Il primo incontro di mediazione nella nuova
disciplina della mediazione civile
dott. Luigi Majoli
1. Il primo incontro di mediazione: profili problematici
La L. 98/2013, nel convertire, con emendamenti, il D.L. 69/2013 (c.d. “decreto del fare”), ha introdotto, modificando l’art. 8, co 1, D.lgs 28/2010, una nuova disciplina del primo incontro nell’ambito del procedimento di mediazione. Si tratta di una disposizione di carattere generale, in quanto rubricata semplicemente come “procedimento”, come tale, dunque, applicabile ad ogni procedura di mediazione, indipendentemente dal carattere di “obbligatorietà” ovvero di “facoltatività” dal quale, di volta in volta, la stessa risulti rivestita.
Si ritiene opportuno, in questa sede, puntualizzare quanto di nuovo sia stato in effetti introdotto dalla novella in parola e, soprattutto, anche alla luce delle recenti pronunce giurisprudenziali sul punto, quale reale dimensione interpretativa sia da attribuirsi alla disciplina del primo incontro di mediazione.
L’art. 8, co. 1, D.lgs 28/2010, nella sua veste di nuovo conio, dispone che “All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti non oltre trenta giorni dal deposito della domanda. La domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione, anche a cura della parte istante. Al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato. Durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. Nelle controversie che richiedono specifiche competenze tecniche, l’organismo può nominare uno o più mediatori ausiliari”.
Risulta di immediata evidenza il fatto che il nuovo testo tende a specificare determinate attività che, pur non menzionate espressamente dalla disposizione precedentemente vigente, pur tuttavia il mediatore non poteva certamente omettere di svolgere comunque, in quanto imprescindibili in sede di approccio iniziale con le parti.
Ci si riferisce alla esplicazione, da parte del mediatore, della funzione e delle modalità della mediazione, da un lato, e all’invito, rivolto alle parti ed ai rispettivi avvocati, ad esprimersi circa la possibilità di “iniziare” (e su tale aspetto si tornerà tra breve) la procedura, dall’altro.
Si tratta di una verifica, da parte del mediatore, della corretta instaurazione del procedimento, affinchè risulti possibile proseguire nel tentativo. Lo schema procedimentale rimane quello originale: informativa circa natura e funzione della mediazione e, ove non emerga una oggettiva causa ostativa, ingresso nel merito della controversia, con duplice possibile esito: conciliazione delle parti ovvero mancato accordo.
In altri termini: espletate le verifiche rituali, il mediatore, ai sensi dell’art. 8, co. 3, “…si adopera affinché le parti raggiungano un accordo amichevole di definizione della controversia”.
Il legislatore ha ritenuto di utilizzare il verbo “iniziare” anziché il più opportuno “proseguire” ovvero “procedere”, ma non sembra possano sussistere dubbi sul fatto che l’avvio della procedura si abbia con l’atto introduttivo, e non con una supposta espressione di volontà in tal senso ad opera delle parti in sede di primo incontro.
Ciò, ad avviso di chi scrive, per due ragioni.
La prima, di ordine sistematico, da ravvisarsi nel fatto che ove l’”inizio” della procedura venisse a dipendere da una “manifestazione di volontà” delle parti, ciò risulterebbe contraddittorio, a dir poco, con la previsione del procedimento di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, nelle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, D.lgs 28/2010. Le parti – in altri termini – potrebbero sottrarsi al procedimento mediante una mera dichiarazione di rifiuto, in sede di primo incontro, che finirebbe con il trasformare, de facto, lo svolgimento della procedura da obbligo nascente ex lege a mera facoltà.
La seconda, di natura più squisitamente procedimentale, data dal fatto che non possono esservi dubbi sulla circostanza che l’”inizio” della procedura sia determinato dall’atto introduttivo, ossia dalla domanda di cui all’art. 4.
