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Già in discussione il neonato filtro in appello?

Date le divergenti posizioni emerse nella maggioranza durante il dibattito attualmente in corso presso la Camera dei deputati, sembra che il filtro in appello, previsto dagli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c., introdotti dall’art. 54 del D.L. n. 83 del 2012, sia destinato ad essere emendato, anche se del tutto incerte sembrano essere le sembianze che dovrebbe andare ad assumere all’esito del procedimento di conversione.
L’obiettivo dichiarato è quello di limitare gli spazi, ritenuti eccessivi, di discrezionalità messi dalla nuova normativa a disposizione del giudice nel valutare le probabilità di accoglimento dell’impugnazione.
Due sono le principali ipotesi sul tavolo circa le modifiche da apportare al testo. Da un lato, una cospicua parte della maggioranza pare attestata su posizioni che, di fatto, svuoterebbero di efficacia la norma, rafforzando semplicemente una possibilità che comunque il Codice di procedura offre già oggi e cioè la pronuncia di infondatezza emessa dal giudice alla prima udienza. Un intervento che andrebbe certamente incontro alle preoccupazioni espresse dall’avvocatura, finendo con il limitare di molto la portata innovativa della norma.
Da parte sua, il Ministero appare favorevole ad un diverso emendamento che riprende in larga parte i suggerimenti del CSM e spinge per l’introduzione di un appello che debba contenere, a pena di inammissibilità, la specificazione, in termini analitici, delle parti impugnate della sentenza oggetto di gravame, delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione di fatto operata dal Giudice di primo grado e delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. Una correzione che ridurrebbe i margini di intervento discrezionale del Giudice, senza però pregiudicare irreparabilmente le finalità del filtro.
Il ministro Severino non pare orientata a fare passi indietro da una posizione che sembra rappresentare, per il Governo, il punto di equilibrio più avanzato possibile. Si va, dunque, verso un più che probabile voto di fiducia in aula, dagli esiti largamente imprevedibili.
L’avvocatura, peraltro, preme anche con riferimento all’altra grande tematica ritenuta pregiudiziale, quella cioè rappresentata dalla nuova geografia giudiziaria.
Innanzi alle commissioni Giustizia di Camera e Senato il CNF ha esposto come, a proprio avviso, “rivedere la geografia giudiziaria è un’operazione necessaria, ma il Governo deve riscrivere il decreto delegato tenendo conto di tutti i criteri, compresi quelli legati alle specificità territoriali che ha totalmente trascurato. Così com’è, infatti, non garantisce né risparmi né efficienza. L’assetto della giustizia sarebbe fragile e il provvedimento del Governo esposto a rischio di incostituzionalità“.
Dal canto suo, l’OUA, sentito anch’esso in sede parlamentare, ha piuttosto tenuto a precisare che “i principi previsti nella delega non risultano valorizzati: si pensi al mancato riconoscimento del tasso di criminalità, dell’estensione territoriale e della presenza di infrastrutture giudiziarie già pronte per la consegna e per le quali si sono addirittura sostenute spese superiori al possibile risparmio. Per esempio, i casi eclatanti di Chiavari, Castrovillari e Bassano del Grappa. Criteri che escludono di poter considerare sopprimibili i 37 tribunali indicati solo per non aver raggiunto uno dei parametri indicati nella relazione del Gruppo di studio“.

mediazione civile obbligatoria dl 69-2013 dlsg 28-2010

Mancata partecipazione al procedimento di mediazione e argomento di prova nel successivo giudizio

