avvocati delle stesse) dinanzi al mediatore per esprimere il proprio “no” aprioristico ad aprire un tavolo di discussione.

Ciò, evidentemente, finirebbe con lo svilire il concetto stesso di mediazione quale condizione di procedibilitĂ  della domanda giudiziale. Pertanto, occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione, ponendosi, altrimenti, un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione.

In sostanza, dunque, non può non sottolinearsi il ruolo fondamentale che il nuovo quadro normativo ha inteso assegnare alla figura del giudice al fine della ricerca di soluzioni conciliative che effettivamente possano rappresentare il massimo vantaggio ottenibile dalle parti in lite.

Da un lato, infatti, il Legislatore ha potenziato detto ruolo  prevedendo per il giudice la possibilitĂ  di formulare una proposta conciliativa, fondata – dunque – sulla natura della controversia, sullo stato dell’istruzione e  – last but not least, sul comportamento delle parti; dall’altro ha trasformato la mediazione delegata in uno strumento forte, con il quale il giudice può “spingere” (e non piĂš meramente invitare) le parti ad instaurare la procedura dinanzi ad un organismo territorialmente competente.

Si è visto quale considerazione – fin dal principio – una consistente parte della Magistratura abbia riservato alle nuove potenzialitĂ  attribuitele: basti pensare alla possibilitĂ  di cumulo dei due istituti, in forza della quale la proposta formulata dal giudice ex art. 185 – bis, ove non accolta dalle parti, potrĂ  comunque rappresentare una valida base di partenza per il successivo tentativo presso l’organismo adito “d’ordine” del giudice stesso.

Lo “sviluppo autonomo” della proposta, dunque.

Ben potrĂ , infatti, il mediatore, anche sulla base dell’eventuale proposta formulata dal giudice e dei motivi per i quali una delle parti (o entrambe) non abbia ritenuto di accoglierla, estendere la mediazione a profili emersi successivamente alla formulazione della proposta stessa o, comunque, se giĂ  esistenti, non entrati nel thema decidendum, superando cosĂŹ il vincolo rappresentato, nel giudizio, dalla corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

D’altra parte, si tratta di aspetti che la giurisprudenza ha sottolineato giĂ  in sede di prime esperienze applicative.

Basti pensare a passaggi come “Sotto tale ultimo profilo, vale a dire la possibilitĂ  che le parti, assistite dai rispettivi difensori, possano trarre utilitĂ  dall’ausilio, nella ricerca di un accordo,  ed anche alla luce della proposta del Giudice, di un mediatore professionale di un organismo che dia garanzie di professionalitĂ  e di serietĂ , è possibile prevedere, anche all’interno dello stesso provvedimento che contiene la proposta del Giudice, un successivo percorso di mediazione demandata dal magistrato” (cfr. Tribunale di Roma, sez. XIII civ., ord. 24 ottobre 2013); o, ancora,  “…i mediatori ben potrebbero estendere la ÂŤtrattativa (rectius: mediazione)Âť ai crediti maturati successivamente alla instaurazione dell’odierna lite e non fatti valere in questo processo, cosĂŹ essendo evidente che l’eventuale soluzione conciliativa potrebbe definire il conflitto, nel suo complesso, mentre la sentenza di appello potrebbe definire, tout court, solo una lite, in modo parziale” (cfr. Tribunale di Milano, sez. IX civ., ord. 29 ottobre 2013).

La giurisprudenza ha, allo stato attuale, la chiave (unica?) per la diffusione delle soluzioni alternative delle controversie civili. Non rimane che sperare che i giudici continuino ad applicare, in forma sempre più estesa, gli strumenti che il legislatore, al di là delle critiche “tecniche” ha comunque fornito loro.

Le conseguenze della mancata partecipazione al procedimento di mediazione

Occorre a questo punto soffermarsi su un ulteriore aspetto nel quale il contributo della giurisprudenza può rivelarsi non meno determinante.

Mi riferisco alle conseguenze della mancata partecipazione, senza giustificato motivo, al procedimento di mediazione (ovvero  della partecipazione – escamotage, vale a dire semplicemente finalizzata ad esprimere la “volontà” di non esperire il tentativo).

Come è noto, l’art. 8, ult. co., D.lgs 28/2010 prevede che dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo il giudice possa trarre argomento di prova ai sensi dell’art. 116, co. 2, c.p.c., condannando, altresĂŹ, la parte costituita che non abbia partecipato al procedimento di mediazione, sempre senza valide giustificazioni, al versamento di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio.

Il giudice, per l’appunto.

Il mediatore, dal canto suo, dovrà limitarsi a dare atto, nel verbale, della mancata partecipazione. Allo stesso modo il mediatore ben potrà dare atto del mancato svolgimento del tentativo in presenza di entrambe le parti, senza poter entrare nel merito delle eventuali motivazioni rappresentate dalla parte invitata, come agevolmente si può evincere dal disposto degli artt. 9 e 10 D.lgs 28/2010, relativi, come è noto, al “Dovere di riservatezza” e “Inutilizzabilità e segreto professionale”.

Pertanto, in tale seconda ipotesi, il mediatore darà atto nel verbale che la procedura si è avviata, che le comunicazioni sono state ritualmente effettuate e che le parti si sono presentate al primo incontro, senza però che alcun tentativo di mediazione abbia potuto effettivamente svolgersi.

Ora, giĂ  da tempo si è affermato in giurisprudenza il principio secondo cui il mancato esperimento del tentativo di mediazione, senza giustificato motivo, oltre beninteso le conseguenze di cui all’art. 8, ult. co., cui si è appena fatto cenno, possa configurare la c.d. responsabilitĂ  processuale aggravata, di cui all’art. 96, co. 3, c.p.c., secondo il quale “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresĂŹ condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Si tratta, come è noto, di una sanzione che tende a punire l’abuso degli strumenti processuali. In altri termini, la condanna inflitta ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c. assume una doppia valenza: da un lato costituisce un risarcimento (coprendo un danno “presunto” della parte) e dall’altro ha la funzione di una vera e propria sanzione (il giudice pronuncia la condanna consapevole degli importanti effetti che essa avrĂ  anche al di lĂ  del giudizio in cui la stessa è resa, ossia per sottolineare la disapprovazione per l’utilizzo emulativo dello strumento processuale).

Non può, evidentemente, sfuggire la portata che può avere l’applicazione (sistematica) di detta disposizione alle ipotesi in questione, vale a dire di mancata partecipazione o di “partecipazione  fittizia” al procedimento di mediazione.

A tale proposito, ad esempio, il Tribunale di S.Maria Capua Vetere, con sent. 23 dicembre 2013, ha accolto la richiesta di condanna ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c., ove sia ravvisabile l’elemento soggettivo della mala fede in capo ad una delle parti la quale “…anzichĂŠ recepire l’invito della controparte che avrebbe potuto condurre ad una soluzione del problema, abbia preferito adire il Tribunale”.

Secondo la pronuncia in esame, infatti, detto comportamento andrebbe ad evidenziare un’ottica conflittuale antitetica alla nuova prospettiva alla quale sembra decisamente orientato il legislatore nell’attuale fase storica, come dimostrato peraltro, dalle reintroduzione dell’obbligatorietĂ  del tentativo di mediazione a seguito del c.d. “decreto del fare” e relativa conversione.

Secondo il giudice, tale nuova prospettiva non può non attribuire al difensore un ruolo fondamentale, prima ancora che nella fase giudiziale, nell’attivitĂ  di mediazione delle controversie, muovendosi ormai verso una concezione del ricorso al tribunale quale “…extrema ratio per la soluzione della quasi totalitĂ  delle controversie civili”.

NĂŠ si tratta dell’unica pronuncia che muova da premesse del genere. Tutt’altro.

Anche per il Tribunale di Firenze (sez. III civ., sent. 17 marzo 2014) deve essere accolta la richiesta di condanna ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c. “…qualora si ravvisi l’elemento soggettivo della mala fede in capo alla parte che, anzichĂŠ recepire l’invito della controparte che avrebbe potuto condurre ad una soluzione del problema, abbia preferito adire il Tribunale. La condanna ex art. 96 cpc può essere infatti legata al comportamento tenuto non solo nella fase prettamente processuale, ma anche in quella della mediazione e, in particolare, al fatto che la parte non si presenti (senza giustificarsi) in mediazione e che abbia poi agito in giudizio pur nella consapevolezza dell’infondatezza delle tesi sostenute”.

Una pronuncia successiva (Trib. Roma, sent. n. 4140/2014), ha altresĂŹ condannato ai sensi dell’art. 96 c.p.c. un’assicurazione in considerazione dei comportamenti da questa tenuti, tanto nella fase della mediazione quanto in quella del giudizio.