D’altra parte, il termine di cui all’art. 6, co. 1, decorre, secondo quanto previsto dal secondo comma della medesima disposizione, dalla “…data di deposito della domanda di mediazione” e, inoltre, a norma dell’art. 5, co. 6, “Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresi’ la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’articolo 11 presso la segreteria dell’organismo”, aspetti, questi ultimi, che dimostrano come il legislatore consideri il procedimento, a quel punto, già instaurato.
Da quanto precede appare dunque chiaro che la semplice verifica di una asserita “volontà” delle parti di “iniziare” il procedimento, senza un effettivo svolgimento dello stesso, non possa considerarsi sufficiente ai fini della soddisfazione della condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
D’altra parte, l’art. 5, co. 2 – bis, D.lgs 28/2010, dispone che “Quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo”. Ove quindi una parte aderisca al solo scopo di esprimere la propria volontà di non procedere nel tentativo, il mediatore dovrebbe considerare tale comportamento alla stessa stregua di una mancata adesione, con conseguente eventuale applicazione, nella successiva fase giudiziale, delle sanzioni di cui all’art. 8, ult. co., D. lgs 28/2010.
Se poi il verbale dovesse limitarsi a registrare le volontà di entrambe le parti di “non iniziare” il procedimento, il giudice, considerando il tentativo come non esperito, potrebbe disporre l’effettivo svolgimento del procedimento, come previsto dall’art. 5 del decreto legislativo.
2. Le conseguenze della mancata partecipazione
In tema di mancata partecipazione al primo incontro di mediazione ovvero – come si è avuto modo in precedenza di osservare – di partecipazione – escamotage, vale a dire semplicemente finalizzata ad esprimere la “volontà” di non esperire il tentativo, devono ovviamente essere tenute presenti le conseguenze di cui all’art. 8, ult. co., D.lgs 28/2010. Tale disposizione, come è noto, prevede che “Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio”.
Il giudice, quindi, è chiamato a valutare la fondatezza delle ragioni che hanno portato la parte invitata a disertare il procedimento.
Il giudice, per l’appunto. Certamente non il mediatore, che dovrà limitarsi a dare atto, in sede di verbale, della mancata partecipazione. Allo stesso modo il mediatore ben potrà, come già evidenziato supra, dare atto del mancato svolgimento del tentativo in presenza di entrambe le parti, senza poter entrare nel merito delle eventuali motivazioni rappresentate dalla parte invitata, come agevolmente si può evincere dal disposto degli artt. 9 e 10 D.lgs 28/2010, relativi, come è noto, al “Dovere di riservatezza” e “Inutilizzabilità e segreto professionale”.
Pertanto, il mediatore darà atto nel verbale che la procedura si è avviata, che le comunicazioni sono state ritualmente effettuate e che le parti si sono presentate al primo incontro, senza però che alcun tentativo di mediazione abbia potuto effettivamente svolgersi.
Occorre poi considerare quanto previsto dall’art. 96, co. 3, c.p.c., secondo il quale “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.
Si tratta, come è noto, di una sanzione che tende a punire l’abuso degli strumenti processuali. In altri termini, la condanna inflitta ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c. assume una doppia valenza: da un lato costituisce un risarcimento (coprendo un danno “presunto” della parte) e dall’altro ha la funzione di una vera e propria sanzione (il giudice pronuncia la condanna consapevole degli importanti effetti che essa avrà anche al di là del giudizio in cui la stessa è resa, ossia per sottolineare la disapprovazione per l’utilizzo emulativo dello strumento processuale).
In giurisprudenza, già da tempo, si è affermato il principio secondo cui il mancato esperimento del tentativo di mediazione, senza giustificato motivo, oltre beninteso le conseguenze di cui all’art. 8, ult. co. D.lgs 28/2010, possa configurare la c.d. responsabilità processuale aggravata, di cui alla disposizione summenzionata.
Il Tribunale di S.Maria Capua Vetere, con sent. 23 dicembre 2013, in particolare, ha accolto la richiesta di condanna ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c., ove sia ravvisabile l’elemento soggettivo della mala fede in capo ad una delle parti la quale “…anziché recepire l’invito della controparte che avrebbe potuto condurre ad una soluzione del problema, abbia preferito adire il Tribunale”.