L’art. 8 D.lgs 28/10, relativamente alla mancata partecipazione senza giustificato motivo della parte convocata al procedimento di mediazione, prevede che il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile.
Sul punto, appare di non trascurabile interesse la recente pronuncia 5 luglio 2012 del Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia, nella quale, con riferimento all’ipotesi di mancata partecipazione della parte ritualmente convocata al procedimento di mediazione (nella fattispecie mediazione delegata), si procede ad una valutazione critica degli orientamenti emersi in giurisprudenza in ordine alla nozione, e al conseguente possibile utilizzo, dell’argomento di prova di cui all’art. 116, co. 2, c.p.c.
Il Giudice, pronunciata sentenza non definitiva, con separata ordinanza invitava le parti ad avviare il procedimento di mediazione nel termine ivi previsto. Quest’ultimo risultava ritualmente avviato dalla parte attrice, ma i convenuti decidevano di non aderire al tentativo, asserendo di essere intenzionati a proporre appello immediato contro detta pronuncia, in quanto a loro dire manifestamente erronea, e ritenendo, quindi, superflua la partecipazione alla procedura di mediazione.
Si trattava, quindi, di valutare le conseguenze della mancata partecipazione dei convenuti ritualmente convocati al procedimento di mediazione attivato, nella fattispecie, dall’attore su impulso del giudice ex art. 5 D.lgs n. 28 del 2010, in particolare alla luce di quanto previsto dal menzionato art. 8 dello stesso decreto legislativo, secondo il quale, ove la mancata partecipazione non dipenda da un giustificato motivo, il giudice può desumerne argomento di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’art. 116, co. 2, c.p.c.
All’interno dell’apparato motivazionale della pronuncia in esame, il giudice rileva innanzitutto il fatto che, “…quanto alla possibilità di valorizzare, nel processo, come argomento di prova a sfavore di una parte determinate condotte della stessa (nella specie la mancata comparizione in mediazione, senza giustificato motivo, della parte convocata) si confrontano nella giurisprudenza due diverse opinioni.
Secondo una prima tesi la decisione del giudice non può essere fondata esclusivamente sull’art. 116 c.p.c, cioè su circostanze alle quali la legge non assegna il valore di piena prova, potendo tali circostanze valere in funzione integrativa e rafforzativa di altre acquisizioni probatorie.
Secondo altra opinione non vi è alcun divieto nella legge affinché il giudice possa fondare solo su tali circostanze la sua decisione, valendo come unico limite quello di una coerenza e logica motivazionale in relazione al caso concreto.
È espressione della prima teoria l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la norma dettata dall’art. 116 comma 2 c.p.c., nell’abilitare il giudice a desumere argomenti di prova dalle risposte date dalle parti nell’interrogatorio non formale, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni da esso ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo, non istituisce un nesso di consequenzialità necessaria tra eventuali omissioni e soccombenza della parte ritenuta negligente, ma si limita a stabilire che dal comportamento della parte il giudice possa trarre argomenti di prova, e non basare in via esclusiva la decisione, che va comunque adottata e motivata tenendo conto di tutte le altre risultanze (fra le tante Cassazione civile, sez. trib., 17/01/2002, n. 443)
”.
La motivazione prosegue osservando come “…la norma in questione merita senz’altro una maggiore utilizzazione anche se a differenza di altri casi in cui da una determinata circostanza è consentito ritenere provato tout court il fatto a carico della parte che tale circostanza subisce, in questo caso la legge prevede che il giudice possa utilizzarla per trarre dalle circostanze valorizzate argomenti di prova.
La norma dell’art. 116 c.p.c. viene richiamata dal legislatore della mediazione (art. 8 decr. lgs. cit.) nell’ambito della ricerca ed elaborazione di una serie di incentivi e deterrenti volti a indurre le parti, con la previsione di vantaggi per chi partecipa alla mediazione e di svantaggi per chi al contrario la rifugge, a comparire in sede di mediazione al fine di pervenire a un accordo amichevole che prevenga o ponga fine alle liti.