Osserva in fatti il giudice che detta parte “da un lato, non si era presentata, e senza giustificarsi, nella fase mediatoria; dall’altro, aveva resistito alla domanda attorea “pur nella consapevolezza dell’infondatezza delle tesi sostenute e nel difetto dellanormale diligenza con cui era stata istruita la pratica assicurativa”.

L’applicazione giudiziale della sanzione in parola, estesa dunque ad un momento pre – processuale (ove si tratti di mediazione ex lege) ovvero extra – processuale (ove, invece, si tratti di mediazione delegata dal giudice), può rappresentare, come risulta agevole rilevare, un congruo deterrente alla “desertificazione” e allo “svuotamento” dei procedimenti di mediazione.

Si tratta, pertanto, di un profilo che non può e non deve essere sottovalutato nel momento in cui la parte invitata in mediazione è chiamata ad effettuare le proprie scelte. Pertanto, non potrĂ  non essere compreso tra gli aspetti che l’avvocato, in sede di informazione preventiva all’assistito, dovrĂ  esplicare in modo dettagliato ed esaustivo.

Beninteso, occorre poi chiarire – e qui il contributo giurisprudenziale non può che essere determinante – cosa debba intendersi per “giustificati motivi” che effettivamente legittimino la diserzione del procedimento.

Certamente, non potrĂ  ritenersi giustificata la mancata partecipazione fondata sull’asserita fondatezza della propria tesi (Tizio mi invita in mediazione, ma io, siccome “ho ragione” sono giustificato nel non partecipare al procedimento…).

A tale proposito, il Tribunale di Roma, sez. XIII civ., nella recente sentenza 29 maggio 2014, ha precisato, traslando dalla fattispecie concreta al piano generale dei principi, che in questo modo “…si potrebbe infatti affermare che ogni qualvolta la controparte ritenga erronea la tesi della parte che l’ha convocata in mediazione (come in questo caso), e pertanto inutile la sua partecipazione all’esperimento di mediazione, essa sia validamente dispensata dal comparirvi.

L’esponente non si avvede nell’aporia in cui incorre posto che così ragionando sussisterebbe sempre in ogni causa un giustificato motivo di non comparizione, se è vero com’è vero che se la controparte condividesse la tesi del suo avversario la lite non potrebbe neppure insorgere e se insorta verrebbe subito meno. La ragione d’essere della mediazione si fonda proprio sulla esistenza di un contrasto di opinioni, di vedute, di volontà, di intenti, di interpretazioni etc., che il mediatore esperto tenta di sciogliere favorendo l’avvicinamento delle posizioni delle parti fino alraggiungimento di un accordo amichevole”.

Non può che condividersi.

Resta però da capire quali possano essere motivi tali da giustificare la mancata partecipazione (e non – ovviamente – la richiesta all’organismo di rinviare la data del primo incontro ad es. per malattia o per gravi necessitĂ  sopravvenute), dal momento che l’unica, certa ragione legittimante l’assenza, vale a dire l’istanza presentata ad un organismo geograficamente “impossibile”, è stata eliminata in radice con l’introduzione della competenza territoriale ai sensi del novellato art. 4 D.lgs 28/2010.

La cultura della mediazione ed il contributo giurisprudenziale

Alcune considerazioni finali, alla luce di quanto finora analizzato, si impongono.

Che nel nostro paese la cultura della mediazione sia ad uno stadio di sviluppo embrionale è una verità sotto gli occhi di tutti.

D’altra parte il legislatore, dovendo necessariamente perseguire la strada degli interventi drastici, inevitabili nell’attuale situazione della giustizia civile, ha optato (rectius, dovuto optare) per l’obbligatorietĂ , in una vasta gamma di materie, per garantire il “decollo” dell’istituto e la medesima via ha ribadito a seguito dell’intervento della Corte costituzionale datato autunno 2012.

Al tempo stesso, però, c’è stato il coinvolgimento “formale” dell’Avvocatura e, soprattutto, il potenziamento degli strumenti a disposizione dei giudici per produrre la fuoriuscita delle liti dai giudizi giĂ  instaurati.

Si può dunque affermare che, come nella realtĂ  anglosassone, l’avvento di una vera cultura della mediazione in luogo di quella del conflitto che, ad avviso di scrive, tanti danni ha fin qui provocato, sia oggi nelle mani dei giudici.

In particolare, la nuova mediazione delegata dal giudice sembra aprire scenari del tutto innovativi per l’ordinamento giuridico italiano, i cui effetti potranno positivamente riflettersi, se l’istituto sarĂ  assistito dal consolidarsi dei principi finora emersi in giurisprudenza, sugli interessi dei cittadini e delle imprese, che, non dimentichiamolo mai, sono i soggetti quotidianamente esposti ai nefandi effetti della crisi della giustizia civile.

Ciò che emerge dalla piĂš illuminata giurisprudenza è il graduale (ma costante) affermarsi di un nuovo modello di gestione del contenzioso, tale da far emergere gli interessi realmente sottesi a situazioni spesso sedimentatesi nel lungo periodo in luogo delle posizioni, preconcette ed apparentemente immutabili, proprie dell’approccio delle parti  alla vicenda  giudiziale.

Il conflitto può essere gestito solo comprendendone le ragioni piĂš profonde, attraverso uno studio che deve necessariamente muovere da presupposti radicalmente diversi da quelli su cui poggia la cultura tradizionale del conflitto, volti all’obiettivo della creazione di soluzioni conformi, nella misura massima possibile, alla realizzazione dell’interesse di tutte le parti coinvolte nella vicenda  contenziosa.

Valori sociali, dunque, tra cui quello, ormai non piĂš differibile, della deflazione dei carichi della giustizia civile, i cui costi, in termini di competitivitĂ  del sistema paese, sono ormai a tutti ben noti.

La mediazione delegata, cosĂŹ come strutturata a seguito della conversione del “decreto del fare”, unitamente alla mediazione endoprocedimentale di cui all’art. 185 – bis c.p.c., può veramente rappresentare la chiave per la diffusione di un diverso approccio che consenta, nel tempo, al pubblico di apprezzare in profonditĂ  i pregi della soluzione condivisa delle liti, cosĂŹ da fungere da volano per la piĂš piena affermazione della mediazione tout court quale strumento “normale” di risoluzione di numerose tipologie di controversie civili e commerciali.

In tema di mediazione disposta dal giudice e, in particolare, di proposta transattiva e conciliativa formulata dallo stesso, giĂ  nell’autunno del 2013 il Tribunale di Fermo (ordinanza 17 ottobre 2013) ebbe modo di formulare quelle che furono opportunamente definite, in dottrina, vere e proprie “linee guida” (cfr. Giovanni Matteucci, Conciliazione endoprocessuale e mediazione delegata: tenetele d’occhio, in www.blogconciliazione.com): “…rilevato che, a seguito dell’ultima novella al c.p.c., sono stati tra l’altro ulteriormente promossi gli istituti finalizzati alla fuoriuscita dal processo, rispetto ai quali, per quello che qui interessa, occorre sottolineare la presenza dei seguenti dati:

1) riconoscimento ope legis a tutti gli avvocati dell’idoneità ad essere mediatori, riconoscimento il quale, seppure specificamente previsto con riferimento alla legge speciale sulla cosiddetta media-conciliazione, non può non essere preso come caratteristica della stessa professione di avvocato

2) riconoscimento al giudice di un forte potere-dovere conciliativo (o “transattivo”), già anticipato, peraltro, da questo stesso giudice in via d’interpretazione sistematica della pregressa normativa

3) libertà/informalità della metodologia con la quale si svolge il tentativo di composizione, con l’unico limite del coinvolgimento paritario delle parti

4) tendenziale ricaduta sul regime delle spese in caso di proposta conciliativa fallita.

Considerato che, se questi sono i punti salienti che individuano il nuovo assetto delle possibilitĂ  di conciliazione/transazione, ne discende la necessitĂ , piĂš che la possibilitĂ , di iniziare sistematicamente una composizione secondo le seguenti direttive:

a) responsabilizzazione dei difensori che, sia pure su impulso ed indirizzo del giudice, si vedono investiti di una proposta che possono gestire ulteriormente con i loro assistiti , ai fini di una composizione;

b) necessitĂ  di attivare programmi sistematici di fuoriuscita dal processo nelle controversie di modesto valore, inferiore ad euro 10.000, salvo casi particolari da individuare con criteri predeterminati;

c) necessità che non si protragga un contenzioso praticamente inutile in quanto in tutto o in parte si tratta di questioni ‘seriali’ su cui il giudice si è già pronunciato, magari con sentenze “pilota” (es., rapporti bancari in materia di anatocismo)”.