Secondo la pronuncia in esame, infatti, detto comportamento andrebbe ad evidenziare un’ottica conflittuale antitetica alla nuova prospettiva alla quale sembra decisamente orientato il legislatore nell’attuale fase storica, come dimostrato peraltro, dalle reintroduzione dell’obbligatorietà del tentativo di mediazione a seguito del c.d. “decreto del fare” e relativa conversione.
Secondo il giudice, tale nuova prospettiva non può non attribuire al difensore un ruolo fondamentale, prima ancora che nella fase giudiziale, nell’attività di mediazione delle controversie, muovendosi ormai verso una concezione del ricorso al tribunale quale “…extrema ratio per la soluzione della quasi totalità delle controversie civili”.
In altri termini, dunque, ove il giudice ritenga, come nel caso appena menzionato, che la controversia dedotta in giudizio avrebbe agevolmente potuto essere risolta senza il coinvolgimento dell’Autorità giudiziaria se, semplicemente, la parte invitata avesse aderito alla chiara volontà della controparte di addivenire ad una soluzione conciliativa, può scattare la condanna ex art. 96, co. 3, c.p.c., potendosi scorgere, in un comportamento siffatto, per l’appunto l’elemento soggettivo della mala fede.
E non si tratta di un caso isolato. Una pronuncia successiva (Trib. Roma, sent. n. 4140/2014), ad esempio, ha condannato ai sensi dell’art. 96 c.p.c. un’assicurazione in considerazione dei comportamenti da questa tenuti, tanto nella fase della mediazione quanto in quella del giudizio.
Osserva in fatti il giudice che detta parte “da un lato, non si era presentata, e senza giustificarsi, nella fase mediatoria; dall’altro, aveva resistito alla domanda attorea “pur nella consapevolezza dell’infondatezza delle tesi sostenute e nel difetto dellanormale diligenza con cui era stata istruita la pratica assicurativa”.
Si tratta, pertanto, di un profilo che non può e non deve essere sottovalutato nel momento in cui la parte invitata in mediazione è chiamata ad effettuare le proprie scelte.
3. L’obbligo di informativa dell’avvocato all’assistito
L’art. 4, co. 3, D.lgs 28/2010 dispone che “All’atto del conferimento dell’incarico, l’avvocato è tenuto a informare l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di cui agli articoli 17 e 20. L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’informazione deve essere fornita chiaramente e per iscritto. In caso di violazione degli obblighi di informazione, il contratto tra l’avvocato e l’assistito è annullabile. Il documento che contiene l’informazione è sottoscritto dall’assistito e deve essere allegato all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio. Il giudice che verifica la mancata allegazione del documento, se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione”.
Tale disposizione attua quanto previsto nell’art. 60, co. 3, lett. h), della legge delega n. 69/2009, disposizione ispirata, a sua volta, dall’indicazione di cui al n. 25 della Direttiva 2008/52/CE.
Si tratta, dunque, di un’informativa obbligatoria posta a carico degli avvocati, già contemplata nell’originario testo del D.lgs 28/2010 ed a fortiori riconfermata in virtù della previsione legislativa relativa alla necessaria assistenza dell’avvocato in mediazione.
A tale proposito, sembra opportuno sottolineare come debba trattarsi di un’informativa piena e completa, non soltanto, cioè, relativa alla possibilità di avvalersi della mediazione o al fatto che, nelle materie di cui all’art. 5, co. 1 – bis, essa costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale, nonché alle correlate agevolazioni fiscali previste dalla legge. Dovranno essere illustrate, altresì, anche (e soprattutto) le caratteristiche del procedimento, a partire – dunque – dalle finalità e dalle modalità del primo incontro.
D’altra parte, già l’art. 40 del Codice deontologico forense prevede l’obbligo, per gli avvocati, di informare i propri assistiti “…all’atto dell’incarico delle caratteristiche e dell’importanza della controversia o delle attività espletate, precisando le iniziative e le ipotesi di soluzioni possibili”.