Ne consegue, tali essendo le finalità dell’inserimento nel decreto lgs. 28/10, che equivarrebbe a tradire l’intento del legislatore svalutare la portata di tale norma considerandola una mera e quasi irrilevante appendice nel corredo dei mezzi probatori istituiti dall’ordinamento giuridico.
Va considerato che nell’attuale situazione della giustizia civile, affetta da una endemica ed apparentemente insuperabile crisi principalmente nei tempi di risposta alla domanda di giustizia, causata dalla imponente mole di cause iscritte nei tribunali e delle corti, e viste le sempre più gravi conseguenze, economiche ed ordinamentali, derivanti dal ritardo nella definizione dei processi, sia necessario rivalutare, senza forzature ma con la doverosa umiltà dell’interprete, ciò che è scritto nella legge.
È necessario tuttavia fissare delle regole precise al riguardo. Deve essere ben chiaro in primo luogo che giammai la mancata comparizione in sede di mediazione potrà costituire argomento per corroborare o indebolire una tesi giuridica, che dovrà sempre essere risolta esclusivamente in punto di diritto.
A favore o contro la parte non comparsa in mediazione.
Ed infatti lo strumento offerto dall’art. 116 c.p.c. attiene ai mezzi che il giudice valuta, nell’ambito delle prove libere (vale a dire dove si esplica il principio del libero convincimento del giudice precluso in presenza di prova legale ) ai fini dell’accertamento del fatto.
L’argomento di prova appartiene all’ampio armamentario degli strumenti utilizzati dal giudice in un ambito in cui non opera la prova diretta, vale a dire quella dove si ha a disposizione un fatto dal quale si può fondare direttamente il convincimento.
Nel processo di inferenza dal fatto al convincimento l’argomento di prova ha la stessa potenzialità probatoria indiretta degli indizi.
E come le presunzioni semplici ha come stella polare il criterio della prudenza (art. 2729 c.c.) che deve illuminarne l’utilizzo da parte del giudice.
Ciò detto si ritiene di poter affermare che la mancata comparizione della parte regolarmente convocata, come nel caso in esame, davanti al mediatore costituisce di regola elemento integrativo e non decisivo a favore della parte chiamante, per l’accertamento e la prova di fatti a carico della parte chiamata non comparsa.
Con ciò non si intende svalorizzare quella giurisprudenza della Suprema Corte che ha ritenuto che l’effetto previsto dall’art. 116 c.p.c può – secondo le circostanze – anche costituire unica e sufficiente fonte di prova (Cassazione civile, sez. III, 16/07/2002, n. 10268, che così si esprime: , Cass. 6 luglio 1998 n. 6568; 1 aprile 1995 n. 3822; 5 gennaio 1995 n. 193; 14 settembre 1993 n. 9514; 13 luglio 1991 n. 7800; 25 giugno 1985 n. 3800).
Ritiene infatti il giudice che secondo le circostanze del caso concreto gli argomenti di prova che possono essere tratti dalla mancata comparizione della parte chiamata in mediazione ed a carico della stessa nella causa alla quale la mediazione, obbligatoria o delegata, pertiene, a seconda dei casi possano costituire integrazione di prove già acquisite, ovvero unica e sufficiente fonte di prova
”.
Sulla base delle considerazioni che precedono, il Giudice ha conseguentemente condannato la parte convenuta, ritenendo la mancata partecipazione al procedimento di mediazione finalizzata al perseguimento di intenti meramente dilatori, dal momento che, “…quanto al giustificato motivo dell’assenza, l’affermazione della convenuta circa la sussistenza dello stesso in relazione alla ritenuta erroneità della sentenza parziale, da essa appellata, non può essere condivisa.
Traslando tale ragionamento in generale si potrebbe infatti affermare che ogni qualvolta la controparte ritenga erronea la tesi della parte che l’ha convocata in mediazione (in questo caso la censura riguarda la sentenza del giudice), e pertanto inutile la sua partecipazione all’esperimento di mediazione, sia validamente dispensata dal comparirvi.
L’esponente non si avvede che in tal modo sussisterebbe sempre un giustificato motivo di non comparizione, se è vero com’è vero che se la controparte condividesse la tesi del suo avversario (o come in questo caso, le ragioni della sentenza non definitiva emessa a suo carico) la lite non potrebbe neppure insorgere e se insorta verrebbe subito meno. La ragione d’essere della mediazione si fonda proprio sulla esistenza di un contrasto di opinioni, di vedute, di volontà, di intenti, di interpretazioni etc. che il mediatore esperto tenta di sciogliere favorendo l’avvicinamento delle posizioni delle parti fino al raggiungimento di un accordo amichevole
”.