Se i giudici mostreranno di ispirarsi ad una logica siffatta anche nel prossimo futuro, come sembra probabile alla luce degli sviluppi che si sono in precedenza evidenziati, ciò rappresenterà molto probabilmente uno dei contributi piÚ rilevanti in vista della costruzione e dello sviluppo, nel nostro paese, di un sistema di giustizia civile piÚ efficiente e piÚ rispondente alle concrete (e sempre piÚ pressanti) istanze dei cittadini e del mondo produttivo.

In una parola, l’obiettivo – ormai indifferibile – è quello di una giustizia civile piĂš giusta. L’occasione, occorre conclusivamente ribadirlo, è di quelle da non perdere: i rimpianti, in caso contrario, sarebbero davvero troppi.

 

mediazione obbligatoria conciliazione

Tribunale di Palermo – sez. I civile: Ordinanza 16 luglio 2014

Il Tribunale di Palermo conferma l’orientamento favorevole all’effettivitĂ  della mediazione

Commento

Con l’ordinanza in commento, il Tribunale di Palermo oltre a riproporre l’ormai consueto schema fondato sull’utilizzo combinato degli strumenti che il legislatore ha ritenuto di fornire ai giudici per favorire al massimo la fuoriuscita dai processi pendenti, torna con forza sull’esigenza di effettivitĂ  del tentativo di mediazione delegata (e, per estensione, di qualsiasi tentativo di mediazione…) originariamente affermata dalla c.d. giurisprudenza fiorentina (cfr. ordd. 17 e 19 marzo 2014).

Sotto il primo profilo, il Giudice, premesso che sussistono nel caso di specie tutti i presupposti per la formulazione di una proposta ai sensi dell’art. 185 – bis c.p.c. (e con gli effetti, aspetto quest’ultimo di particolare rilevanza, di cui all’art. 91 c.p.c.), anticipa che “…comunque, in caso di mancata accettazione della proposta in questione, questo giudice disporrĂ  la mediazione ex officio iudicis”, strumento quest’ultimo che deveritenersi espressione del potere attribuito dalla legge al giudice di “…imporre alle parti di intraprendere un procedimento di mediazione nel corso del processo (in passato, invece, il giudice poteva solo invitarle a svolgere un tentativo stragiudiziale di mediazione, attendendo l’eventuale risposta positiva delle parti), in tal modo creando una nuova condizione di procedibilitĂ  (sopravvenuta) per ordine del giudice. Si tratta di una norma che rimette al giudice l’effettivitĂ  di tale canale di accesso alla mediazione (che opera non quale filtro preventivo alle liti, ma successivo e non per questo meno utile ed efficace) e può operare in ogni lite, purchĂŠ abbia ad oggetto diritti disponibili”.

Per quanto concerne poi gli aspetti relativi alle modalitĂ  del tentativo di mediazione, premesso che occorre domandarsi che cosa occorra in realtĂ  che risulti espletato dalle parti affinchè l’ordine del giudice possa considerarsi adempiuto, il Tribunale mostra di aderire all’impostazione esaustivamente esplicata dai giudici fiorentini nelle ben note ordinanze 17 e 19 marzo, in base alla quale il tentativo deve essere effettivo.

Il Tribunale, dunque, ribadisce che non avrebbe alcuna ragion d’essere una dilazione del processo civile per un mero adempimento burocratico, non potendosi in altro modo definire un tentativo che si risolva esclusivamente nella comparizione delle parti (o, peggio, dei soli avvocati delle stesse) dinanzi al mediatore per esprimere il proprio “no” aprioristico ad aprire un tavolo di discussione.

Ciò, evidentemente, finirebbe con lo svilire il concetto stesso di mediazione quale condizione di procedibilitĂ  della domanda giudiziale. Pertanto, occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione, ponendosi, altrimenti, un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione.

In sostanza, dunque, come da ormai consolidata giurisprudenza, si individuano le ragioni della “impossibilitĂ  di iniziare la procedura”, di cui all’art. 8, co. 1, D.lgs 28/2010, nelle sole questioni preliminari o pregiudiziali di natura oggettiva, avendo cura di ribadire come non sia previsto in alcun modo che le parti manifestino una sorta di volontĂ  di partecipazione al tentativo di mediazione effettivamente inteso.

Infatti, il Tribunale rileva come sussista “…un nodo interpretativo da risolvere. Il Legislatore ha espressamente regolato il regime giuridico sotteso alla condizione di procedibilitĂ  e previsto, all’art. 5 comma 2bis, che ÂŤquando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilitĂ  della domanda giudiziale la condizione si considera avveratase il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordoÂť. La disposizione, dunque, sembra richiamare espressamente “il primo incontro” di cui all’art. 8 comma I cit.”. Pertanto, “…il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilitĂ , che le mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro. Tuttavia, egli può comunque richiedere che in questo primo incontro il tentativo di  mediazione sia stato effettivo”.

Naturalmente, una lettura frettolosa ed approssimativa dell’art. 8 D.lgs 28/2010  sembrerebbe giustificare un’interpretazione per cui se le parti e i loro avvocati non  intendessero effettuare un vero tentativo di conciliazione (verosimilmente al solo scopo di non versare l’indennitĂ  di mediazione prevista per il rispettivo scaglione di riferimento) ben potrebbero esprimere in questa prima parte del primo incontro, di natura preliminare, la loro volontĂ  contraria all’inizio di una mediazione, con conseguente chiusura del procedimento. La disposizione normativa in questione, cosĂŹ interpretata, sarebbe però a dir poco assai discutibile, in quanto rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa.

Ragion per cui, il giudice siciliano ritiene, come anticipato poc’anzi, che “…Il mediatore non dovrebbe chiedere, come invece ritenuto da molti, se le parti vogliono andare avanti. Egli non deve verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma li invita ad esprimersi sulla “possibilità”di iniziare la procedura di mediazione. E nel punto in cui la norma dice che “nel caso positivo, procede con lo svolgimento” essa non va intesa nel senso che se gli avvocati dicono che c’è tale possibilitĂ  si va avanti, mentre se dicono che non sussiste questa possibilitĂ  non si procede oltre. È il mediatore che, tenuto conto di quello che dicono le parti e gli avvocati, valuta se sussiste questa possibilitĂ  (nella norma, infatti, non si legge “nel caso di risposta positiva”, ma “nel caso positivo”). Si comprende, quindi, il motivo per cui il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10 contempla (come il comma 2 bis dell’art. 5) la possibilitĂ  di un accordo tra le parti in sede di primo incontro (prevedendo che in caso di mancato incontro non è dovuto compenso all’organismo)”.

 

Testo integrale

TRIBUNALE DI PALERMO  –  Sezione prima civile

Il Giudice

sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 23.7.2014;

OSSERVA

Parte attrice ha avanzato domanda di risarcimento danni (per € 30.000) nei confronti dell’Università degli Studi di …… lamentando una negligenza ed un’imperizia professionale di personale sanitario dell’Università in questione, personale che, nel rimuovere un catetere venoso precedentemente applicato nella mano destra, avrebbe compiuto un’errata manovra causando la rottura dell’agocannula all’interno della vena, con conseguente necessità di intervento chirurgico di asportazione del tratto venoso trombizzato.

Costituendosi, l’Università convenuta ha dedotto l’inesistenza di alcun comportamento colposo del suo personale sanitario e parasanitario, che si sarebbe scrupolosamente attenuto, nel praticare la terapia infusionale oggetto del giudizio, a quella che è la tecnica generalmente seguita in casi analoghi.

In fase istruttoria è stata disposta CTU. Nell’elaborato depositato dal consulente d’ufficio si legge che “è da censurare il mancato riconoscimento della rottura dell’agocannula, da cui è derivato il realizzarsi di una tromboflebite che ha costretto l’attrice, dopo circa un mese, a far rientro presso il pronto soccorso ed essere sottoposta alla rimozione chirurgica del corpo estraneo. Sulla base di quanto riferito è evidente la sussistenza del nesso di causalità materiale tra l’evento dannoso occorso in occasione del trattamento sanitario presso il Policlinico universitario di ….. (frammento di catetere venoso erroneamente lasciato in vena) in data 12.09.1998 e le lesioni accertate nei giorni seguenti (algia e gonfiore a causa dell’infiammazione instauratasi)… La condotta del sanitario che ha rimosso A.V.P.(accertamento venoso periferico) appare censurabile per non avere appurato la integrità dell’AVP all’atto della rimozione. Il tempestivo riconoscimento della rottura del catetere avrebbe infatti permesso di attivare la procedura di rimozione chirurgica nell’immediatezza, impedendo di fatto l’oltremodo perdurare della sintomatologia algico disfunzionale a carico dell’arto destro sino al 29.10.2008, in occasione del secondo accesso al Pronto soccorso allorquando venne rimosso chirurgicamente il corpo estraneo”.