Ora, evidentemente, tale obbligo di informativa si estende, a seguito del D.lgs 28/2010, al procedimento di mediazione.
Naturalmente, l’obbligo di cui sopra dovrà essere assolto tanto dall’avvocato della parte istante, quanto da quello della parte chiamata.
Certamente, l’obbligo nasce al momento del conferimento dell’incarico. Pur coincidendo, di fatto, detto momento con quello del conferimento della procura alle liti, appare chiaro come l’allegazione dell’informativa non possa considerarsi effettuata ove meramente inserita nella procura medesima.
Si tratta, infatti, di due atti ben distinti e separati, come peraltro già affermato in giurisprudenza a partire da Trib. Varese, ordinanza 6 maggio 2011, in cui si afferma che “…ai sensi dell’art. 4, comma III, cit., “il documento che contiene l’informazione e’ sottoscritto dall’assistito e deve essere allegato all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio”: è, dunque, chiaro che deve trattarsi di un atto distinto e individuabile, firmato dal cliente separatamente dagli altri documenti e “allegato” al fascicolo”.
L’informativa, pertanto, esplicita e completa dell’indicazione delle caratteristiche del procedimento di mediazione, dovrà essere contenuta in un atto a sé stante che risulti, ovviamente, sottoscritto dall’assistito.
Occorre a questo punto valutare quali siano le conseguenze che la vigente normativa prevede per l’ipotesi di violazione dell’obbligo di informativa in commento.
Il legislatore ha inteso considerare una duplice casistica.
In primo luogo, l’omessa informazione all’assistito. In tal caso, a norma dell’art. 4, co. 3, D.lgs 28/2010, si determina l’annullabilità del contratto tra avvocato e cliente.
Ben diversa è invece l’ipotesi in cui il documento contenente l’informativa non risulti allegato all’atto introduttivo del giudizio (ovvero, beninteso, alla comparsa di risposta).
Sul punto, il medesimo art. 4, co. 3, all’ultimo periodo prevede che “il giudice che verifica la mancata allegazione del documento, se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione”.
La disposizione in parola impone, evidentemente, in virtù del richiamo all’art. 5, co. 1 – bis, una netta distinzione tra mediazione obbligatoria e facoltativa.
Nel primo caso, appare evidente che ove alla mancata allegazione si accompagni il mancato esperimento della mediazione, il giudice non potrà che assegnare alle parti il termine di 15 giorni per presentare l’istanza di mediazione presso un organismo territorialmente competente, fissando altresì udienza successivamente allo spirare del termine (tre mesi) di cui all’art. 6, co. 1.
Ove invece il tentativo di mediazione risulti de facto esperito – pur senza allegazione dell’informativa – quest’ultima circostanza non potrà assumere – ovviamente – rilevanza alcuna.
Qualora si tratti, invece, di mediazione facoltativa, il giudice, a seguito dell’accertamento della mancata allegazione dell’informativa, dovrà provvedere egli stesso a rendere le parti edotte circa la facoltà in parola, eventualmente disponendone la comparizione personale.
4. L’effettività del primo incontro di mediazione
In un contesto come quello che si è appena delineato, non può essere sottaciuto il contributo fornito dalla giurisprudenza.
Appare necessario sottolineare, infatti, un progressivo incremento dell’interesse da parte dei Giudici nei confronti delle nuove prospettive sviluppatesi a seguito dell’entrata in vigore del nuovo modello di mediazione civile.
Particolarmente indicative, in tal senso, le ordinanze 17 e 19 marzo 2014 del Tribunale di Firenze.