Improcedibilità della domanda per difetto di mediazione e condanna alle spese

Come è noto, quando la parte interessata, in una delle materie ricomprese nell’elenco di cui all’art. 5 del decreto legislativo n. 28 del 2010, non provvede ad introdurre preliminarmente il procedimento di mediazione, la domanda giudiziale deve essere dichiarata improcedibile.
Tale declaratoria deve essere resa con sentenza, dal momento che si tratta evidentemente di una statuizione di natura decisoria, anche se solo in rito.
Orbene, quando il giudice, rilevato il mancato esperimento del tentativo di mediazione, assegna il termine entro il quale lo stesso deve essere avviato, detto termine risulta ovviamente riferibile ad entrambe le parti: con altrettanta chiarezza, tuttavia, va affermato che, in assenza di domande riconvenzionali, la parte convenuta in giudizio non può avere alcun interesse alla procedibilità dell’azione, con la conseguenza che la parte attrice sarà condannata alle spese senza che ricorrano le gravi ed eccezionali ragioni richieste dalla legge per la compensazione.
D’altra parte, come evidenziato dal Tribunale di Lamezia Terme (sentenza 22 giugno 2012), quanto sopra affermato deriva dal principio generale ricavabile dall’art. 91 c.p.c., in forza del quale le spese di lite vanno poste a carico della parte che, azionando una pretesa accertata come infondata o resistendo all’altrui pretesa fondata, abbia dato causa ad un giudizio od al suo protrarsi.
Ecco il testo della pronuncia con le relative motivazioni.

TRIBUNALE CIVILE DI LAMEZIA TERME
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il giudice, dott.ssa Giusi Ianni ha pronunciato la seguente

SENTENZA

FATTO E DIRITTO
Va dichiarata l’improcedibilità della domanda per mancato espletamento del tentativo obbligatorio di mediazione ai sensi dell’art. 5 d.lgs. 28/2010.
All’esito, infatti, dell’esaurimento della fase a cognizione sommaria del procedimento, con il diniego dell’ordinanza di rilascio invocata dall’intimata e contestualmente al mutamento del rito ai sensi degli artt. 426 e 667 c.p.c., è stato assegnato alle parti termine per l’instaurazione della procedura di mediazione, rientrando le cause locatizie tra quelle obbligatoriamente assoggettate al predetto onere (in caso di sfratto per morosità una volta disposto il mutamento del rito, ex art. 5, comma 4, lettera b, d.lgs. 28/2010) .
Non avendo, pertanto, le parti dato corso alla procedura (per come concordemente dichiarato), la domanda sottesa all’intimazione di sfratto per morosità deve essere dichiarata improcedibile.
La declaratoria di improcedibilità assume la forma della sentenza, trattandosi di statuizione di ordine decisorio (benché solo in rito).
Le spese di lite si liquidano come da dispositivo e vengono poste a carico di parte intimante, quale parte che con la propria condotta ha dato avvio al procedimento senza poi compiere gli adempimenti necessari per la sua prosecuzione.
In forza, infatti, del criterio generale di cui all’art. 91 c.p.c., le spese di lite vanno poste a carico della parte che, azionando una pretesa accertata come infondata o resistendo ad una pretesa fondata, abbia dato causa al processo o alla sua protrazione e che debba qualificarsi tale in relazione all’esito finale della controversia. Causare un processo, tuttavia, significa anche costringere alla sopportazione di un’iniziativa giudiziaria rivelatasi incompleta, per la mancata ottemperanza agli oneri procedurali sottesi alla sua definizione. Se, quindi, è vero che, in generale, il termine per la mediazione viene per legge assegnato ad entrambe le parti, è altrettanto evidente che in assenza di domande riconvenzionali la parte evocata in giudizio può non avere alcun interesse alla procedibilità dell’azione, sicché non sussistono le gravi ed eccezionali ragioni richieste dalla legge per la compensazione.
P.Q.M.
Il Tribunale di Lamezia Terme in composizione monocratica, nella persona del giudice dott.ssa Giusi Ianni, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da … nei confronti di …, con atto di intimazione di sfratto per morosità notificato il 9 settembre 2011, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattese, così provvede:
1. Dichiara l’improcedibilità della domanda di risoluzione contrattuale sottesa all’intimazione di sfratto per morosità notificata da ..;
2. Condanna, per l’effetto, il … alla rifusione, in favore del resistente, delle spese e competenze del presente giudizio, che si liquidano in complessivi euro 1.147,00, di cui euro 647,00 per diritti ed euro 500,00 per onorari, oltre rimborso forf. spese generali, IVA e CPA come per legge, da distrarsi in favore del procuratore costituito dichiaratosi antistatario;
3. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza.