Il CTU ha poi accertato la sussistenza di un’inabilità temporanea assoluta di giorni 20 e di un’inabilità temporanea assoluta di altri giorni 20, nonché (in considerazione di un esito cicatriziale chirurgico in prossimità del polso destro di circa 3 cm di lunghezza e di una sintomatologia algica) di un danno biologico del 2%.

Ed a conclusioni sostanzialmente identiche era già arrivato altro consulente d’ufficio nel giudizio in passato instaurato dall’attrice per gli stessi fatti nei confronti di altro ente convenuto e conclusosi con sentenza di questa Sezione del 27.4.2007 dichiarativa del difetto di legittimazione passiva di tale convenuto.

Orbene, ciò premesso, si ritiene adesso opportuno formulare alle parti, ex art. 185 bisc.p.c. e con effetti ex art. 91 c.p.c., la seguente proposta conciliativa:

art. 1) pagamento ad opera di parte attrice in favore di parte convenuta della somma di € 7.032,60 (somma calcolata tenendo conto di quanto accertato dal CTU, dei valori risultanti dalle tabelle del Tribunale di Milano sulla liquidazione del danno non patrimoniale, nonché della rivalutazione monetaria e degli interessi);

art. 2) rinunzia ad opera delle parti a tutte le domande, eccezioni e difese di cui al presente giudizio;

art. 3) pagamento ad opera di parte convenuta in favore di parte attrice della somma di € 1.620,43 a titolo di spese di lite.

L’accettazione della detta proposta conciliativa comporterebbe per parte attrice il vantaggio di conseguire integralmente quanto riconosciuto dal CTU (sebbene ciò non corrisponda a quanto dalla stessa parte attrice richiesto) e di ottenere il rimborso delle spese di lite fino ad oggi sostenute e comporterebbe, altresì, per parte convenuta, il vantaggio di non corrispondere somme ulteriori rispetto a quelle oggetto dell’accertamento del CTU e di bloccare ad oggi (escludendo quindi le spese per la fase decisoria del presente processo e le spese per eventuali gradi successivi del giudizio) le spese di lite da pagare in favore di parte attrice.

Va quindi fissata apposita udienza al fine di verificare la posizione delle parti sulla detta proposta conciliativa.

Comunque, in caso di mancata accettazione della proposta in questione, questo giudice disporrĂ  la mediazione ex officio iudicis.

Sul punto è bene ricordare che, al di là dei casi di mediazione obbligatoria ex lege, la legge 98/13 ha pure stabilito che il giudice può – anche in grado di appello e valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti – disporre l’esperimento del procedimento di mediazione a pena di improcedibilità della domanda. La legge 98/13 attribuisce quindi al giudice il potere di imporre alle parti di intraprendere un procedimento di mediazione nel corso del processo (in passato, invece, il giudice poteva solo invitarle a svolgere un tentativo stragiudiziale di mediazione, attendendo l’eventuale risposta positiva delle parti), in tal modo creando una nuova condizione di procedibilità (sopravvenuta) per ordine del giudice. Si tratta di una norma che rimette al giudice l’effettività di tale canale di accesso alla mediazione (che opera non quale filtro preventivo alle liti, ma successivo e non per questo meno utile ed efficace) e può operare in ogni lite, purché abbia ad oggetto diritti disponibili;

Peraltro, la mediazione ex officio iudicis può essere disposta anche per i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della legge 98/13 (e ciò in forza del principio per cui tempus regit actum ed in quanto il nuovo comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 attribuisce un nuovo potere discrezionale al magistrato che va considerato come una nuova facoltà processuale e quindi applicabile dal momento dell’entrata in vigore della norma a tutti i procedimenti, compresi quelli pendenti) nonché pure per le materie diverse da quelle assoggettare a mediazione obbligatoria ex lege in base al comma 1 bis dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 (il che sembra del tutto evidente se si considera che per le materie di cui al citato comma 1 bis è già prevista una forma di mediazione obbligatoria ed a nulla varrebbe la mediazione ex officio iudicis).

Con particolare riferimento ai giudizi pendenti, va poi osservato che nelle materie già selezionate dal Legislatore per la mediazione obbligatoria ex lege (come la responsabilità medico-sanitaria rivendicata nel presente giudizio) può ritenersi sussistente una “presunzione semplice” di opportunità, avendo già la normativa formulato ex ante una prognosi favorevole quanto all’efficacia del procedimento di mediazione.

A ciò si aggiunga che la mediazione ex officio iudicis può poi essere disposta anche se una delle parti del processo è una Amministrazione Pubblica. Nelle fonti normative non si rinvengono, infatti, disposizioni che escludono le pubbliche amministrazioni dall’ambito di applicazione della disciplina introdotta. Pertanto, la normativa in materia di mediazione in ambito civile e commerciale trova applicazione anche in riferimento al settore pubblico, come pure si legge nella circolare del Dipartimento della funzione pubblica n. 9/2012.

È bene adesso svolgere qualche considerazione in relazione alle conseguenze derivanti dalla mancata attivazione ad opera delle parti della mediazione prescritta dal giudice. La soluzione preferibile è quella che ritiene necessaria l’emissione di una sentenza di improcedibilità della domanda, restando però da chiarire se tale tipo di decisione sia da ritenere non adottabile ogniqualvolta venga instaurato il procedimento di mediazione disposto dal giudice o se occorra qualcosa di più per ritenere adempiuto l’ordine giudiziale.

Secondo Trib. Firenze, sez. II civile, 19.3.2014 le condizioni verificatesi le quali può ritenersi correttamente eseguito l’ordine del giudice e può quindi considerarsi formata la condizione di procedibilità sono: 1) che vi sia stata la presenza personale delle parti; 2) che le parti abbiano effettuato un tentativo di mediazione vero e proprio (ed anche per Trib. Firenze, sez. spec. impresa, 17.3.2014 occorre la comparizione personale delle parti).

Nel suo articolato e ben strutturato ragionamento il giudice fiorentino (ord. 19.3.2014) parte dalla considerazione per cui l’art. 5 e l’art. 8 del d.lgs. 28/10 sono formulati in modo ambiguo, posto che nell’art. 8 sembra che il primo incontro sia destinato solo alle informazioni date dal mediatore ed a verificare la volontà di iniziare la mediazione (l’art. 8 prevede, infatti, che “durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”). Tuttavia, nell’art. 5, comma 5 bis, si parla di “primo incontro concluso senza l’accordo”. Sembra dunque che il primo incontro non sia una fase estranea alla mediazione vera e propria. Non avrebbe molto senso, secondo il Tribunale di Firenze, parlare di ‘mancato accordo’ se il primo incontro fosse destinato non a ricercare l’accordo tra le parti rispetto alla lite, ma solo la volontà di iniziare la mediazione vera e propria. Ciò a prescindere dalle difficoltà di individuare con precisione scientifica il confine tra la fase c.d. preliminare e la mediazione vera e propria (difficoltà ben nota a chi ha pratica della mediazione), data la non felice formulazione della norma.

Pertanto, il Tribunale di Firenze ha ritenuto necessario, al fine di spiegare la detta ambiguitĂ  interpretativa, ricostruire la regola avendo presente lo scopo della disciplina, anche alla luce del contesto europeo in cui si inserisce (direttiva 2008/52/CE).