Certamente, dette pronunce si riferiscono alla mediazione delegata dal giudice di cui all’art. 5, co. 2, D.lgs 28/2010, ma i principi in esse contenuti appaiono estensibili a tutte le ipotesi di mediazione “obbligatoria”, dal momento che il legislatore non ha inteso configurare modelli procedimentali differenti in funzione del fatto che la mediazione consegua alla (necessaria) iniziativa della parte che intenda proporre una domanda nelle materie di cui all’art. 5. co 1 – bis, ovvero che sia demandata, in primo grado o in appello, dal giudice ex art. 5, co. 2.
Ciò premesso, il primo profilo che va senz’altro posto in una corretta ottica è quello dell’”effettività” del primo incontro di mediazione.
Secondo entrambe le citate ordinanze, infatti, per mediazione disposta dal giudice deve intendersi un tentativo di mediazione effettivamente avviato, ossia che le parti, anziché limitarsi ad incontrarsi ed informarsi, per poi non aderire alla proposta del mediatore di procedere, adempiano effettivamente all’ordine del giudice, partecipando alla vera e propria procedura (auspicabilmente) conciliativa, salvo, naturalmente, l’emergere di questioni pregiudiziali ostative al suo svolgimento.
L’ordinanza 19 marzo 2014, in particolare, pur muovendo dalla premessa di una difficile individuazione del confine tra la fase preliminare e la mediazione vera e propria, osserva, con riferimento alla mediazione delegata ex art. 5, co. 2, come “…ritenere che l’ordine del giudice sia osservato quando i difensori si rechino dal mediatore e, ricevuti i suoi chiarimenti su funzione e modalità della mediazione, (…) possano dichiarare il rifiuto di procedere oltre, appare una conclusione irrazionale e inaccettabile”.
Ciò, ad avviso del giudice, perchè “…ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro, in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione, vuol dire in realtà ridurre ad un’ inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori. Non avrebbe ragion d’essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere. La dilazione si giustifica solo quando una mediazione sia effettivamente svolta e vi sia stata data un’effettiva chance di raggiungimento dell’accordo alle parti. Pertanto occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione. Altrimenti, si porrebbe un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione”.
La medesima impostazione ermeneutica è rintracciabile anche nell’ordinanza 17 marzo 2014 del medesimo Ufficio giudiziario.
In quest’ultima pronuncia, peraltro, si prospetta espressamente un’assimilazione, quanto al profilo dell’effettivo esperimento del tentativo, tra mediazione delegata e mediazione ex lege ai sensi dell’art. 5, co. 1 – bis.
Osserva infatti il giudice come debba ritenersi che “…le procedure di mediazione ex ritenuto ex art. 5, comma 1-bis (ex lege) e comma 2 (su disposizione del giudice) del d.lgs. 28/10 (e succ. mod.), sono da ritenersi ambedue di esperimento obbligatorio, essendo addirittura previsti a pena di improcedibilità dell’azione; che difatti, per espressa volontà del legislatore, il mediatore nel primo incontro chiede alle parti di esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione, vale a dire sulla eventuale sussistenza di impedimenti all’effettivo esperimento della medesima e non sulla volontà delle parti, dal momento che in tale ultimo caso si tratterebbe, nella sostanza, non di mediazione obbligatoria bensì facoltativa e rimessa alla mera volontà delle parti medesime con evidente, conseguente e sostanziale interpretatio abrogans del complessivo dettato normativo e assoluta dispersione della sua finalità esplicitamente deflattiva”.
Nel caso di specie, in altri termini, secondo il giudice fiorentino il tentativo di mediazione, pur ritualmente iniziato, non risulta altrettanto ritualmente condotto a termine e pertanto “…le parti devono essere rimesse dinanzi al mediatore affinché, in ottemperanza all’interpretazione sopra offerta, prosegua e si esaurisca l’esperimento della procedura di mediazione”.
In sostanza, dunque, il Tribunale di Firenze individua le ragioni della “impossibilità di iniziare la procedura”, di cui all’art. 8, co. 1, nelle sole questioni preliminari o pregiudiziali di natura oggettiva, chiarendo come non sia previsto in alcun modo che le parti manifestino una sorta di volontà di partecipazione al tentativo di mediazione effettivamente inteso.