Lamezia Terme, 22 giugno 2012

IL GIUDICE
dott.ssa Giusi Ianni

Mediazione-civile-d.lgs-28-2010

Mediazione: un primo bilancio

Riportiamo i dati, riferiti al periodo che va da marzo 2011 (entrata in vigore dell’obbligatorietà del tentativo di mediazione nelle materie di cui all’art. 5 D.lgs n.28 del 2010) a maggio 2012, forniti dalla Direzione generale di statistica del Ministero della Giustizia.
Dal 21 marzo 2011 a tutto il mese di maggio 2012, le istanze di mediazione presentate presso gli organismi accreditati sono state 125.561. I procedimenti conclusi con la conciliazione delle parti sono stati circa 14.000. I procedimenti in cui vi è stata l’adesione della parte chiamata in mediazione ammontano al 35% del totale.
Un primo punto fermo va innanzitutto rilevato: nei procedimenti in cui la parte invitata decide di partecipare al tentativo, la percentuale di successo raggiunge il 50% (con un tasso di successo che sale, ed in maniera consistente, con riferimento alle liti di piccolo valore: si pensi che per quanto concerne le controversie fino a mille euro la percentuale raggiunge il 64,6%).
Il tutto, dinanzi ad organismi di mediazione che hanno raggiunto quota 813, anche se tale dato è riferito alla fine di marzo 2012.
Di rilevante interesse appare anche la suddivisione per materia delle istanze di mediazione presentate nel periodo gennaio – maggio 2012:

risarcimento danni da circolazione di veicoli e di natanti 11.915
altra natura della controversia 10.346
diritti reali 9.522
locazione 7.235
contratti bancari 5.320
contratti assicurativi 4.472
responsabilità medica 4.056
divisione 2.843
condominio 2.694
successioni ereditarie 2.453
contratti finanziari 1.458
comodato 963
diffamazione a mezzo stampa 728
affitto di aziende 644
patti di famiglia 102

Dalle cifre sopra riportate sembrano potersi trarre alcune prime considerazioni.
Innanzitutto, pur vigendo l’obbligatorietà del tentativo di mediazione soltanto dal 21 marzo 2012, la materia del risarcimento dei danni cagionati dalla circolazione dei veicoli è già balzata al primo posto della classifica, come del resto non risultava arduo prevedere, dal momento che in detto ambito sono circa 300.000 le nuove cause introdotte ogni anno.
Indubbiamente nella mediazione così come introdotta in Italia non mancano gli aspetti ”perfettibili”: al di là delle questioni pendenti dinanzi la Corte Costituzionale, la stessa Commissione Europea, nelle osservazioni rese alla Corte di Giustizia che dovrà pronunciarsi sulla compatibilità del D.lgs n. 28 del 2010 con le norme del diritto comunitario, non ha mancato di porre l’accento sulle problematiche rappresentate dal fatto che il mediatore possa (e a volte debba) formulare una proposta conciliativa che le parti potrebbero essere indotte ad accettare onde evitare conseguenze economiche sfavorevoli e, inoltre, dalla previsione di sanzioni, in sede processuale, a carico della parte vincitrice che non abbia aderito ad una ipotesi di accordo poi integralmente riprodotta dal provvedimento giurisdizionale.
Orbene, anche a voler prescindere per il momento dalle considerazioni che precedono, due sono gli aspetti sui quali sembra più urgente soffermarsi sulla base dei dati menzionati, l’uno di carattere per così dire statistico, l’altro attinente agli aspetti ”culturali” della mediazione.
Sotto il primo profilo, si è già avuto modo di rilevare come risultino ampiamente positivi i riscontri relativi ai casi in cui la parte chiamata in mediazione aderisca al procedimento: appare evidente l’opportunità di introdurre nuovi e più efficaci incentivi a tal fine.
Ma evidentemente il problema prioritario sembra quello rappresentato dai tempi, verosimilmente non brevi, necessari a quell’approdo di carattere culturale che la mediazione certamente rappresenta. La difficoltà del transito da una logica di contrapposizione ad un approccio ”compositivo” del conflitto non è un aspetto da sottovalutare: basti pensare alla diffusa ostilità di una rilevante parte dell’avvocatura nei confronti dell’obbligatorietà della mediazione.
In ogni caso, una nuova strada sembra ormai intrapresa: se è vero, infatti, che le iscrizioni a ruolo di processi ordinari di cognizione sono diminuite dal 2010 al 2011 in misura pari all’8,5% (e le cause pendenti del 3%) anche per altre cause, come le riforme di natura processuale e l’aumento del contributo unificato, certamente in questo trend il ruolo giocato dall’obbligatorietà della mediazione non può essere sottovalutato.

corso mediatori, corso aggiornamento mediatori

Il CNF contro il taglio dei tribunali e delle procure sub-provinciali

Mentre sembra profilarsi, presso la Camera dei deputati, l’ipotesi di un sì ”condizionato” al taglio delle sedi dei giudici di pace, il CNF torna a contrastare nel suo complesso il progetto di riduzione degli uffici giudiziari.