Sei sono gli argomenti che hanno portato il Tribunale di Firenze a ritenere necessaria, per la formazione della condizione di procedibilità della domanda giudiziale dopo la mediazione ex officio iudicis, la presenza effettiva delle parti nel procedimento di mediazione e l’effettivo avvio di un sostanziale tentativo di mediazione:

1) i difensori, definiti mediatori di diritto dalla stessa legge, hanno sicuramente già conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità. Se così non fosse non si vede come potrebbero fornire al cliente l’informazione prescritta dall’art. 4, comma 3, del d.lgs 28/2010, senza contare che obblighi informativi in tal senso si desumono già sul piano deontologico (art. 40 codice deontologico ). Non avrebbe dunque senso imporre l’incontro tra i soli difensori e il mediatore solo in vista di un’informativa;

2) la natura della mediazione esige che siano presenti di persona anche le parti: l’istituto mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. L’assenza delle parti, rappresentate dai soli difensori, dà vita ad altro sistema di soluzione dei conflitti, che può avere la sua utilità, ma non può considerarsi mediazione. D’altronde, questa conclusione emerge anche dall’interpretazione letterale: l’art. 5, comma 1 bis e l’art. 8 prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo con l’assistenza degli avvocati, e questo implica la presenza degli assistiti;

3) ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione vuol dire in realtà ridurre ad un’inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori. Non avrebbe ragion d’essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere. La dilazione si giustifica solo quando una mediazione sia effettivamente svolta e vi sia stata un’effettiva chancedi raggiungimento dell’accordo alle parti. Pertanto occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione. Altrimenti, si porrebbe un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione;

4) l’informazione sulle finalità della mediazione e le modalità di svolgimento ben possono in realtà essere rapidamente assicurate in altro modo: 1. Dall’informativa che i difensori hanno l’obbligo di fornire ex art. 4 cit., come si è detto; 2. dalla possibilità di sessioni informative presso luoghi adeguati (v. direttiva europea) e, per quanto concerne il Tribunale di Firenze, presso l’URP (v. articolo 11 del protocollo Progetto Nausica 2 ) e da ultimo, sempre nell’ambito di tale Progetto, presso l’ufficio di orientamento gestito dal Laboratorio Unaltromodo dell’Università di Firenze;

5) l’ipotesi che la condizione si verifichi con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore per le informazioni appare particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare ”la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione. Come si vede, dunque, sono previsti plurimi livelli informativi e non è pensabile che il processo venga momentaneamente interrotto per un’ulteriore informazione anziché per un serio tentativo di risolvere il conflitto;

6) l’art. 5 della direttiva europea 2008/52/CE distingue le ipotesi in cui il giudice invia le parti in mediazione rispetto all’invito (sempre da parte del giudice) per una semplice sessione informativa: un ulteriore motivo per ritenere che nella mediazione disposta dal giudice viene chiesto alle parti (e ai difensori) di esperire la mediazione e cioè l’attività svolta dal terzo imparziale finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole (secondo la definizione  data dall’art. 1 del d.lgs. n. 28/2010) e non di acquisire una mera informazione e di rendere al mediatore una dichiarazione sulla volontà o meno di iniziare la procedura mediativa.

Alla luce delle considerazioni che precedono il giudice fiorentino ha considerato quale criterio fondamentale la ragion d’essere della mediazione, che ruota attorno all’esigenza di tentare realmente di pervenire ad una soluzione non giudiziale della controversia, ed ha affermato la necessità che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori come previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata.

Un’altra strada interpretativa è quella seguita (allo stato) dal Tribunale di Milano (strada, però, inaugurata prima della presa di posizione di Firenze): la condizione di procedibilità è soddisfatta anche quanto sia tenuto solo il primo incontro di mediazione senza accordo(l’incontro di cui all’art. 8 comma I d.lgs. 28/2010). Le differenze non sono di scarsa rilevanza. Nel primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. Si tratta, dunque, secondo il Tribunale di Milano, dell’incontro dedicato alla cd. valutazione di mediabilità e, cioè, dell’anticamera del procedimento mediativo.

Secondo il primo indirizzo illustrato (Tribunale di Firenze), per soddisfare la condizione di procedibilità questo primo incontro non basta: occorre dare effettivamente inizio alla procedura. Per il secondo indirizzo segnalato (Tribunale di Milano) questa prima relazione al tavolo di mediazione è già sufficiente.

La lettura che conferisce maggiore razionalità all’istituto è certamente quella fiorentina e ciò almeno per quanto riguarda l’effettivo tentativo di mediazione, considerato che è invece difficile sostenere che le parti debbano essere personalmente presenti, essendo loro diritto conferire eventualmente una procura di carattere sostanziale ad un altro soggetto (che può pure essere l’avvocato difensore).

Sussiste, però, un nodo interpretativo da risolvere. Il Legislatore ha espressamente regolato il regime giuridico sotteso alla condizione di procedibilità e previsto, all’art. 5 comma 2 bis, che «quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo». La disposizione, dunque, sembra richiamare espressamente “il primo incontro” di cui all’art. 8 comma I cit.

Il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilitĂ , che le mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro.

Tuttavia, egli può comunque richiedere che in questo primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettivo.

Certo, è vero che può sembrare che in questo primo incontro il mediatore potrebbe non avere neppure la possibilità di tentare un accordo se le parti non vogliono che ciò accada. Infatti, secondo quanto previsto dall’art. 8 del nuovo d.lgs. 28/10, “durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”.

Una prima lettura delle disposizioni normative pare giustificare un’interpretazione per cui se le parti e i loro avvocati non vogliono effettuare un vero tentativo di conciliazione (magari per non pagare il compenso all’organismo di mediazione) ben possono esprimere in questa prima parte del primo incontro, di natura preliminare, la loro volontà contraria all’inizio di una mediazione e il tutto finisce lì. La disposizione normativa in questione, così interpretata, sarebbe molto discutibile in quanto rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa. Il mediatore potrebbe pure pensare, alla luce di tale disposizione normativa, di non potere neppure tentare di verificare se effettivamente le posizioni delle parti sono inconciliabili. Se, infatti, in quest’ultimo caso si può parlare di un fallimento della mediazione, nel caso teoricamente consentito dal legislatore di manifestazione (anche ad opera di una sola delle parti) della sua volontà contraria alla mediazione vi sarebbe un aborto legale della mediazione. Peraltro, se si ritiene che ogni parte può impedire fin dall’inizio l’effettivo svolgimento del procedimento di mediazione, ognuno dei partecipanti sarebbe titolare di un diritto potestativo alla chiusura del procedimento e gli altri sarebbero tutti in una posizione di soggezione. Ed è da credere che tale diritto potestativo verrebbe spesso esercitato se si considera che, come accennato, è stato aggiunto il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10, secondo cui nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione.

Tuttavia, una corretta interpretazione (in linea con la ratio della direttiva europea – ed è noto che gli operatori nazionali sono tenuti, secondo la Corte di giustizia UE, a tentare un’interpretazione delle disposizioni nazionali conforme alle norme europee – che mira ad agevolare il più possibile la soluzione delle controversie in modo alternativo a quello giudiziario) è quella che ritiene che il mediatore, nell’invitare le parti e i loro procuratori a esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione, deve verificare se vi siano i presupposti per poter procedere nell’effettivo svolgimento della mediazione (il cui procedimento comunque già inizia con il deposito dell’istanza di mediazione). Tali presupposti sono, ad esempio, l’esistenza di una delibera che autorizza l’amministratore di condominio a stare in mediazione (così come previsto dalla legge 220/12) o l’esistenza di un’autorizzazione del giudice tutelare se a partecipare alla mediazione deve anche essere un minore ovvero la presenza di tutti i litisconsorti necessari. Il mediatore non dovrebbe chiedere, come invece ritenuto da molti, se le parti vogliono andare avanti. Egli non deve verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma li invita ad esprimersi sulla “possibilità”di iniziare la procedura di mediazione. E nel punto in cui la norma dice che “nel caso positivo, procede con lo svolgimento” essa non va intesa nel senso che se gli avvocati dicono che c’è tale possibilità si va avanti, mentre se dicono che non sussiste questa possibilità non si procede oltre. È il mediatore che, tenuto conto di quello che dicono le parti e gli avvocati, valuta se sussiste questa possibilità (nella norma, infatti, non si legge “nel caso di risposta positiva”, ma “nel caso positivo”). Si comprende, quindi, il motivo per cui il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10 contempla (come il comma 2 bis dell’art. 5) la possibilità di un accordo tra le parti in sede di primo incontro (prevedendo che in caso di mancato incontro non è dovuto compenso all’organismo).

In conclusione, in caso di mancata accettazione della proposta conciliativa formulata dal giudice, verrĂ  disposta la mediazione ex officio iudicis quale condizione di procedibilitĂ  della domanda giudiziale, condizione che si riterrĂ  formata soltanto se nel primo incontro il tentativo di mediazione sarĂ  effettuato dalle parti in modo effettivo.

Né rileva che la mediazione sia già stata tentata in via preventiva, in forza del d.lgs. 28/2010 nella versione antecedente la declaratoria di illegittimità costituzionale da parte della Consulta, in quanto parte convenuta non si è presentata in quella procedura (mentre dovrà presentarsi nella futura, eventuale mediazione ex officio iudicis) e poiché, dopo l’espletamento della CTU, vi sono ora maggiori possibilità di addivenire ad una soluzione transattiva basata sulle risultanze dell’accertamento peritale.