5. La partecipazione personale delle parti al primo incontro
Non meno degno d’interesse appare l’ulteriore profilo che emerge dalla giurisprudenza in commento, vale a dire quello relativo alla presenza personale delle parti in mediazione.
Tale esigenza, secondo l’ordinanza 19 marzo 2014, deve riguardare anche il primo incontro, in quanto parte integrante del procedimento di mediazione.
Muovendo dalla (oggettiva…) considerazione di una ambiguità di fondo riscontrabile nella formulazione dell’art. 8, D. lgs 28/2010, si rileva che “…tuttavia, nell’art. 5, comma 5 bis, si parla di “primo incontro concluso senza l’accordo”. Sembra dunque che il primo incontro non sia una fase estranea alla mediazione vera e propria: non avrebbe molto senso parlare di ‘mancato accordo’ se il primo incontro fosse destinato non a ricercare l’accordo tra le parti rispetto alla lite, ma solo la volontà di iniziare la mediazione vera e propria”.
In tale prospettiva, prosegue la pronuncia, non potrà ritenersi osservato l’ordine del giudice laddove i soli difensori delle parti si rechino dal mediatore e, ricevute le chiarificazioni del caso su funzione e modalità della mediazione, dichiarino il proprio rifiuto di procedere nel tentativo.
Posto infatti che “…la natura della mediazione esige che siano presenti di persona anche le parti: l’istituto mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. L’assenza delle parti, rappresentate dai soli difensori, dà vita ad altro sistema di soluzione dei conflitti, che può avere la sua utilità, ma non può considerarsi mediazione. D’altronde, questa conclusione emerge anche dall’interpretazione letterale: l’art. 5, comma 1-bis e l’art. 8 prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo con l’ ‘assistenza degli avvocati’, e questo implica la presenza degli assistiti”, il giudice osserva che “…i difensori, definiti mediatori di diritto dalla stessa legge, hanno sicuramente già conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità. Se così non fosse non si vede come potrebbero fornire al cliente l’ informazione prescritta dall’art. 4, comma 3, del d.lgs 28/2010, senza contare che obblighi informativi in tal senso si desumono già sul piano deontologico (art. 40 codice deontologico ). Non avrebbe dunque senso imporre l’incontro tra i soli difensori e il mediatore solo in vista di un’informativa”.
Il fatto che la condizione si avveri con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore appare poi “…particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare ”la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione”.
Considerazioni del tutto analoghe, anche se espresse in forma meno estesa, emergono dall’ordinanza 17 marzo 2014, in cui si sottolinea come “…l’esplicito riferimento operato dalla legge (art. 8) alla circostanza che “…al primo incontro e agli incontri successivi fino al termine della procedura le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato…” implica la volontà di favorire la comparizione personale della parte quale indefettibile e autonomo centro di imputazione e valutazione di interessi, limitando a casi eccezionali l’ipotesi che essa sia sostituita da un rappresentante sostanziale, pure munito dei necessari potei”, ragion per cui “…mentre certamente soddisfa il dettato legislativo l’ipotesi di delega organica del legale rappresentante di società, al contrario il mero transeunte impedimento a presenziare della persona fisica dovrebbe invece comportare piuttosto un rinvio del primo incontro”.
In sintesi, dunque, il Tribunale osserva come l’assenza della parte determini conseguenze rilevanti sulla natura stessa del tentativo di mediazione che, in quanto tale, dovrebbe dipanarsi in modo tale da consentire agli interessati di assurgere quanto più possibile al ruolo di autentici protagonisti della vicenda (auspicabilmente) destinata a favorire il recupero del rapporto tra le parti, anticamera di ogni ipotesi di conciliazione. Una trattativa svolta dai soli avvocati potrebbe anche portare ad un esito fruttuoso, ma non rappresenterebbe una mediazione vera e propria, assumendo piuttosto le sembianze di una mera transazione, in quanto tale ispirata alla (diversa) logica delle reciproche rinunce.