In commissione Giustizia, infatti, i relatori Enrico Costa (Pdl) e Mario Cavallaro (Pd) hanno presentato una proposta di parere favorevole allo schema di decreto legislativo approntato dal Governo, ma a condizione che risultino effettivamente garantiti i seguenti quattro punti:

a)    attuazione congiunta delle deleghe relative agli uffici dei Giudici di Pace e agli uffici giudiziari, onde poter verificare la permanenza diffusa nei territori di un presidio di giustizia;

b)    valutazione, attraverso parametri oggettivi, ai fini dei carichi di lavoro, dei procedimenti penali e civili, oltre a quelli di natura amministrativi;

c)    non considerazione del numero minimo di centomila abitanti per ciascun circondario, in quanto non riconducibile ad alcun criterio direttivo contenuto nella delega;

d)    integrale attuazione della delega in base ai criteri sub b), tenendo nel dovuto conto le peculiarità del territorio e le infrastrutture, con particolare riguardo alle zone montane, alle isole e ai più consistenti nuclei abitati storicamente beneficiari di un presidio giudiziario di prossimità o di cui si evidenzia l’opportunità alla luce della situazione socio economica o delle esigenze derivanti dalla presenza sul territorio della criminalità organizzata.

Nel contempo, il Consiglio nazionale forense torna in campo contro i ventilati tagli ai piccoli tribunali. I quali, secondo l’organismo professionale degli avvocati, «non porteranno ai risparmi previsti dal Governo», dal momento che «i risparmi effettivi sono di gran lunga inferiori a quelli stimati dal ministero della Giustizia»; a tale riguardo, il CNF rende noto di averlo verificato lavorando sui dati delle commissioni di manutenzione. Si parla, peraltro, di mille sedi a rischio tra le quali luoghi simbolo della lotta alla mafia. L’avvocatura chiede «chiarezza al Governo sulla revisione della geografia giudiziaria, che secondo le intenzioni di Palazzo Chigi porterebbe a sopprimere 674 uffici del Giudice di Pace, 37 tribunali sub-provinciali e 160 sezioni distaccate». Prima di proporre i tagli in via definitiva, l’organismo forense chiede di «individuare fabbisogni standard degli uffici, applicare il criterio dei costi standard superando quello della spesa storica e valutare i costi generati dalla riduzione delle circoscrizioni giudiziarie in termini di logistica, trasporti, sedi, impatto ambientale e fasi transitorie». E’ tuttora in corso la ricerca del gruppo di lavoro congiunto fra il CNF e l’associazione nazionale Comuni d’Italia per completare il censimento dei costi e dei fabbisogni effettivi della geografia giudiziaria. «L’azione del CNF per la revisione della geografia giudiziaria – spiega il Consiglio nazionale forense – parte dall’analisi di 48 dei 57 tribunali sub provinciali presenti sul territorio nazionale, acquisendo un significativo campione dell’efficienza media e del relativo costo medio». Orbene, ad avviso del gruppo CNF-Anci, «37 tribunali sub provinciali presi in esame su 57 comportano una spesa annuale di 25.6 milioni di euro mentre 160 sezioni distaccate su 220 generano una spesa annua complessiva di 15.9 milioni; importi, perciò, ben lontani dagli 80 milioni stimati dal Governo». Inoltre, sempre secondo la nota del CNF, «la soppressione annunciata non tiene conto dei costi che l’amministrazione dovrebbe comunque sostenere per garantire il passaggio di personale e attività ai tribunali provinciali, a cui si aggiungono gli ingenti costi in termini di maggiori spese e impatto ambientale che andranno a gravare sulla collettività e sui singoli cittadini». Il Consiglio nazionale forense ha quindi deliberato di avviare un’opera di sensibilizzazione contro il rischio di produrre danni maggiori dei benefici «non avendo la revisione della geografia giudiziaria una base di dati completi e affidabili».

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