P.Q.M.

formula alle parti la proposta conciliativa indicata in parte motiva;

fissa per la verifica della posizione delle parti sulla detta proposta conciliativa l’udienza del giorno 29.9.2014, ore 12.00, riservandosi di disporre nell’indicata udienza, in caso di mancata accettazione della proposta conciliativa, l’esperimento del procedimento di mediazione ex officio iudicis quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, che si riterrà formata soltanto se nel primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettuato dalle parti in modo effettivo.

Si comunichi.

Palermo, 16.7.2014

Il Giudice

Michele Ruvolo

 

 

 

 

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Tribunale di Rimini: anche la mediazione ante causam deve essere effettiva

Tribunale di Rimini, sez. civile, ordinanza 16 luglio 2014

 Commento

Interessantissima pronuncia mediante la quale si traggono le logiche conseguenze  dell’orientamento sviluppatosi a partire dalle ormai “celebri” ordinanze 17 e 19 marzo 2014 del Tribunale di Firenze.

Secondo entrambe le citate ordinanze, infatti, per mediazione disposta dal giudice deve intendersi un tentativo di mediazione effettivamente avviato, ossia che le parti, anzichĂŠ limitarsi ad incontrarsi ed informarsi, per poi non aderire alla proposta del mediatore di procedere, adempiano effettivamente all’ordine del giudice, partecipando alla vera e propria procedura (auspicabilmente) conciliativa, salvo, naturalmente, l’emergere di questioni pregiudiziali ostative al suo svolgimento.

Precisamente ciò che non è avvenuto nel caso di specie, con la conseguenza che il Giudice, rilevata la mera formalitĂ  del tentativo di mediazione avviato ante causam dalla parte attrice del giudizio, esauritosi nella semplice presenza delle parti in sede di primo incontro all’unico scopo di manifestare una asserita “non volontà” di intraprendere il tentativo conciliativo, ha disposto lo svolgimento di un tentativo effettivo pena l’improcedibilitĂ  della domanda giudiziale.

Il Giudice, dunque, ritiene che il carattere dell’”effettività” debba contraddistinguere la mediazione tout court, indipendentemente dal fatto che il tentativo sia disposto dal giudice.

Come giĂ  rilevato in dottrina, se è vero che le pronunce “fiorentine” si riferiscono alla mediazione delegata dal giudice di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, è altrettanto vero però che i principi in esse contenuti appaiono estensibili a tutte le ipotesi di mediazione “obbligatoria”, dal momento che il legislatore non ha inteso configurare modelli procedimentali differenti in funzione del fatto che la mediazione consegua alla (necessaria) iniziativa della parte che intenda proporre una domanda nelle materie di cui all’art. 5. co 1 – bis, ovvero che sia demandata, in primo grado o in appello, dal giudice ex art. 5, co. 2.

Il Tribunale di Rimini ha ritenuto di perseguire una linea interpretativa siffatta, che, allo stato, non può che rappresentare una spinta di inestimabile valore verso l’effettivitĂ  della mediazione e, quindi, verso lo sviluppo di una cultura nuova, antitetica a quella tradizionale del conflitto ad ogni costo.

 

Testo integrale 

TRIBUNALE ORDINARIO DI RIMINI – Sezione Civile

Oggi 16 luglio 2014, alle ore 11.15, innanzi al Giudice dott. DARIO BERNARDI, sono comparsi:

L’avv. …. per parte attrice il quale deposita verbale negativo di mediazione;

L’avv. …. per ….. delega orale per parte convenuta;

entrambi chiedono i termini ex art. 183, 6 comma c.p.c. con decorrenza differita;

Il Giudice

rilevato che la mediazione non è stata intrapresa effettivamente, essendosi le parti limitate a rifiutare di iniziare la procedura dopo la mera illustrazione da parte del mediatore della “funzione e modalità di svolgimento della mediazione”;

dispone procedersi a mediazione effettiva (in mancanza della quale seguirà la dichiarazione di improcedibiltà) ex art. 5, 2° comma D.Lgs. n. 28/2010;

assegna un termine di 15 giorni da oggi per la presentazione della domanda di mediazione e fissa la successiva udienza al 18.2.2015 ore 11.30.

Il Giudice

dott. DARIO BERNARDI

mediazione obbligatoria conciliazione

Nasce a Verona il primo protocollo relativo alla mediazione civile obbligatoria

Commento:

La collaborazione tra  Magistrati del Tribunale di Verona, giuristi e l’Osservatorio Giustizia Civile del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Verona, ha portato all’elaborazione del progetto “Valore Prassi”.

Si tratta di un vademecum sulla mediazione civile obbligatoria, che si propone di fornire interpretazioni condivise su aspetti controversi che involgono il rapporto “procedimento di mediazione – processo civile”.

In tale prospettiva, il protocollo contiene proposte di rilevante impatto pratico-applicativo, quali, ad esempio, la sussistenza dell’obbligo di attivare la mediazione anche con riferimento alle eventuali domande relative a controversie di cui all’art. 5, comma 1 bis del D.Lgs. 28/2010, che siano proposte in corso di causa, o, sulla definizione delle modalità e dei termini per far valere la violazione del criterio della competenza per territorio dell’organismo di mediazione.

Inoltre, con riguardo al profilo operativo, il protocollo contiene svariate  indicazioni circa i presupposti che possono consigliare il ricorso alla mediazione demandata dal giudice o relative al rapporto tra mediazione demandata dal giudice e conciliazione giudiziale.

In sostanza, dunque, l’obiettivo degli ideatori del protocollo è quello di favorire l’applicazione di un istituto che certamente può contribuire a migliorare lo stato della giustizia civile nel nostro Paese, obiettivo che appare, allo stato attuale, incontestabilmente ineludibile.

 

Testo integrale:

Le proposizioni che seguono, in aderenza alla finalitĂ  propria dei protocolli degli osservatori sulla giustizia civile, sono meramente indicative e pertanto non possono essere intese in nessun modo come vincolanti.

1.Accesso alla mediazione (art. 4, comma 1)

  1. Il criterio di competenza per territorio dell’organismo di mediazione fissato dall’art. 71 quater, secondo comma, disp. att. c.c., è speciale rispetto a quello di cui all’art. 4, comma 1 D. Lgs. 28/2010.
  2.  E’ opportuno che nei casi di mediazione obbligatoria ex lege, la parte che intenda rilevare l’incompetenza per territorio dell’organismo di mediazione lo faccia nel corso della prima seduta davanti al mediatore adito o, qualora non intenda comparire, prima dello svolgimento di essa, mediante comunicazione scritta che individui l’organismo di mediazione ritenuto competente poiché il silenzio sul punto in fase di mediazione potrebbe essere inteso come accettazione della competenza dell’organismo adito.
  3.  Il rilievo di incompetenza per territorio dell’organismo di mediazione adito va valutato dal giudice della causa di merito, qualora la parte che ha promosso la mediazione non vi abbia aderito, e può essere distinto dall’eccezione di incompetenza per territorio del giudice adito, dovendo esse deciso sulla base dell’istanza di mediazione.

2.Ambito di applicazione della mediazione c.d. obbligatoria (art. 5, comma 1 bis) 