6. La rappresentanza delle parti nel procedimento di mediazione
Si è sottolineato, in precedenza, come la partecipazione personale delle parti al procedimento di mediazione debba sempre e comunque essere preferita e favorita, proprio in forza delle caratteristiche e finalità dell’istituto.
Difficilmente, infatti, potrà conseguirsi un accordo solido e soddisfacente che prescinda da un contatto per così dire “autentico” tra le parti.
D’altra parte, in nessuna delle fonti da cui scaturisce la disciplina della mediazione civile, decreto legislativo e decreti ministeriali attuativi, sono rintracciabili disposizioni che definiscano le regole applicabili nell’ipotesi in cui si intenda utilizzare lo strumento della rappresentanza, vale a dire ove si voglia autorizzare altri a partecipare al procedimento in nome e per conto proprio.
Occorre quindi valutare con attenzione modalità di conferimento e limiti di un siffatto potere negoziale.
In carenza di previsioni specifiche, non potranno che trovare applicazione le regole generali in tema di rappresentanza (artt. 1387 ss. cod. civ.): le parti, quindi, in linea di principio, potranno stare nel procedimento rappresentate – oltre che assistite – dal proprio avvocato (ovvero rappresentate da altra persona di fiducia, che dovrà, però, a sua volta, presenziare agli incontri di mediazione con l’assistenza dell’avvocato).
Posto tuttavia che la rappresentanza in esame ha natura negoziale e non processuale, appare evidente che il rappresentato dovrà conferire adeguata procura ad negotia che autorizzi il rappresentante ad agire in nome e per conto, con idonea puntualizzazione dei poteri e dei limiti.
In sostanza, in mediazione, il mediatore e l’altra parte dovranno essere in grado di interfacciarsi con un soggetto che risulti realmente in grado di esplorare tutte le possibilità conciliative, molte delle quali, come ben ha presente chi pratica la mediazione, emergono nel procedimento (e dal procedimento), spesso molto al di là delle posizioni iniziali.
Appare quindi palese la differenza con la procura a transigere e conciliare di cui all’art. 185 c.p.c., che viene conferita con riferimento ad un momento processuale, il tentativo di conciliazione che scaturisce da richiesta congiunta delle parti, che, come tale, non può che ricadere su un ambito oggettivo già definito dal thema decidendum del giudizio pendente.
Per queste ragioni, soltanto la procura notarile speciale, redatta ad hoc per il singolo affare, oltre a permettere al rappresentante di stipulare atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, è in grado di fornire le necessarie garanzie in ordine alla sua utilizzabilità nei confronti di terzi.
D’altronde, il verbale conclusivo del procedimento, è atto che descrive in forma scritta quanto avvenuto in presenza del mediatore. Questi, nel sottoscrivere il verbale, è chiamato a certificare l’autografia delle sottoscrizioni delle parti (o la loro impossibilità di sottoscrivere) e di conseguenza non potrà non accertare, quale momento prodromico rispetto alla mediazione vera e propria, dunque da attuarsi nell’ambito delle fasi iniziali del primo incontro, l’effettiva e piena legittimazione del soggetto che eventualmente rappresenti la parte istante o quella invitata.
Ove si consideri che il verbale è un atto che produce effetti giuridici ex lege, prescindenti, pertanto, dalla volontà dei soggetti che concorrono a formarlo, vieppiù ne deriva che il mediatore debba preliminarmente procedere, nell’ipotesi di rappresentanza, alla verifica del fatto che il potere di mediare e di (eventualmente) conciliare risulti effettivamente sussistente.
Sembra quindi di poter concludere nel senso che ad un mero mandato ad litem rilasciato all’avvocato dal quale la parte intenda farsi rappresentare – oltre che assistere – non possa essere riconosciuta valenza alcuna – ai fini dei rapporti con i terzi – se non inserito, come evidenziato supra, in una procura speciale autenticata da pubblico ufficiale che autorizzi la più ampia disposizione del diritto oggetto della procedura di mediazione.