  1. L’individuazione delle materie del contendere ai fini dell’applicazione dell’art. 5 comma 1 bis del d. lgs. 28/2010 va compiuta con riferimento alla domanda, e cioè alla sostanza della pretesa ed ai fatti dedotti a fondamento di questa (criterio del c.d. petitum sostanziale), come evincibile dalla istanza di mediazione e, qualora il giudizio sia stato già introdotto, anche sulla base della prospettazione del convenuto.
  2. Per controversie in materia di diritti reali devono intendersi quelle aventi ad oggetto i diritti reali in  senso stretto, con esclusione, quindi, delle controversie riguardanti i contratti traslativi di tali diritti o aventi ad oggetto la nullità, l’annullamento o la risoluzione degli stessi.
  3. Per controversie in materia di contratti assicurativi devono intendersi tutte quelle che concernono l’interpretazione, la validità di un contratto avente ad oggetto una garanzia assicurativa, fatta salva l’esclusione delle controversie relative alla esecuzione di contratti assicurativi della responsabilità civile derivante da circolazione di veicoli.
  4. Per controversie in materia di contratti bancari devono intendersi quelle relative a contratti aventi ad oggetto operazioni o servizi bancari (non rientra tra esse, pertanto, la controversia relativa ad una fideiussione stipulata a garanzia di crediti bancari).
  5. Per controversie in materia di contratti finanziari devono intendersi quelle relative ad uno dei contratti previsti dal d. lgs. 58/1998, purchè una delle parti di esso sia un operatore professionale.
  6. Si ritiene preferibile l’interpretazione secondo cui rientrano tra le controversie in materia di uno dei contratti previsti dall’art. 5, comma 1, del d. lgs. 28/2010 anche quelle che abbiano ad oggetto la responsabilità pre – contrattuale relativa ad uno dei rapporti previsti da tale norma.
  7. Rientrano tra le controversie “in materia di” uno dei contratti previsti dall’art. 5 comma 1 bis del d. lgs. 28/2010 anche le azioni in surroga derivanti da uno di quei contratti nonchè quelle fondate sulla cessione di uno di essi e quelle fondate sulla cessione di un credito derivante da uno di quei rapporti. Non vi rientrano invece le azioni di regresso.
  8. Non rientrano nelle controversie di cui all’art. 71 quater disp. att. c.c. le controversie dirette alla nomina di un amministratore giudiziario ex art. 1129 primo comma c.c. e quelle dirette ad ottenere la revoca dell’amministratore di condominio poiché si svolgono con le forme del procedimento in camera di consiglio.
  9. Nelle controversie dirette a far accertare l’acquisto di un diritto reale per intervenuta usucapione, nelle quali possano esservi dubbi sul numero o sulla identità dei soggetti passivamente legittimati, è opportuno che il giudizio venga introdotto prima dell’espletamento della mediazione, al fine di verificare i predetti particolari. La stessa avvertenza vale per le controversie dirette a far accertare l’acquisto di un diritto reale per intervenuta usucapione nelle quali, a causa del numero dei soggetti da convenire in giudizio, sia necessario ricorrere alla notifica per pubblici proclami.
  10. Anche nelle controversie relative a diritti reali, per le quali vi sia la  necessità di trascrivere la domanda giudiziale, è opportuno che il giudizio venga promosso prima di svolgere la mediazione.

3. Istanza di mediazione e decadenza (Art. 5, comma 6).

  1.  Nel caso in cui si intenda iniziare il giudizio di merito conseguente all’ordinanza di accoglimento di una domanda cautelare di tipo conservativo, e tale giudizio rientri in uno di quelli soggetti a mediazione obbligatoria, l’istanza di mediazione non impedisce la decorrenza del termine previsto per l’introduzione del giudizio di merito poiché l’art. 5, ultimo comma, del d. lgs. 28/2010 deve intendersi riferito alle decadenze sostanziali e non anche a quelle processuali.
  2. La medesima indicazione di cui al punto precedente vale nel caso in cui si intenda proporre il giudizio di merito possessorio.
  3. Nel caso in cui si intenda impugnare una delibera di assemblea condominiale la comunicazione dell’istanza di mediazione ha l’effetto di sospendere il termine di decadenza previsto dall’art. 1137, terzo comma, c.c. con riguardo al giudizio di merito relativo all’impugnazione.

4. Cause oggettivamente e soggettivamente complesse (art. 5, comma 1)

  1. Qualora in un giudizio che non sia stato preceduto dalla mediazione  vengano svolte una domanda riconvenzionale o una reconventio reconventionis o una domanda trasversale o una chiamata di terzo o un intervento di terzo principale, relativi ad una delle materie del contendere di cui al comma 1 bis dell’art. 5 del d. lgs. 28/2010, tali domande sono soggette a mediazione obbligatoria. In tali casi, qualora venga eccepito o rilevato il difetto della condizione di procedibilità, è opportuno che il giudice demandi alla mediazione l’intera controversia. E’ possibile demandare alla mediazione anche la sola domanda soggetta a mediazione obbligatoria, previa separazione di essa dalle altre, ma tale soluzione può pregiudicare il successo della mediazione. Le indicazioni contenute nei commi precedenti non valgono in caso di chiamata di terzo fondata su una ipotesi di responsabilità da circolazione stradale.
  2. La domanda riconvenzionale o la reconventio reconventionis inedita  (vale a dire che sia emersa nella fase giudiziale della lite ma non nella fase di mediazione che abbia preceduto il giudizio), che riguardino una delle materie del contendere di cui all’art. 5, comma 1 bis, del d. lgs. 28/2010, sono soggette a mediazione obbligatoria nel caso in cui comportino un ampliamento del thema decidendum.
  3. L’onere di dimostrare tale presupposto grava sulla parte che eccepisca il difetto della condizione di procedibilità e, per assolverlo, essa può ricorrere o al consenso della controparte o alla produzione dell’istanza di mediazione e dell’adesione ad essa della controparte dalle quali risulti la causa petendi della prospettazione della parte convenuta.
  4. Al fine di agevolare tale verifica è opportuno che le parti facciano risultare nel verbale di mediazione la causa petendi delle domande prospettate nel corso di essa. Anche in questo caso è opportuno che il giudice demandi alla mediazione l’intera controversia.
  5. La domanda inedita nei confronti del terzo, relativa ad una delle materie del contendere di cui all’art. 5, comma 1 bis, del d. lgs. 28/2010, è soggetta a mediazione obbligatoria, a condizione che il terzo possa evitare la controversia concludendo una transazione (una ipotesi di questo tipo è quello della domanda di garanzia impropria). Anche in questi casi è opportuno che il giudice demandi alla mediazione l’intera controversia.
  6. Le medesime indicazioni di cui al punto precedente valgono nel caso di domanda trasversale inedita.
  7. La domanda inedita svolta dal terzo interveniente ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.c., relativa ad una delle materie del contendere di cui all’art. 5, comma 1 bis, del d. lgs. 28/2010 è soggetta a mediazione obbligatoria. Anche in questo caso è opportuno che il giudice demandi alla mediazione l’intera controversia.
  8. Nel caso in cui in un giudizio, che sia stato preceduto dalla mediazione, il contraddittorio venga esteso, ai sensi dell’art. 102 c.p.c., ad una parte che non abbia partecipato alla fase di mediazione la domanda nei confronti di tale parte, che riguardi una delle materie del contendere di cui all’art. 5, comma 1 bis, del d. lgs. 28/2010, non è soggetta a mediazione obbligatoria.
  9. La domanda inedita relativa ad una delle materie del contendere di cui all’art. 5, comma 1 bis, del d. lgs. 28/2010 che sia cumulata ai sensi dell’art. 103 c.p.c. con altra o altre domande sulle quali si sia svolto il procedimento di mediazione, è soggetta a mediazione obbligatoria se è connessa impropriamente a quelle già oggetto di mediazione. L’onere di dimostrare tale presupposto grava sulla parte che eccepisca il difetto della condizione di procedibilità e, per assolverlo, essa può ricorrere o al consenso della controparte o alla produzione dell’istanza di mediazione e dell’adesione ad essa della controparte dalle quali risulti la causa petendi della prospettazione della parte convenuta. Al fine di agevolare tale verifica è opportuno che le parti facciano risultare nel verbale la causa petendi delle domande prospettate nel corso di essa. Anche in questo caso è opportuno che il giudice che ravvisi il difetto della condizione di procedibilità della domanda riconvenzionale o della reconventio reconventionis demandi alla mediazione l’intera controversia
  10. In caso di domande fondate su prospettazioni alternative, una o più delle quali rientrino tra quelle previste dall’art. 5, comma 1 bis, del d. lgs. 28/2010, l’intera causa va demandata alla mediazione.

5. Natura del termine per proporre la mediazione e termini per il rilievo della insussistenza della condizione di procedibilitĂ  (art. 5, comma 1 bis)

  1.  Il termine assegnato dal giudice, ai sensi dei comma 1 bis e 2 dell’art. 5 d. Lgs. 28/2010, per presentare domanda di mediazione deve intendersi ordinatorio e come tale è soggetto alla disciplina dell’art. 154 c.p.c.
  2. Se la mancanza di condizione di procedibilità non viene rilevata o eccepita entro la udienza di prima comparizione l’azione giudiziaria può proseguire normalmente.
  3. Se nessuna delle parti presenta istanza di mediazione entro l’udienza fissata dal giudice contestualmente all’assegnazione del termine di cui all’art. 5, comma 1 bis, del d. lgs. 28/2010, la domanda giudiziale va dichiarata improcedibile.
  4. Se alla udienza di prima comparizione di una controversia soggetta a mediazione obbligatoria si riscontra che la mediazione è iniziata ma non si è conclusa il giudice può differire la causa ad una udienza successiva al termine della mediazione, qualora le parti rappresentino la possibilità di una definizione conciliativa della controversia in quella sede. In caso contrario il giudice può proseguire nella ordinaria trattazione del giudizio che, quindi, si svolgerà parallelamente alla mediazione.
  5. L’indicazione di cui al punto precedente vale anche nel caso in cui la domanda di mediazione venga presentata successivamente alla scadenza del termine di assegnato dal giudice per lo svolgimento della mediazione ma prima dell’udienza che è stata fissata per la prosecuzione del giudizio, una volta scaduto il termine originariamente previsto per lo svolgimento della mediazione.
  6. E’ opportuno che, anche nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria, nelle quali venga eccepita, o rilevata, la mancanza della condizione di procedibilità, il giudice, che alla prima udienza ravvisi possibilità conciliative della lite, esperisca il tentativo di conciliazione, se del caso avvalendosi dell’art. 185 c.p.c, prima di assegnare alle parti il termine per promuovere la mediazione.

6. Procedimenti per ingiunzione, di opposizione a decreto ingiuntivo e procedimenti cautelari (art. 5, comma 4).

  1.  Tenuto conto delle incertezze interpretative esistenti sulle  conseguenze della mancata attivazione della mediazione nelle cause di opposizione a decreto ingiuntivo, soggette a mediazione obbligatoria, dopo la decisione da parte del giudice sulla istanza di concessione o sulla sospensione della p.e. (secondo un primo orientamento la conseguenza di detta omissione sarebbe la improcedibilità della domanda monitoria mentre secondo altra tesi l’improcedibilità sarebbe dell’opposizione), l’unica indicazione che si ritiene opportuno fornire è quella che sia l’opponente che l’opposto possono avere interesse ad attivare il procedimento di mediazione, per evitare la declaratoria di improcedibilità della domanda svolta da ciascuno di essi.
  2. I commi 1 bis e 2 dell’art. 5 del d. lgs. 28/2010 non si applicano nei procedimenti cautelari, ivi compreso quello relativo all’istanza di sospensione dell’ esecuzione della delibera di assemblea condominiale.

  7. Procedimento di mediazione (art. 8 )

  1.  L’obbligo di difesa fissato dall’art. 5 comma 1 bis D. Lsg. 28/2010 si riferisce solo alla partecipazione al procedimento di mediazione obbligatoria sia ex lege che ex contractu giacchè solo in questi casi la mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
  2.  Possono costituire giustificato motivo di assenza:
  • la mancata comparizione davanti al mediatore per motivi di salute o di lavoro che determinino l’impedimento della parte a comparire per un apprezzabile lasso di tempo (pari,  superiore o di poco inferiore ai tre mesi che costituiscono il periodo normalmente previsto per lo svolgimento della mediazione) ;
  • la mancata comparizione davanti al mediatore giustificata sulla base del rilievo, formulabile anche a mezzo di comunicazione a distanza, della sua incompetenza per territorio;
  • la mancata comparizione davanti al mediatore dovuta alla mancata conoscenza della data dell’incontro di mediazione;
  • la mancata comparizione davanti al mediatore di un soggetto che non abbia capacitĂ  di agire o che sia privo di potere  rappresentativo

      3.    Si ritiene che la condanna di cui all’art. 8, comma 5, vada adottata al momento della decisione della causa, atteso che la                         parte che non è comparsa davanti al mediatore ha diritto di dimostrare le ragioni della sua assenza nel corso del giudizio,                    sulla base della disciplina propria del rito prescelto.

8. Mediazione delegata (art. 5, comma 2)

  1.  L’istituto trova un utile ambito di applicazione nelle ipotesi in cui la  possibilità di raggiungimento di una conciliazione dipenda dall’individuazione di soluzioni facilitative o nei casi di cumulo oggettivo o soggettivo di domande, per una sola delle quali la mediazione è prevista quale condizione di procedibilità (in questa ipotesi è opportuno che il giudice demandi alla mediazione l’intera controversia) o qualora, dato il carico del ruolo, il giudice  abbia difficoltà ad esperire tentativi di conciliazione.
  2. Il giudice può demandare la mediazione anche nelle controversie in cui si sia già svolta una mediazione ma è opportuno che prima di farlo valuti con i procuratori delle parti l’utilità di essa.
  3.  Nel caso in cui le parti convengano sulla opportunità della mediazione delegata è opportuno che le stesse individuino concordemente anche l’organismo di mediazione a cui rivolgersi.
  4. Nel caso di mediazione delegata ai sensi dell’art. 5, comma 2, D. Lgs. 28/2010 è opportuno che il giudice indichi anche l’organismo di mediazione territorialmente competente al quale le parti potranno rivolgersi.
  5. Il difensore può rappresentare il proprio assistito nella fase di mediazione, ivi compresa la mediazione delegata, purchè sia munito di procura speciale a tal fine.
  6. L’art. 5 comma 2 d. lgs. 28/2010 nella parte in cui consente la mediazione delegata anche in sede di appello va inteso nel senso che la mediazione delegata è condizione di procedibilità dell’appello principale e dell’appello incidentale.

9. Art. 13 d. lgs. 28/2010 e suo raccordo con gli artt. 91 e 185 bis c.p.c.

  1.  L’applicazione dell’art. 13 del d. lgs. 28/2010 presuppone la possibilità di raffrontare la domanda di mediazione e la domanda giudiziale.
  2. La condanna alle spese della parte vittoriosa che ha rifiutato la proposta conciliativa del mediatore prescinde dalla valutazione sulla sussistenza di un giustificato motivo di tale rifiuto.
  3. Il richiamo agli artt. 92 e 96 del c.p.c contenuto nel secondo periodo dell’art. 13 del d. lgs. 28/2010 va inteso nel senso che il giudice potrà valutare il comportamento tenuto dalle parti nel giudizio conseguente alla fase di mediazione, ai fini  della compensazione delle spese di lite o della condanna per lite temeraria, senza essere vincolato dall’atteggiamento che esse possano aver tenuto di fronte alla proposta conciliativa del mediatore.
  4. Anche le parti e il giudice del giudizio successivo alla fase di mediazione possono formulare la proposta conciliativa prevista dall’art. 91 c.p.c. e 185 bis c.p.c  Qualora nella fase di mediazione vi sia stata una proposta conciliativa del mediatore rifiutata la proposta conciliativa fatta da una delle parti o del giudice nel conseguente giudizio, per produrre gli effetti previsti dall’art. 91 c.p.c, deve avere contenuto diverso rispetto alla prima.

10. Accordo conciliativo e fase di omologa (art. 11)  

  1.  E’ opportuno che nell’accordo conciliativo concluso davanti al mediatore vengano precisate le caratteristiche del procedimento di mediazione ed in particolare l’organismo di mediazione davanti al quale si è svolto il procedimento, se si sia trattato di mediazione obbligatoria o volontaria e le domande oggetto di esso.
  2.  L’accordo conciliativo va omologato dal Presidente del Tribunale del circondario in cui si è svolta la mediazione.
  3. Nel caso in cui l’accordo conciliativo concluso davanti al mediatore preveda obblighi infungibili di fare ovvero obblighi di non fare a carico di una parte, nonchè il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza di essi o per il ritardo nel loro adempimento, il creditore, in caso di inadempimento del debitore, può agire esecutivamente nei suoi confronti, dopo aver redatto il precetto sulla base del verbale di conciliazione. Condizione perché il creditore possa avvalersi di tale diritto è che, al momento della pattuizione della somma predetta, siano stati individuati i comportamenti che da inibire ed il criterio seguito per determinarne l’importo, anche in relazione al comportamento futuro del debitore (ad esempio precisando quali siano le conseguenze di un adempimento solo parziale della prestazione o di un ritardo nell’adempimento qualora si tratti di condanna ad un non facere con indicazione, altresì, ove possibile, il momento a partire dal quale si verifica l’inadempimento alla condanna).
  4. Nel redigere il precetto di cui al punto precedente il creditore deve comunque esplicitare i calcoli in virtù dei quali ha determinato la somma indicata nell’atto.
  5. Il debitore può proporre opposizione all’esecuzione qualora contesti la sussistenza di uno dei presupposti di fatto addotti dal creditore oppure la correttezza dei calcoli eseguiti o qualora adduca fatti estintivi o modificativi del diritto alla somma di cui ai punti precedenti.
  6. In caso di opposizione, la ripartizione dell’onere della prova tra opponente ed opposto è  strettamente dipendente dalla natura dell’obbligazione di cui si controverte. In ragione di ciò non è opportuno fissare un’indicazione generale sul punto, se non il principio generale secondo cui “negativa non sunt probanda”.
  7. Avverso il rigetto dell’istanza di omologa dell’accordo conciliativo concluso davanti al mediatore può essere proposto reclamo davanti alla Corte di Appello compente.
  8. Per contestare il decreto di omologa dell’accordo conciliativo concluso davanti al mediatore il destinatario di quanto in esso previsto può proporre opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. o agire in via ordinaria.

 

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